colonialismo

  1. Premessa
  2. Dalla scoperta dell’America alla Rivoluzione francese
  3. Il colonialismo nell’età contemporanea
1. Premessa

Il termine colonialismo non indica semplicemente una politica indirizzata alla creazione di colonie (colonizzazione), ma implica in senso proprio l’idea di un’espansione coloniale realizzata attraverso la forza e l’aggressione ai danni di popoli considerati più arretrati e selvaggi, rispetto ai quali gli europei ritennero di poter accampare diritti di superiorità etnica e culturale: una conquista il più delle volte violenta e realizzata nel nome dell’autorità politico-statale e religiosa della madrepatria, che si arrogò quasi sempre ogni potere di sfruttamento economico e sociale delle colonie. Il colonialismo è dunque al tempo stesso una dottrina e una prassi politica complessa che tende – sulla base di una stigmatizzazione delle civiltà diverse e di una presunta superiorità di quelle europee e occidentali cristiane – alla giustificazione e alla promozione delle colonizzazioni forzate e dell’imposizione formale o informale, diretta e spesso indiretta, del dominio sui territori conquistati. In tal senso il colonialismo fu anche una forma di imperialismo. La storia del colonialismo si fa iniziare con uno degli eventi che segnano l’avvio dell’età moderna, la scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo il 14 ottobre 1492 (anche se i portoghesi si erano già insediati a partire dalla metà del XV secolo nelle Azzorre, poi nelle Isole del Capo Verde e sulle coste dell’Africa occidentale), e termina con il compimento del processo di decolonizzazione nella seconda metà del Novecento (a prescindere dalle problematiche, tuttora irrisolte, sollevate dal neocolonialismo). La storia del colonialismo attraversa schematicamente due fasi: quella del primo colonialismo fino al termine del XVIII secolo, nella quale si distinsero gli spagnoli e i portoghesi nel Cinquecento e gli olandesi, gli inglesi e i francesi nel Sei-Settecento; e quella compresa tra la fine del Settecento, l’Ottocento e la prima metà del Novecento, di cui furono protagonisti soprattutto la Gran Bretagna e la Francia (seguiti da Belgio, Germania e Italia) dopo la crisi e poi il disfacimento degli imperi coloniali spagnolo e portoghese.

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2. Dalla scoperta dell’America alla Rivoluzione francese

Se l’obiettivo principale del colonialismo portoghese verso sud-est nel secolo XV fu marcatamente commerciale, coi tentativi di B. Diaz e di V. De Gama di scoprire e consolidare nuove vie per le Indie e soppiantare così i traffici gestiti da Venezia e dagli arabi, la scoperta dell’America e il trattato di Tordesillas (1494) – che suddivise l’Oceano Atlantico e il mondo al servizio della penetrazione spagnola e portoghese (a oriente e a occidente della linea meridiana che passava a 370 miglia marine a ovest delle isole del Capo Verde) – aprirono una fase secolare caratterizzata ancora dall’impianto di basi mercantili sulle rotte africane e dell’Oceano Indiano, ma soprattutto da stabili insediamenti di sfruttamento umano, minerario e agricolo nelle Indie occidentali e sul continente americano. Entro il 1535 i conquistadores spagnoli H. Cortés, F. Pizarro, P. de Valdivia e D. de Almagro assicurarono ai “re cattolici” l’intera America centrale, i Caraibi e la parte occidentale dell’America meridionale dal Venezuela all’attuale Argentina. I portoghesi occuparono con P.A. Cabral nel 1500 le regioni costiere del Brasile e proseguirono nel corso del XVI secolo la conquista di ampi territori in Angola, Mozambico, India, Cina e Indonesia. È noto con quali metodi fu portata a termine la colonizzazione delle Americhe: completa spoliazione delle popolazioni indigene e loro asservimento, quando non addirittura il genocidio. Tali metodi furono denunciati anche da osservatori spagnoli come il frate domenicano B. De Las Casas nella sua Brevissima relazione sulla distruzione delle Indie (1542). Se ciò portò all’introduzione di leggi speciali, rimaste peraltro disattese, per la difesa del mondo indio, il risultato complessivo della colonizzazione spagnola e portoghese (che, con Filippo II, fu associata negli interessi della corona spagnola) fu tuttavia quello di una assimilazione coatta, benché mitigata da scrupoli religiosi, che si tradusse nella distruzione delle civiltà indigene. Lo strumento principale fu dato dall’encomienda, l’azienda agricola ereditaria (in Paraguay i gesuiti fondarono invece le reducciones, pervase di spirito comunitario e religioso). Non dissimilmente (per quanto più lentamente) andarono le cose nel Nord America. Nel 1534 i francesi arrivarono con J. Cartier nel Québec e nella seconda metà del Cinquecento anche gli inglesi fondarono, con W. Raleigh, la loro prima colonia in Virginia. Il grosso della colonizzazione nordamericana da parte delle potenze europee fu però completato nel Seicento, con gli insediamenti della Nuova Inghilterra (che portarono istanze protestanti di rifondazione religiosa e civile per lo più assenti nelle altre iniziative coloniali), l’ulteriore espansione spagnola sui territori del Colorado, del Rio Grande e della Florida, nonché della Francia in Canada, nella regione dei Grandi Laghi e, dal 1682, in Louisiana, nome dato inizialmente alla regione delle sorgenti del Mississippi in onore di Luigi XIV. I francesi, inoltre, si impossessarono di alcune isole delle Antille e della Guyana nell’America meridionale, mentre, in Asia, riuscirono a radicarsi in alcune località dell’India come Pondicherry e Chandernagore, vicino a Calcutta. Gli olandesi, scarsamente presenti nelle Americhe, crearono un vasto impero in Asia, da Ceylon alle grandi isole indonesiane fino alle Molucche (una regione in cui gli spagnoli s’erano impadroniti delle Filippine). Nel Settecento il quadro non si modificò in modo sostanziale (con l’ulteriore penetrazione francese in Senegal e nel Madagascar, olandese in Indonesia e Nuova Guinea, inglese nel Pacifico), salvo l’emergere graduale dell’Inghilterra – che si avviò, in seguito a profondi mutamenti politici, economici e sociali interni, a diventare la prima potenza mondiale – come stato egemone a spese della Francia. Al termine di una serie di conflitti coloniali, il trattato di Parigi del 1763, che pose fine alla guerra dei Sette anni, lasciava la Gran Bretagna praticamente padrona di tutta l’America settentrionale e ne segnava l’influenza preponderante in Africa e nelle Indie Orientali al posto della Francia. Nel periodo fin qui esaminato si stabilizzò uno schema economico bipolare di sfruttamento coloniale, secondo cui la madrepatria s’impadroniva delle materie prime e dei metalli preziosi delle colonie e vi esportava manufatti. Tale schema divenne “triangolare” con l’introduzione dell’Africa come riserva di schiavi, catturati da mercanti “negrieri” (soprattutto inglesi e olandesi) ed esportati nelle Americhe. Contro tale sistema di ingiustizia e di sopraffazione, sostanzialmente accettato e legittimato dalla civiltà europea moderna, si levò la denuncia di alcuni pensatori illuministi quali Raynal, autore di una Storia delle due Indie (1770), e Diderot alla vigilia della Rivoluzione francese. Già negli anni Sessanta, tuttavia, ebbe grande rilievo il segnale dato dalla rivolta dei coloni americani della Nuova Inghilterra, sfociata poi nella guerra rivoluzionaria che fece delle ex colonie britanniche, con la fondazione degli Stati Uniti d’America, il primo stato federale continentale della storia della civilizzazione umana.

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3. Il colonialismo nell’età contemporanea

I principi di libertà, d’eguaglianza e d’indipendenza sanciti dalle rivoluzioni americana e francese (e la dichiarazione del 1794 dei rivoluzionari francesi che aboliva la schiavitù e accordava la cittadinanza a tutti gli abitanti delle colonie), se non portarono nell’immediato ad altri rivolgimenti nel sistema coloniale, segnarono l’avvio di nuove trasformazioni, rese peraltro necessarie anche dallo sviluppo interno dei regimi politici europei e dalle esigenze dell’economia capitalistica. L’Ottocento, per questo aspetto, fu soprattutto il secolo della Gran Bretagna, che ampliò i suoi possedimenti coloniali fino all’occupazione di quasi tre quarti delle terre emerse (in Africa, Asia, India, Australia e Nuova Zelanda) e diede impulso a una vasta riforma amministrativa, sottraendo la direzione politica delle colonie alle compagnie private e attribuendola direttamente al governo o a organismi governativi. Se questo fu il primo passo, seguito anche in tempi e modi diversi dagli altri paesi coloniali, il secondo – nel quale invece la Gran Bretagna, ammaestrata dall’esperienza americana, restò pressoché isolata – fu di prendere in considerazione l’ipotesi di forme di limitato autogoverno locale a fronte delle spinte autonomistiche provenienti dalle classi dirigenti (di origine europea o meticce) enucleatisi nei precedenti secoli di dominio. Mentre la Gran Bretagna prese la via, realizzata nella seconda metà del secolo, della creazione di dominions, la Spagna, il cui impero nel Settecento era già in disfacimento, fu costretta a prendere atto della rivolta e della raggiunta indipendenza di pressoché tutte le sue colonie americane (perdendo anche Cuba nella guerra contro gli Stati Uniti alla fine del secolo e restando sostanzialmente con le sole Filippine). L’impero portoghese, pur non disintegrandosi come quello spagnolo (ma il Brasile aveva pacificamente dichiarato la sua indipendenza nel 1821), ed essendo peraltro legato da scopi per lo più commerciali, non manifestò nemmeno sintomi evolutivi. L’altra grande protagonista ottocentesca della storia coloniale fu la Francia che, specie durante il dominio di Napoleone III, mise in piedi un nuovo impero coloniale, rigidamente controllato dalla madrepatria, partendo dalla conquista dell’Algeria nel 1830, proseguendo nell’espansione verso il Senegal, il Marocco e l’Africa centro-orientale, per finire negli anni Sessanta con la conquista dell’Indocina (conclusa negli anni Novanta) e delle isole polinesiane. Gli ultimi trent’anni dell’Ottocento, l’età dell’imperialismo (nell’ambito del quale vanno inquadrati più propriamente i tentativi d’espansione, anche coloniale, di USA, Giappone e Russia), videro il consolidamento, anche dal punto di vista delle giustificazioni ideologiche, degli imperi britannico e francese e l’ascesa di nuovi attori quali la Germania e l’Italia, che avanzarono le loro pretese di dominio coloniale – la prima nell’Africa centro-meridionale (dal Camerun all’attuale Namibia), la seconda nell’Africa orientale (Eritrea, Somalia) e poi, nel Novecento, in Libia (1911-12) e in Etiopia (1935) – come segno di un acquisito status di potenza mondiale, ma anche come parte insopprimibile di un meccanismo economico-finanziario nel quale le colonie fungevano sia da fonte di materie prime a scarso o nullo prezzo sia da mercato di manufatti nei quali riversare gli investimenti finanziari e la produzione dell’industria nazionale. La competizione imperialistica sul terreno coloniale fu una delle principali cause della prima guerra mondiale (1914-18). Se il primo dopoguerra fu caratterizzato dalla parziale dismissione dei possedimenti coloniali della sconfitta Germania, solo dopo la seconda guerra mondiale (1939-45) prese l’avvio il processo di decolonizzazione, che portò gradualmente, negli anni Sessanta e Settanta, al tramonto del colonialismo e alla creazione di un grande numero di nuovi stati nazionali, nei cui confronti, tuttavia, s’instaurò spesso un sistema di relazioni che di fatto permise ai paesi dell’Occidente capitalisticamente avanzato di mantenere una sostanziale influenza egemonica (neocolonialismo). [Corrado Malandrino]

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