Europa

  1. Preistoria
  2. L’età antica
  3. Il medioevo
  4. L’età moderna
  5. L’età contemporanea
1. Preistoria

I primi insediamenti umani in Europa di cui si ha notizia risalgono al paleolitico inferiore, a circa 900.000 anni fa. Tracce di comunità di “homines erecti” sono state rinvenute in Francia, a Vallonet presso Nizza, e in Istria, a Sandalja. Di poco posteriori (circa 800.000 anni fa) sono i resti di civiltà paleolitiche in Cecoslovacchia. I primi popoli europei giunsero dall’Africa, dove si era compiuto il processo di ominazione. Nel paleolitico superiore, a partire da 30.000 anni fa, iniziarono a prendere forma aree di civiltà differenti nel continente, con la divisione tra una civiltà atlantica e occidentale, una civiltà mediterranea e una orientale. Col passaggio al neolitico, e probabilmente per influenza delle civiltà orientali asiatiche, l’agricoltura comparve dapprima in Grecia, in Tessaglia, nel VII millennio a.C., e successivamente nell’area mediterranea, nei Balcani e lungo il corso del Danubio, diffondendosi poi da est verso ovest e da sud verso nord. Nel neolitico la società assunse forme patriarcali e guerriere, che conservò a lungo nel corso della preistoria e delle prime epoche storiche. Al III millennio risale l’arrivo dei popoli indoeuropei, decisivo per la storia futura del continente: degli odierni popoli europei, solo i finnici, i baschi, gli ungheresi e gli ebrei non appartengono a tale ceppo. Il frazionamento geografico del continente, ricco di isole, penisole e catene montuose, favorì il pluralismo etnico-culturale, oltre che politico. Anche il ceppo indoeuropeo si frazionò in numerose aree di civiltà spesso autonome e con scarsi contatti tra loro per lunghi periodi. Erano indoeuropei, infatti, i greci, i celti, gli illiri, i veneti, i latini, i germani, gli slavi, i lettoni, i lituani, gli albanesi: popoli che in luoghi e tempi diversi popolarono e civilizzarono il continente. Lo sviluppo di una civiltà europea unitaria, pur nelle specificità nazionali e regionali, fu il frutto di un lungo processo storico, che affondò le proprie radici, almeno a livello culturale, nell’età antica.

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2. L’età antica

Le matrici fondamentali della civiltà europea sono state quattro: la cultura greca, quella romana, la religione ebraico-cristiana e il mondo germanico. Il termine “Europa” è di origine greca e si trova per la prima volta in Esiodo (VIII secolo a.C.) e nel poema anonimo Ad Apollo Pitio : significa “colei che ha grandi occhi” o “grande volto”. Secondo il mito esiodeo, Europa fu la madre di Minosse, re di Creta e fondatore della splendida civiltà da cui provenne la cultura greca. Geograficamente, “Europa” indicò per i greci lo spazio di diffusione della civiltà ellenica, comprendendo inizialmente le terre che costeggiano da occidente il Mar Egeo, più tardi anche il Mediterraneo e il Mar Nero, ad esclusione della Scizia e delle aree abitate da popoli considerati barbari e senza leggi. La consapevolezza che l’Europa costituisse un’area di civiltà con una propria identità culturale si affermò in occasione delle guerre contro i persiani. Fu Erodoto (484-25 a.C.), che scrisse la storia di quel conflitto, a riflettere per primo sulle differenze tra Occidente e Oriente, definendo l’Asia come la terra del dispotismo e l’Europa come la patria del senso morale, della virtù civile e dell’amore per la scienza. La differenza tra la civiltà europea e quella orientale fu spiegata anche in sede scientifica con la teoria del clima, che ebbe duratura fortuna nella cultura occidentale fino a Montesquieu e Hegel. La formulazione classica di tale teoria si trova nella Politica di Aristotele, (384-22 a.C.) dove si dice che il clima ha un’influenza determinante sul carattere dei popoli e quindi sulla loro costituzione politica. Il clima caldo, tipico del continente asiatico, rende gli uomini timidi e remissivi, e quindi naturalmente disposti alla tirannide. La civiltà orientale risulta perciò ricca e fiorente, ma dispotica e priva di libertà. Il clima freddo delle terre del nord favorisce invece la bellicosità, per cui i popoli che le abitano sono barbari e senza leggi, ma liberi e difficilmente soggiogabili. Il clima ideale, per Aristotele, è quello greco, che costituisce una via di mezzo tra il caldo orientale e il freddo del nord: esso consente lo sviluppo di una civiltà evoluta come quella orientale, ma senza i tratti dispotici delle sue costituzioni politiche. In Grecia si trova così l’intelligenza dei popoli orientali unita allo spirito libero e alla volontà di partecipazione dei popoli del nord. Il contrasto tra Oriente e Occidente si spense in età ellenistica, quando Alessandro Magno (356-23 a.C.), sconfitto l’impero persiano, conquistò un immenso territorio in Asia e in Africa, favorendo la diffusione della cultura greca e la sua fusione con le altre culture dell’impero nella cosiddetta “koinè” ellenistica. Anche la civiltà romana non sviluppò il tema del confronto tra l’Europa e l’Asia, per via del carattere mediterraneo, più che europeo, dell’impero cui diede vita (Roma antica). Non solo, infatti, facevano parte dell’impero le coste mediterranee dei continenti africano e asiatico, ma proprio in Oriente si trovavano le città più importanti dopo Roma, come Alessandria e Costantinopoli. Il contrasto avvertito con più nettezza in età romana fu quello tra il mondo civilizzato, cioè romanizzato, e la barbarie. Il termine “barbaro”, di origine greca, indicava presso i romani i popoli privi delle complesse istituzioni politiche e della cultura giuridica in cui essi vedevano il cuore della propria civiltà. Numerosissimi autori, come Strabone di Lampsaco (58 a.C. – 21 d.C.), attribuirono a Roma la missione storica di unificare le genti del mondo in un impero che a tutte desse leggi e governo. La civilizzazione dei popoli richiedeva la loro romanizzazione: il mondo germanico, per esempio, cessò di essere considerato barbaro quando, entrato in contatto con l’impero, ne assimilò gli elementi culturali di base. Caratteristiche importanti dell’impero romano furono la tolleranza delle diversità culturali e religiose, quando queste non entravano in conflitto con i valori portanti dello stato (come nel caso della religione cristiana), e la concessione di una certa autonomia amministrativa alle singole nazioni. Una svolta storica decisiva si ebbe nel IV secolo d.C., quando l’impero si convertì al cristianesimo, in un processo le cui tappe principali furono l’editto di Milano (313) di Costantino, che rese il cristianesimo “religio licita”, e l’editto di Tessalonica (380) di Teodosio, che ne fece la religione ufficiale dell’impero. La chiesa, perseguitata fino all’epoca di Diocleziano (284-305), divenne un’istituzione fondamentale dell’impero. Iniziò in questo periodo una graduale fusione delle culture greca, romana ed ebraico-cristiana che, con l’apporto delle tradizioni delle genti germaniche, costituì il nucleo originario della civiltà europea. Negli stessi secoli (IV-V) le invasioni barbariche travolsero l’impero romano d’Occidente (la cui fine viene convenzionalmente datata nel 476, anno della deposizione di Romolo Augustolo) e ridimensionarono l’impero romano d’Oriente, che, ad eccezione del precario tentativo di Giustiniano (527-565) di riunificare il Mediterraneo, si localizzò e grecizzò, rinunciando all’ideale universalistico della cultura imperiale romana. In occidente si formarono i regni romano-barbarici, che conservarono tratti di continuità con la civiltà romana, pur nell’evidente rottura con le precedenti istituzioni politiche. I tentativi barbarici di reprimere la cultura romana e cattolica (come quello dei vandali in Africa) fallirono rapidamente, mentre si rivelarono interessanti le soluzioni di coabitazione e di doppia amministrazione (“ai barbari le armi, ai romani il governo”), adottate da ostrogoti e visigoti, e la fusione delle élites dominanti barbarica e gallo-romana attuata dai franchi a partire dalla conversione del re Clodoveo intorno al 500. Nella storia d’Europa si produsse così una nuova frattura tra Occidente e Oriente, consolidata dalla divisione della chiesa cristiana in cattolico-romana e greco-ortodossa. Dopo alcuni secoli di superiorità civile e culturale dell’oriente bizantino, fu il mondo romano-barbarico a determinare la successiva evoluzione della civiltà europea. L’impero orientale conobbe poi un irreversibile declino e crollò definitivamente nel 1453 di fronte all’avanzata dei turchi ottomani.

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3. Il medioevo

Un evento determinante per la definizione dell’area di sviluppo della civiltà occidentale fu l’espansione degli arabi a partire dal VII secolo. Essa produsse una profonda frattura rispetto all’antica civiltà romana: le invasioni dei popoli germanici avevano travolto le istituzioni politiche dell’impero, ma ne avevano conservato le fondamenta sociali, economiche e culturali; i territori conquistati dagli arabi, invece, subirono una radicale trasformazione nell’assetto sociale, culturale e religioso. Il Mediterraneo perse la propria unità e si divise in tre aree di civiltà: islamica nel Nord Africa e nel medio oriente, bizantina nell’Europa orientale e romano-germanica nell’Europa occidentale. L’espansionismo islamico minacciò di costruire un nuovo impero unitario intorno al Mediterraneo, ma la sconfitta subita dagli arabi a Poitiers (732) ad opera dei franchi di Carlo Martello scongiurò tale pericolo. Nella storia dell’Europa occidentale ebbe grande rilievo la formazione dell’impero carolingio (800) da parte del re franco Carlo Magno. L’ambizioso progetto si rivelò fragile e precario e non sopravvisse alla morte del suo autore, ma come primo tentativo di unificare l’occidente su basi cristiane, romane e germaniche esercitò grande influenza sul futuro del continente. L’opera di cristianizzazione dei popoli non ancora convertiti, attuata da Carlo Magno talvolta con brutalità, si inserì in un disegno di unificazione politico-religiosa che non fu travolto dalla dissoluzione dell’impero. A partire da questo periodo, anzi, e per tutto il corso del medioevo, la civiltà europea identificò se stessa con la “respublica christiana”. Un contributo alla creazione della coscienza di un’identità cristiana occidentale venne dalle “scholae palatinae”, fondate dall’imperatore con la collaborazione dei più insigni intellettuali dell’epoca. Nei secoli successivi la cristianizzazione dei popoli europei fu completata dalla conversione, al rito romano o bizantino, di slavi, bulgari, normanni, russi, ungari, polacchi e dalla “reconquista” al cristianesimo delle aree islamizzate della Sicilia (a opera dei normanni) e della Spagna (in un lungo processo terminato nel 1492). Dall’XI al XIV secolo non fu quasi mai usato il termine “Europa”, bensì quello di “christianitas”, indicativo dell’elemento comune che legava in unità i diversi popoli. Nel basso medioevo la chiesa produsse un organico progetto di società, strutturata nei tre ceti degli “oratores”, “bellatores” e “laboratores” e fondata sull’identità religiosa. La “respublica christiana” si articolò in un’ampia varietà di soluzioni politiche – regni, principati, vescovati, comuni, città libere – che il Sacro Romano Impero non riuscì a ricondurre a unità nemmeno sotto le dinastie o le personalità più forti (come i Sassoni nel X secolo, Enrico IV nell’XI e gli Svevi nel XII-XIII). I papi, soprattutto i più energici (Gregorio VII, Innocenzo III, Bonifacio VIII), si proposero come suprema autorità “super partes”, garante della pace e della giustizia. La pace tra i cristiani non escluse, anzi implicò la guerra agli infedeli: dalla fine dell’XI a quella del XIII secolo la chiesa promosse numerose crociate sia contro i musulmani (in oriente e in Spagna), sia contro gli eretici (è noto lo sterminio degli albigesi nella crociata bandita da Innocenzo III nel 1209). Nello stesso periodo le università, controllate dal clero, produssero una cultura che, circolando a livello internazionale, contribuì alla formazione di una comune coscienza europea e cristiana. Anche l’uso universale della lingua latina nella cultura dotta concorse all’avvicinamento degli intellettuali dell’intero continente. Nel XIV secolo iniziò la crisi dei grandi poteri universali del papato e dell’impero. Gli stati di dimensione nazionale (Francia, Inghilterra, poi Spagna) o regionale (signorie italiane, stati tedeschi) rivendicarono la propria sovranità, che non riconosceva la superiore autorità del papa o dell’imperatore. Furono emblematici, da questo punto di vista, il conflitto che oppose il re di Francia Filippo IV il Bello a Bonifacio VIII e il trasferimento della corte pontificia da Roma ad Avignone (1305-1377), sotto il controllo politico dei re di Francia. A livello teorico vi fu chi (come Dante Alighieri) sostenne ancora la funzione universale dell’impero come garanzia della pace e dell’unità del genere umano, ma si svilupparono nuove concezioni più aderenti alla nuova situazione. Pierre Dubois, per esempio, propose di affidare la tutela del “summum bonum” della pace non più all’imperatore, ma a una confederazione di stati nazionali indipendenti (“superiorem non recognoscentes”), legati da norme comuni per superare i conflitti. Non mancarono nei secoli seguenti vagheggiamenti dell’antico ideale universalistico, in riferimento talvolta all’autorità papale (Pio II), talvolta al potere imperiale (Mercurino da Gattinara) e talvolta a entrambi i poteri (Leibniz). Ci furono anche tentativi concreti di rifondare l’unità delle genti cristiane o degli stati europei, ma nessuno di essi ebbe successo. Fu assai significativa in questo senso la parabola dell’imperatore Carlo V il quale, educato all’ideale universalistico di Mercurino da Gattinara e ai valori del cristianesimo erasmiano, cercò con ogni mezzo di imporre la propria egemonia politica sul continente e il controllo religioso dell’impero. Egli dovette tuttavia accettare la frantumazione religiosa prodotta dalla Riforma protestante (pace di Augusta, 1555) e abdicare dividendo l’impero tra il fratello Ferdinando I e il figlio Filippo II. Nel XV secolo ai processi di trasformazione politica si aggiunse un grande movimento di rinascita culturale e spirituale, che si espresse nelle stagioni del Rinascimento e Umanesimo. Gli umanisti cercarono nel recupero della cultura classica latina e greca l’impulso per ridare all’uomo centralità nell’universo e orgoglio della propria dimensione terrena, sostituendo la medievale visione del mondo teocentrica, trascendente e ascetica con una prospettiva antropocentrica. Nella nuova atmosfera spirituale furono esaltate la libertà e la dignità dell’uomo, “faber fortunae suae”. Gli umanisti attribuirono all’uomo il dovere di utilizzare al meglio le doti ricevute da Dio attraverso una vita attiva e impegnata, anche in campo civile e politico. L’Umanesimo nacque in Italia, ma fu un movimento di dimensione europea ed ebbe in Erasmo da Rotterdam l’intellettuale che si batté con maggior tenacia per affermare la pace come valore assoluto e per ricostruire l’unità dei popoli cristiani al di là di ogni differenza politica e confessionale. La nuova cultura rafforzò il senso dell’identità europea degli intellettuali, grazie anche alla maggiore circolazione di libri in seguito all’invenzione della stampa a caratteri mobili da parte di Gutenberg (1450). L’Europa, frazionata politicamente e religiosamente, si trovò così unita come “respublica litterarum”. Un evento di fondamentale importanza nella storia del continente fu la caduta dell’impero romano d’Oriente. Esso fu conquistato nel 1453 dai turchi ottomani, che imposero per secoli nella zona balcanica strutture sociopolitiche asiatiche e la religione islamica. Dopo la caduta di Bisanzio, il centro della religione ortodossa divenne Mosca, il cui zar Ivan III, che aveva sposato la figlia di Tommaso Paleologo, ultimo imperatore bizantino, trasformò la chiesa bizantina in chiesa nazionale dell’impero russo.

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4. L’età moderna

Nel XVI secolo l’Europa, che nel medioevo era stata un continente economicamente e culturalmente tutto sommato marginale rispetto a civiltà ricche, colte e potenti come quella islamica, conquistò progressivamente l’egemonia sul resto del mondo. Già nel corso del XV secolo una serie sistematica di viaggi aveva consentito di conoscere nuove terre e nuove rotte, fino alla scoperta del continente americano da parte di Cristoforo Colombo (1492) e alla circumnavigazione dell’Africa ad opera di Vasco de Gama (1497). Nel Cinquecento spagnoli e portoghesi si impegnarono nello sfruttamento delle nuove possibilità economiche offerte dalle scoperte geografiche, tramite la conquista di ampie fette del continente americano e un nuovo rapporto con i mercati asiatici, non più mediato dai mercanti arabi e veneziani. La principale conseguenza in Europa di questi processi fu la cosiddetta rivoluzione atlantica. L’economia mediterranea, soprattutto italiana, entrò in declino, mentre emersero progressivamente le nazioni proiettate sull’Atlantico o sul mare del Nord: dapprima spagnoli e portoghesi, poi, nel XVII secolo, olandesi, inglesi e francesi. Si aprì così la stagione del colonialismo europeo. La conquista del continente americano, sfociata in un vero e proprio genocidio delle popolazioni locali, mise gli europei in contatto con usi e costumi totalmente differenti dai propri. Questo incontro stimolò la riflessione sull’identità europea: da un lato la presunta arretratezza civile degli amerindi generò in molti osservatori un senso di una superiorità culturale e perfino razziale; dall’altro ci fu chi trasse dall’esperienza della diversità argomenti a sostegno di tesi relativistiche o, addirittura, motivi di autocritica. Il panorama delle posizioni fu ampio: si svilupparono tesi razziste come quella di Sepulveda, che negò agli amerindi la piena appartenenza alla specie umana, definendoli “homunculi”; posizioni moderate, come quella di Montaigne, che criticò il concetto di barbarie, frutto dall’abitudine di ogni popolo a valutare i costumi in relazione alla propria tradizione, elevata a criterio di verità; affermazioni filoindiane come quella di Bartolomeo de Las Casas sulla virtù dei popoli del nuovo mondo, non ancora corrotti dall’avidità, dall’ambizione e dalla crudeltà degli europei; convinzioni radicali come quella di Tommaso Campanella, secondo il quale la civiltà del vecchio mondo, ormai in fase di irreversibile decadenza, poteva far sopravvivere i propri valori solo nel continente americano con l’evangelizzazione delle popolazioni locali. L’esaltazione della bontà e dell’intelligenza naturale degli indios fu un tema classico della riflessione seicentesca e nella cultura dell’Illuminismo produsse poi il mito del buon selvaggio. Un’altra area di civiltà extraeuropea, l’oriente asiatico, ormai conosciuto in modo diretto dai mercanti europei grazie alla circumnavigazione dell’Africa, apparve a molti patria di una civiltà antica e saggia, prospera e felice, meritevole di ammirazione e rispetto. Nella letteratura occidentale si diffuse, parallelamente al mito del buon selvaggio, il culto esotico dell’oriente, spesso utilizzato per criticare i difetti della civiltà europea, come nelle celebri Lettere persiane di Montesquieu. L’apertura culturale e letteraria ai “diversi” non escluse comunque che l’Europa si sentisse legittimata a conquistare e a sfruttare territori e popoli degli altri continenti. Nacque dunque il sentimento della missione universale dell’Occidente, destinato a civilizzare e a unificare economicamente il mondo. Nel frattempo, nel XVI secolo la Riforma protestante produsse una frattura definitiva nella christianitas medievale, strappando alla chiesa cattolica numerose regioni europee che da allora seguirono la confessione luterana (mondo tedesco, Danimarca, Svezia) o calvinista (Svizzera, Olanda, Inghilterra). L’Europa conobbe la nuova divisione tra il nord, prevalentemente protestante e riformato, e il sud cattolico. Se nell’antichità il sud aveva rappresentato la civiltà, contrapposta alla barbarie del nord, ora il giudizio si invertì: il settentrione divenne l’area della purezza e della possibile rigenerazione dell’Europa, mentre il meridione fu considerato il luogo della corruzione e della decadenza degli autentici valori cristiani. Jean Bodin riprese l’antica teoria dei climi per sostenere la nuova convinzione, collegando il freddo nordico con la virtù e il caldo meridionale con la corruzione. La Riforma protestante ebbe relazioni, ancora discusse dagli storici, con l’evoluzione politica ed economica del continente: la confessione luterana contribuì all’affermazione del principio politico dell’assolutismo, mentre quella calvinista promosse l’ideale della partecipazione della società alla vita politica. In campo economico vi fu un nesso, secondo Max Weber, tra l’etica protestante, soprattutto calvinista, e la nascita del moderno spirito del capitalismo. La chiesa reagì alla Riforma in modo articolato: operò un ampio rinnovamento interno (sostenuto dalla nascita di nuovi ordini come quello dei gesuiti), reagì con fermezza alle tesi riformate e controllò con severità e spirito repressivo la vita spirituale e culturale nei paesi cattolici. Con il concilio di Trento (1545-63) si aprì il periodo della Controriforma, che condizionò lo sviluppo culturale, scientifico, morale, civile e politico degli stati cattolici nei secoli successivi. La frattura della cristianità provocò un lungo periodo di tensioni e guerre di religione in tutta l’Europa e particolarmente nel mondo tedesco, in Francia e nei Paesi Bassi. I conflitti religiosi si intrecciarono con le guerre per la conquista dell’egemonia in Europa, che accompagnarono l’affermazione delle monarchie nazionali. L’imperatore Carlo V, il re di Spagna Filippo II, l’imperatore asburgico Ferdinando II, il re di Francia Luigi XIV, nello sforzo di imporre la propria egemonia, gettarono il continente in lunghi e logoranti periodi di guerra. Nello stesso tempo la diplomazia tentò a più riprese di attivare i principi dell’equilibrio tra le potenze, sperimentati in Italia con la pace di Lodi (1454), ma affermatisi a livello europeo con le paci di Vestfalia (1648) e di Utrecht (1713), che conclusero rispettivamente la guerra dei Trent’Anni e la guerra di Successione spagnola. Nel Seicento si diffuse anche l’ideale del federalismo. Il nuovo Cinea (1623) di Crucè e il Gran Disegno di Sully anticiparono temi sviluppati nei secoli successivi (europeismo). Sotto il profilo politico, nel corso del Seicento i grandi stati nazionali superarono la frantumazione del potere tipica delle monarchie feudali in direzione della centralizzazione assolutistica, realizzata nel modo più celebre dal re di Francia Luigi XIV. In Inghilterra, dopo un secolo travagliato da alterne fasi di rivoluzione e di restaurazione, si realizzò per la prima volta una monarchia costituzionale, rispettosa dei diritti dei cittadini (sanciti definitivamente nel Bill of rights del 1689) e fondata sui princìpi della rappresentanza e della divisione dei poteri. Nel Cinquecento e nel Seicento si produsse in Europa una profonda rivoluzione culturale, di cui furono espressione la rivoluzione copernicana, il metodo di Galilei, il sistema di Newton, e la nascita delle filosofie razionalistiche ed empiristiche. Il XVIII secolo fu l’età dell’Illuminismo, che dalla Francia diffuse in tutta l’Europa una rinnovata fiducia nella capacità della ragione di risolvere i problemi dell’uomo e di guidarlo verso la conquista della felicità. Il male che aveva finora impedito all’umanità di realizzare la libertà individuale e la giustizia sociale fu individuato dai philosophes nell’oscurantismo, alimentato dai privilegi dei potenti e delle chiese. La nuova mentalità giustificò l’aspirazione della borghesia al superamento dell’ancien règime e sostenne lo sforzo dei sovrani impegnati nella modernizzazione delle strutture politiche e socioeconomiche dei propri stati. Tra il 1760 e il 1780 si generalizzò l’esperienza del dispotismo illuminato, che vide convergere gli interessi dei sovrani e della borghesia. Furono significativi in tal senso i regni di Federico II in Prussia, di Maria Teresa e Giuseppe II nell’impero asburgico, di Caterina II in Russia, e il governo del granduca Pietro Leopoldo in Toscana. L’Illuminismo fece poi propri l’ideale dell’uguaglianza di tutti gli uomini in quanto soggetti razionali e il cosmopolitismo. Da qui una rinnovata attenzione alle altre civiltà, con l’ammirazione per la saggezza della Cina, la tolleranza religiosa dei musulmani e la positiva semplicità del “buon selvaggio”. L’Europa rifletté anche su se stessa, talvolta autocriticamente, più spesso nella certezza di essere il continente della libertà e del progresso. Così Montesquieu oppose la libertà degli stati europei al dispotismo degli imperi asiatici e Voltaire esaltò il dinamismo della civiltà europea, culturalmente unita nonostante la frantumazione politica, che non trovava l’analogo nel resto del mondo. Il cosmopolitismo, poi, alimentò nuove teorie federalistiche. Rousseau sostenne un ideale federalistico che non soffocasse le specificità nazionali, ma configurasse l’Europa come unità nella diversità. Kant auspicò la nascita di organismi confederali mondiali per garantire la stabilità della pace. Evento fondamentale per la realizzazione e diffusione europea degli ideali illuministici fu la Rivoluzione francese, che smantellò in Francia i residui dell’ancien régime e promosse esperimenti politici liberali e democratici. La nascita di movimenti giacobini in altri stati e, soprattutto, la diffusione dei nuovi codici dell’età napoleonica attivarono un processo di trasformazione politica e sociale di portata europea, che la Restaurazione non riuscì a cancellare.

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5. L’età contemporanea

Nel XIX secolo il diffondersi della rivoluzione industriale impresse una svolta fondamentale nella storia materiale dell’Europa. Iniziata in Inghilterra negli ultimi decenni del Settecento, si diffuse nel resto del continente durante la prima metà del nuovo secolo. La produzione, grazie all’affermazione di nuove tecnologie, si moltiplicò in ogni settore economico, consentendo uno sviluppo strettamente intrecciato con la crescita demografica. La parallela rivoluzione dei trasporti produsse un’integrazione economica dapprima nazionale e continentale, con la nascita e la rapida diffusione delle comunicazioni ferroviarie, poi, grazie alla navigazione a vapore, mondiale. Si consolidò così la borghesia imprenditoriale, ormai pronta a entrare da protagonista sulla scena politica. E si pose anche la “questione sociale”, connessa alla nascita della nuova classe del proletariato urbano. L’affermazione politica della borghesia richiese una lunga lotta contro i privilegi della nobiltà e del clero e contro la struttura assolutistica degli stati. La prima metà dell’Ottocento fu caratterizzata politicamente dal conflitto tra l’Europa dei sovrani, sostenitori di una concezione assolutistica e paternalistica del potere, e l’Europa delle nazioni, espressione delle istanze ideali e politiche delle borghesie. Dopo la sconfitta di Napoleone, nel congresso di Vienna (1814-15) le potenze vincitrici ridisegnarono la carta geopolitica del continente sulla base dei principi dell’equilibrio e della legittimità. Con la Santa Alleanza si affermarono i princìpi della solidarietà internazionale tra i sovrani nella repressione di ogni insurrezione. Si aprì così l’età della Restaurazione, caratterizzata dal tentativo di frenare l’affermazione delle idee di nazione e di libertà, largamente diffuse dalla Rivoluzione francese e dall’impero napoleonico. L’idea di nazione fu il frutto dell’evoluzione in senso storicistico della cultura romantica, che rifiutò il cosmopolitismo illuministico e rivalutò le peculiari tradizioni di ogni popolo. Sebbene gli intellettuali cercassero di dimostrare il primato morale e spirituale del proprio popolo (in particolare il tedesco Fichte, gli italiani Mazzini e Gioberti, il francese Guizot), l’idea di nazione non fu inizialmente in contrasto con l’ideale di un’Europa pacifica e unitaria. Il primato nazionale fu infatti concepito come missione di guida degli altri popoli sulla via del progresso materiale e spirituale e non come giustificazione di pretese egoistiche e prevaricatrici (come doveva poi avvenire nella seconda metà del secolo). In questo periodo maturò ulteriormente, sebbene ancora minoritario, l’ideale federalista europeo, sostenuto da intellettuali come Saint-Simon, Cattaneo, Mazzini e Proudhon. L’età della Restaurazione fu scossa da ondate di moti insurrezionali e rivoluzionari, portatori di istanze dapprima solo liberali e nazionali (moti del 1820-21 e moti del 1830-31), poi, con la crescita della partecipazione politica della piccola borghesia e della classe operaia, anche democratiche e socialiste (rivoluzioni del 1848-49). Nella seconda metà del secolo la borghesia raggiunse l’egemonia sociale in tutte le nazioni più industrializzate. L’economia entrò nell’età della cosiddetta “seconda rivoluzione industriale”, caratterizzata da un crescente legame tra ricerca scientifica e produzione economica, dalla concentrazione monopolistica delle imprese, dalla razionalizzazione dell’organizzazione del lavoro, dal ruolo fondamentale delle banche e delle nuove forme di finanziamento industriale, dal massiccio intervento dello stato nella tutela degli interessi degli imprenditori nazionali (con misure protezionistiche contro la concorrenza straniera, commesse statali, ecc.). Il bisogno di materie prime a basso costo e di nuovi mercati provocò una nuova corsa delle potenze europee alle colonie, soprattutto in Africa e in Asia (imperialismo). Inizialmente il numero delle potenze interessate agli immensi territori da esplorare e da conquistare fu relativamente ridotto (e tra queste primeggiavano Inghilterra e Francia), per cui fu possibile concordare pacificamente e diplomaticamente la spartizione. Successivamente, la riduzione dei territori disponibili e l’aumento delle potenze imperialistiche causarono un’aggressiva rivalità che inasprì le relazioni internazionali. In quegli anni, inoltre, dopo secoli di egemonia incontrastata dell’Europa sul resto del mondo, iniziarono a emergere potenze extraeuropee come gli Stati Uniti e il Giappone, che entrarono nella competizione imperialistica, talvolta infliggendo sconfitte umilianti alle tradizionali potenze europee. Nella guerra russo-giapponese del 1904-1905 per la prima volta nella storia moderna uno stato europeo fu sconfitto da una nazione di razza non bianca. L’umiliazione fu particolarmente sentita in un periodo in cui andavano diffondendosi teorie razziste sulla superiorità biologica della razza bianca, destinata a dominare e a civilizzare il mondo intero (razzismo). La crescente rivalità tra gli stati modificò il significato del nazionalismo: l’idea di nazione cessò di essere legata all’aspirazione all’unità del continente e si trasformò in esaltazione del “sacro diritto” di ogni popolo a coltivare l’egoismo nazionale. Dopo il quarantennio di pace inaugurato dal congresso di Vienna, l’Europa conobbe nuovamente le guerre per l’egemonia. La nascita degli stati italiano (1861) e soprattutto tedesco (1871), la politica dell’imperatore francese Napoleone III e il declino della potenza austriaca fecero cadere i pilastri su cui aveva poggiato l’equilibrio costruito dal cancelliere austriaco Metternich. Verso la fine del secolo il continente, soprattutto con l’avvento al trono in Germania del nuovo imperatore Guglielmo II, entrò in una fase di inasprimento delle rivalità nazionali. L’Europa si frantumò anche economicamente, per la concorrenza tra le grandi potenze capitalistiche e per la diversa velocità di sviluppo tra gli stati e tra le regioni all’interno degli stati. Le aree più arretrate furono penalizzate dal rapido sviluppo di quelle avanzate. Ne conseguì, tra l’altro, un movimento migratorio di milioni di persone dai paesi poveri verso quelli in grado di assorbire forza lavoro. Si trattò del più imponente spostamento demografico dai tempi delle invasioni barbariche. Le classi lavoratrici crebbero numericamente e aumentarono la propria capacità organizzativa, creando ovunque sindacati e partiti socialisti e popolari e confrontando le proprie esperienze nella Prima (1864-76) e nella Seconda (1889-1914) Internazionale. Nel mondo culturale, a un periodo di generale fiducia positivistica nei progressi della scienza e della tecnica (positivismo), subentrò, verso la fine del secolo, una fase di crisi di certezze e di abbandono nichilistico dei valori progressisti che avevano accompagnato le lotte politiche liberali, democratiche e socialiste. Si determinò un clima irrazionalistico che consentì la diffusione di massa di ideologie nazionaliste, razziste e belliciste, contribuendo ad arroventare lo scenario politico europeo. Fu quindi da un insieme complesso di fattori politici, economici e culturali che derivò l’esplosione della prima guerra mondiale (1914-18). L’Europa fu coinvolta in modo pressoché totale nel conflitto, che assorbì l’intera vita civile e le risorse materiali degli stati europei, provocando la morte di circa dieci milioni di persone. L’Europa uscì dalla guerra impoverita e declassata. Crollarono il Reich tedesco e l’impero austroungarico, sconfitti dall’Intesa, e lo stato autocratico russo, travolto nel 1917 dalla rivoluzione bolscevica. Tutti gli stati, vincitori e sconfitti, dovettero affrontare nel 1918 il problema della ricostruzione di sistemi economici e sociali sconvolti dalla guerra. Il vero vincitore fu una potenza extraeuropea, gli Stati Uniti, dal sistema industriale più solido e produttivo del mondo, che con i crediti degli anni di guerra e con i finanziamenti per la ricostruzione esercitarono un forte controllo sull’economia degli stati europei. Dalla Rivoluzione russa nacque una nuova frattura nel continente: al sistema capitalistico degli stati occidentali si oppose il nuovo sistema comunista sovietico, che nel biennio 1919-21 ispirò in tutta l’Europa la nascita dei partiti comunisti e, in alcuni paesi (Germania, Ungheria, Italia), tentativi rivoluzionari, tutti peraltro falliti. Di fronte al pericolo rosso le potenze europee favorirono l’affermazione di regimi autoritari di destra, soprattutto negli stati confinanti con l’Unione Sovietica, secondo la politica del “cordone sanitario”. La grande guerra mise drammaticamente in rilievo i pericoli del nazionalismo, stimolando la ricerca di nuove soluzioni al problema dei rapporti tra gli stati. La Società delle Nazioni, promossa dal presidente statunitense Wilson, tentò di sostituire al vecchio principio dell’equilibrio l’alleanza e la pari dignità di tutti i popoli, cui doveva essere riconosciuto il diritto di autodeterminazione. Essa rimase tuttavia priva di reali poteri e non riuscì a evitare le nuove degenerazioni nazionalistiche dei decenni successivi. I più lungimiranti intellettuali e politici europei (Stresemann, A. Briand, Croce, Th. Mann) auspicarono l’unità politica del continente. Negli anni Venti nacque il movimento paneuropeo, fondato da Coudenhove-Kalergi, ispirato all’ideale confederale (europeismo). In un celebre discorso alla Società delle Nazioni del 1929, il ministro francese Aristide Briand propose la nascita degli Stati Uniti d’Europa. Ma i tempi non erano ancora maturi, come dimostrarono i drammatici eventi del decennio successivo. Negli stati più fragili sorsero regimi di tipo totalitario: il fascismo in Italia, il nazionalsocialismo in Germania e lo stalinismo in Russia (totalitarismo). Il clima internazionale tornò ad arroventarsi, soprattutto a causa della politica aggressiva condotta dall’Italia fascista e dalla Germania nazista a partire dal 1935. Hitler cercò di risolvere la crisi tedesca proiettando il paese verso la costruzione di un “nuovo ordine europeo”. Esso doveva fondarsi sull’unione di tutti i tedeschi in un unico stato; sulla conquista di uno “spazio vitale” a est, dove sottomettere e sfruttare la razza considerata inferiore degli slavi; e sull’eliminazione della razza ebraica, ritenuta demoniaca e pericolosa. Trasgredendo i trattati internazionali, Hitler ricostituì un forte esercito tedesco e operò una serie di invasioni-annessioni nel biennio 1938-39 (Austria, Cecoslovacchia e Polonia) a cui gli stati occidentali, per timore di una nuova guerra, non si opposero con fermezza. L’alleanza con l’Italia nel 1936 (cementata dal comune appoggio al generale Franco nella guerra civile spagnola), con il Giappone (1937) e il patto di non aggressione con l’URSS (1939), crearono le condizioni di un nuovo assalto al potere mondiale. Quando le truppe tedesche invasero la Polonia, Francia e Inghilterra abbandonarono infine ogni esitazione e dichiararono guerra alla Germania. La seconda guerra mondiale (1939-45) fu la più tragica della storia, con un costo umano di 50 milioni di morti, di cui 7 milioni nei campi di concentramento e di sterminio tedeschi (6 milioni di ebrei) e numerosissime vittime nella popolazione civile. Fu una guerra totale, che coinvolse l’intera popolazione degli stati belligeranti: ogni attività economica fu finalizzata allo sforzo bellico, le città e i civili furono oggetto di continui bombardamenti e rappresaglie, le popolazioni parteciparono attivamente al conflitto con la Resistenza ai regimi di occupazione nazifascisti. Fu anche una guerra ideologica tra il nazifascismo e la democrazia, con la temporanea alleanza tra la democrazia capitalistica occidentale e il socialismo sovietico nella comune lotta contro Hitler. La sconfitta finale del nazifascismo non evitò all’Europa un ulteriore declassamento a livello mondiale: i veri vincitori furono una potenza extraeuropea, gli Stati Uniti, e una solo in parte europea, l’Unione Sovietica. Il continente fu diviso in due zone di influenza: l’Europa dell’est entrò nell’orbita sovietica, l’Europa occidentale in quella americana. La Germania fu divisa in zone di occupazione, trasformate nel 1949 in due repubbliche (Repubblica Federale Tedesca e Repubblica Democratica Tedesca), sotto il rispettivo controllo delle due superpotenze. Anche la città di Berlino fu divisa in zone di occupazione: ciò fu fisicamente sottolineato dal muro costruito dai russi (1961) per evitare fughe di tedeschi dell’est in occidente. Nelle rispettive zone di influenza le superpotenze esercitarono un forte controllo politico: Stalin impose la nascita di regimi socialisti in tutti i paesi dell’est, gli Stati Uniti finanziarono la ripresa economica degli stati occidentali a condizione che allontanassero i comunisti dall’area di governo (Italia, Francia). Nel 1948 la Iugoslavia, che si era liberata dall’occupazione nazista senza aiuti stranieri, si staccò dal blocco dell’est, pur conservando un regime socialista, e contribuì alla fondazione del movimento dei paesi non allineati. I paesi dell’est furono caratterizzati da sistemi politici a partito unico, strettamente sorvegliati dall’URSS, e dal controllo statale dell’economia. La produzione dei diversi stati socialisti fu coordinata nel Comecon (Consiglio di mutua assistenza economica, 1949), in una programmazione che privilegiò l’industria pesante e, secondariamente, l’agricoltura, a scapito dei beni di consumo (imponendo alle popolazioni un tenore di vita molto più basso che nei paesi occidentali). Dove si tentarono ribellioni antisovietiche o esperienze nuove e autonome da Mosca (in Ungheria nel 1956 e in Cecoslovacchia nel 1968), l’URSS intervenne sistematicamente con la forza. In Occidente si affermarono sistemi politici democratici, pluralistici e parlamentari (le ultime dittature fasciste in Grecia, Spagna e Portogallo, caddero negli anni Settanta) e regimi di economia mista. Grazie ai finanziamenti americani del piano Marshall (1947) e alle iniziative di integrazione economica europea, dal 1945 agli anni Sessanta si ebbe un periodo di crescita che in alcune situazioni assunse i tratti del “miracolo economico”. I caratteri generali dello sviluppo, che generò il fenomeno sociale del consumismo, furono una rapida industrializzazione, lo spopolamento delle campagne e intensi movimenti migratori verso le aree più industrializzate. Nonostante la crescita della ricchezza complessiva, non vennero cancellati gli squilibri tra le diverse regioni e classi sociali. Pertanto si sviluppò anche in Occidente un movimento di contestazione del modello di sviluppo, particolarmente attivo nel biennio 1968-69 e nei primi anni Settanta. Nel 1973 la crisi petrolifera gettò l’economia europea in una crisi contrassegnata dalla concomitanza di stagnazione produttiva e continuo aumento dei prezzi. Dopo una temporanea ripresa negli anni Ottanta, negli anni Novanta l’economia europea fu ancora in difficoltà. La storia europea del secondo dopoguerra fu caratterizzata anche dal processo di decolonizzazione. Alle nazioni sconfitte nella seconda guerra mondiale (Germania e Italia) le colonie furono sottratte con i trattati di pace. Tra il 1945 e il 1965 anche le altre potenze (Francia, Inghilterra, Belgio, Olanda) persero quasi tutte le colonie, a volte pacificamente, a volte dopo lunghe guerre di liberazione (guerra franco-algerina, 1954-62). Per ultimo, crollò l’impero coloniale portoghese in Africa, in seguito alla rivoluzione contro il regime di Salazar (1974). I rapporti politici tra le due Europe seguirono l’evoluzione dei rapporti tra le superpotenze. Negli anni della guerra fredda, gli stati occidentali si allearono con gli Stati Uniti nella NATO (1949); i paesi dell’est si unirono invece nel Patto di Varsavia (1955). Negli anni Settanta la distensione tra le superpotenze consentì in Europa il miglioramento dei rapporti tra le due Germanie e tra i due blocchi. In tale contesto ebbero grande rilievo la “Ostpolitik” del cancelliere socialdemocratico della RFT Willy Brandt e la conferenza di Helsinki (1973) per la sicurezza e la cooperazione in Europa. Un’ulteriore distensione, dopo un periodo di inasprimento dei rapporti all’inizio degli anni Ottanta, si ebbe con la nomina a segretario del PCUS di Gorbacëv (1985). La sua politica di dialogo con i presidenti americani Reagan e Bush, l’impegno per un disarmo bilaterale e la svolta democratica all’interno dell’URSS e con i paesi dell’est, inaugurarono una nuova era nelle relazioni internazionali. L’esito decisivo delle trasformazioni in atto si ebbe nel 1989, con il crollo del “socialismo reale” nei paesi dell’est, dove libere elezioni e pacifiche manifestazioni (solo in Romania si ebbe una guerra civile) cancellarono i sistemi comunisti e inaugurarono una nuova, anche se tuttora problematica, stagione di sviluppo democratico. Simbolo della nuova era fu la distruzione del muro di Berlino (9 novembre 1989). Nel 1990 le due Germanie si riunificarono e nel 1991 l’Unione Sovietica si trasformò nella Comunità degli Stati Indipendenti. Il crollo dell’Unione Sovietica provocò, però, l’esplosione di nuovi nazionalismi, con numerose guerre civili tra i diversi gruppi etnici e religiosi. Il dramma dei nazionalismi e dell’intolleranza etnica e religiosa sconvolse negli anni Novanta anche la Iugoslavia, aprendo un drammatico conflitto, le cui lacerazioni cominciarono a essere ricomposte solo nei primi anni Duemila. Nel secondo dopoguerra prese anche l’avvio il faticoso processo dell’integrazione economica e politica del continente. L’europeismo conobbe nuovi e importanti sviluppi, che ebbero un punto di riferimento fondamentale nel “Manifesto per un’Europa libera” (1941) redatto a Ventotene da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi. E a partire dal 1949, quando fu istituito il Consiglio d’Europa, fu avviata la costruzione delle grandi strutture della Comunità Europea. Nel 1992 il trattato di Maastricht pose infine le premesse per la nascita dell’Unione Europea. L’integrazione economica, ma soprattutto politica, si rivelò un obiettivo difficile, a causa della resistenza da parte dei singoli stati a rinunciare alla piena sovranità nazionale. I problemi maggiori furono posti dalla differente velocità di sviluppo dei diversi paesi, dai contrastanti interessi economici e dalla diffidenza delle destre nazionaliste e delle sinistre più radicali. Un importante passo avanti fu comunque compiuto il 1° gennaio 1999, quando fu adottata la moneta unica europea, l’euro. Ai primi undici paesi dell’Unione Europea che rinunciarono alle proprie monete nazionali – Austria, Belgio, Finlandia, Germania, Francia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna – si aggiunsero successivamente Grecia (2001), Slovenia (2007), Cipro (2008), Malta (2008), Slovacchia (2009), Estonia (2011). Nel frattempo, il crollo dei regimi socialisti in Europa orientale e la loro transizione verso la democrazia di stampo liberale aprì nuove prospettive all’integrazione, che, in effetti, negli anni successivi intraprese un processo di progressivo allargamento a oriente, contribuendo così al superamento delle divisioni politiche, economiche e culturali imposte per un cinquantennio dalla logica della guerra fredda. Tale processo avvenne in due fasi: la prima (2004) interessò Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Slovacchia, Slovenia, Repubblica Ceca e Unheria; la seconda (2007) interessò Bulgaria e Romania. Questo complesso processo di ampliamento pose tuttavia la necessità di una revisione dell’assetto istituzionale dell’Unione Europea e in particolare di un superamento del Trattato di Nizza del 2001. A tale scopo fu quindi convocato uno speciale organo straordinario – la Convenzione Europea, istituita nel 2001 – al quale fu assegnato il compito di redigere il testo della Costituzione Europea (più precisamente il testo del Trattato per l’adozione della Costituzione europea). Tale Costituzione non però mai in vigore, per via della sua mancata approvazione nel 2005 da parte dell’elettorato francese e olandese. Tale inaspettata interruzione del processo di ratifica rappresentò un grave momento di crisi per il progetto europeista, il quale tuttavia, soprattutto grazie all’iniziativa del cancelliere tedesco Angela Merkel, fu ripreso e portato avanti grazie all’accordo siglato nel giugno 2007 a Bruxelles e formalizzato nel dicembre dello stesso anno con il Trattato di Lisbona. Accanto alle difficoltà e alle contraddizioni poste dal processo di avanzamento dell’integrazione europea, nei primi anni Duemila il vecchio continente dovette far fronte anche a un’altra complessa serie di sfide. La prima coincise con la minaccia rappresentata dal terrorismo globale, il quale, all’indomani degli attacchi del settembre 2001 a New York, colpì anche Madrid (marzo 2004) e Londra (luglio 2005). La seconda coincise invece con la sempre più agguerrita concorrenza economica dei paesi in via di rapida industrializzazione – primi fra tutti la Cina e l’India – che rese necessario un ripensamento strutturale del sistema produttivo europeo in vista di una maggiore competitività sul piano tecnologico.
Negli anni più recenti, a queste prime grandi sfide se ne sono poi aggiunte almeno altre due, rispettivamente rappresentate dall’ondata di proteste di massa che nel 2011 ha sconvolto la regione nordafricana e, di fatto, riaperto la questione mai del tutto risolta di un’unica e coerente politica estera europea e poi dalla crisi finanziaria globale avviatasi nel 2008, che ha determinato una netta compressione non solo della produzione industriale, ma anche dei livelli occupazionali e degli standard di benessere, finendo per mettere gravemente a rischio lo stesso futuro dell’eurozona. [Sergio Parmentola]

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