Lo sviluppo della rete ferroviaria in Europa 1850

Europa L’età contemporanea

Nel XIX secolo il diffondersi della rivoluzione industriale impresse una svolta fondamentale nella storia materiale dell’Europa. Iniziata in Inghilterra negli ultimi decenni del Settecento, si diffuse nel resto del continente durante la prima metà del nuovo secolo. La produzione, grazie all’affermazione di nuove tecnologie, si moltiplicò in ogni settore economico, consentendo uno sviluppo strettamente intrecciato con la crescita demografica. La parallela rivoluzione dei trasporti produsse un’integrazione economica dapprima nazionale e continentale, con la nascita e la rapida diffusione delle comunicazioni ferroviarie, poi, grazie alla navigazione a vapore, mondiale. Si consolidò così la borghesia imprenditoriale, ormai pronta a entrare da protagonista sulla scena politica. E si pose anche la “questione sociale”, connessa alla nascita della nuova classe del proletariato urbano. L’affermazione politica della borghesia richiese una lunga lotta contro i privilegi della nobiltà e del clero e contro la struttura assolutistica degli stati. La prima metà dell’Ottocento fu caratterizzata politicamente dal conflitto tra l’Europa dei sovrani, sostenitori di una concezione assolutistica e paternalistica del potere, e l’Europa delle nazioni, espressione delle istanze ideali e politiche delle borghesie. Dopo la sconfitta di Napoleone, nel congresso di Vienna (1814-15) le potenze vincitrici ridisegnarono la carta geopolitica del continente sulla base dei principi dell’equilibrio e della legittimità. Con la Santa Alleanza si affermarono i princìpi della solidarietà internazionale tra i sovrani nella repressione di ogni insurrezione. Si aprì così l’età della Restaurazione, caratterizzata dal tentativo di frenare l’affermazione delle idee di nazione e di libertà, largamente diffuse dalla Rivoluzione francese e dall’impero napoleonico. L’idea di nazione fu il frutto dell’evoluzione in senso storicistico della cultura romantica, che rifiutò il cosmopolitismo illuministico e rivalutò le peculiari tradizioni di ogni popolo. Sebbene gli intellettuali cercassero di dimostrare il primato morale e spirituale del proprio popolo (in particolare il tedesco Fichte, gli italiani Mazzini e Gioberti, il francese Guizot), l’idea di nazione non fu inizialmente in contrasto con l’ideale di un’Europa pacifica e unitaria. Il primato nazionale fu infatti concepito come missione di guida degli altri popoli sulla via del progresso materiale e spirituale e non come giustificazione di pretese egoistiche e prevaricatrici (come doveva poi avvenire nella seconda metà del secolo). In questo periodo maturò ulteriormente, sebbene ancora minoritario, l’ideale federalista europeo, sostenuto da intellettuali come Saint-Simon, Cattaneo, Mazzini e Proudhon. L’età della Restaurazione fu scossa da ondate di moti insurrezionali e rivoluzionari, portatori di istanze dapprima solo liberali e nazionali (moti del 1820-21 e moti del 1830-31), poi, con la crescita della partecipazione politica della piccola borghesia e della classe operaia, anche democratiche e socialiste (rivoluzioni del 1848-49). Nella seconda metà del secolo la borghesia raggiunse l’egemonia sociale in tutte le nazioni più industrializzate. L’economia entrò nell’età della cosiddetta “seconda rivoluzione industriale”, caratterizzata da un crescente legame tra ricerca scientifica e produzione economica, dalla concentrazione monopolistica delle imprese, dalla razionalizzazione dell’organizzazione del lavoro, dal ruolo fondamentale delle banche e delle nuove forme di finanziamento industriale, dal massiccio intervento dello stato nella tutela degli interessi degli imprenditori nazionali (con misure protezionistiche contro la concorrenza straniera, commesse statali, ecc.). Il bisogno di materie prime a basso costo e di nuovi mercati provocò una nuova corsa delle potenze europee alle colonie, soprattutto in Africa e in Asia (imperialismo). Inizialmente il numero delle potenze interessate agli immensi territori da esplorare e da conquistare fu relativamente ridotto (e tra queste primeggiavano Inghilterra e Francia), per cui fu possibile concordare pacificamente e diplomaticamente la spartizione. Successivamente, la riduzione dei territori disponibili e l’aumento delle potenze imperialistiche causarono un’aggressiva rivalità che inasprì le relazioni internazionali. In quegli anni, inoltre, dopo secoli di egemonia incontrastata dell’Europa sul resto del mondo, iniziarono a emergere potenze extraeuropee come gli Stati Uniti e il Giappone, che entrarono nella competizione imperialistica, talvolta infliggendo sconfitte umilianti alle tradizionali potenze europee. Nella guerra russo-giapponese del 1904-1905 per la prima volta nella storia moderna uno stato europeo fu sconfitto da una nazione di razza non bianca. L’umiliazione fu particolarmente sentita in un periodo in cui andavano diffondendosi teorie razziste sulla superiorità biologica della razza bianca, destinata a dominare e a civilizzare il mondo intero (razzismo). La crescente rivalità tra gli stati modificò il significato del nazionalismo: l’idea di nazione cessò di essere legata all’aspirazione all’unità del continente e si trasformò in esaltazione del “sacro diritto” di ogni popolo a coltivare l’egoismo nazionale. Dopo il quarantennio di pace inaugurato dal congresso di Vienna, l’Europa conobbe nuovamente le guerre per l’egemonia. La nascita degli stati italiano (1861) e soprattutto tedesco (1871), la politica dell’imperatore francese Napoleone III e il declino della potenza austriaca fecero cadere i pilastri su cui aveva poggiato l’equilibrio costruito dal cancelliere austriaco Metternich. Verso la fine del secolo il continente, soprattutto con l’avvento al trono in Germania del nuovo imperatore Guglielmo II, entrò in una fase di inasprimento delle rivalità nazionali. L’Europa si frantumò anche economicamente, per la concorrenza tra le grandi potenze capitalistiche e per la diversa velocità di sviluppo tra gli stati e tra le regioni all’interno degli stati. Le aree più arretrate furono penalizzate dal rapido sviluppo di quelle avanzate. Ne conseguì, tra l’altro, un movimento migratorio di milioni di persone dai paesi poveri verso quelli in grado di assorbire forza lavoro. Si trattò del più imponente spostamento demografico dai tempi delle invasioni barbariche. Le classi lavoratrici crebbero numericamente e aumentarono la propria capacità organizzativa, creando ovunque sindacati e partiti socialisti e popolari e confrontando le proprie esperienze nella Prima (1864-76) e nella Seconda (1889-1914) Internazionale. Nel mondo culturale, a un periodo di generale fiducia positivistica nei progressi della scienza e della tecnica (positivismo), subentrò, verso la fine del secolo, una fase di crisi di certezze e di abbandono nichilistico dei valori progressisti che avevano accompagnato le lotte politiche liberali, democratiche e socialiste. Si determinò un clima irrazionalistico che consentì la diffusione di massa di ideologie nazionaliste, razziste e belliciste, contribuendo ad arroventare lo scenario politico europeo. Fu quindi da un insieme complesso di fattori politici, economici e culturali che derivò l’esplosione della prima guerra mondiale (1914-18). L’Europa fu coinvolta in modo pressoché totale nel conflitto, che assorbì l’intera vita civile e le risorse materiali degli stati europei, provocando la morte di circa dieci milioni di persone. L’Europa uscì dalla guerra impoverita e declassata. Crollarono il Reich tedesco e l’impero austroungarico, sconfitti dall’Intesa, e lo stato autocratico russo, travolto nel 1917 dalla rivoluzione bolscevica. Tutti gli stati, vincitori e sconfitti, dovettero affrontare nel 1918 il problema della ricostruzione di sistemi economici e sociali sconvolti dalla guerra. Il vero vincitore fu una potenza extraeuropea, gli Stati Uniti, dal sistema industriale più solido e produttivo del mondo, che con i crediti degli anni di guerra e con i finanziamenti per la ricostruzione esercitarono un forte controllo sull’economia degli stati europei. Dalla Rivoluzione russa nacque una nuova frattura nel continente: al sistema capitalistico degli stati occidentali si oppose il nuovo sistema comunista sovietico, che nel biennio 1919-21 ispirò in tutta l’Europa la nascita dei partiti comunisti e, in alcuni paesi (Germania, Ungheria, Italia), tentativi rivoluzionari, tutti peraltro falliti. Di fronte al pericolo rosso le potenze europee favorirono l’affermazione di regimi autoritari di destra, soprattutto negli stati confinanti con l’Unione Sovietica, secondo la politica del “cordone sanitario”. La grande guerra mise drammaticamente in rilievo i pericoli del nazionalismo, stimolando la ricerca di nuove soluzioni al problema dei rapporti tra gli stati. La Società delle Nazioni, promossa dal presidente statunitense Wilson, tentò di sostituire al vecchio principio dell’equilibrio l’alleanza e la pari dignità di tutti i popoli, cui doveva essere riconosciuto il diritto di autodeterminazione. Essa rimase tuttavia priva di reali poteri e non riuscì a evitare le nuove degenerazioni nazionalistiche dei decenni successivi. I più lungimiranti intellettuali e politici europei (Stresemann, A. Briand, Croce, Th. Mann) auspicarono l’unità politica del continente. Negli anni Venti nacque il movimento paneuropeo, fondato da Coudenhove-Kalergi, ispirato all’ideale confederale (europeismo). In un celebre discorso alla Società delle Nazioni del 1929, il ministro francese Aristide Briand propose la nascita degli Stati Uniti d’Europa. Ma i tempi non erano ancora maturi, come dimostrarono i drammatici eventi del decennio successivo. Negli stati più fragili sorsero regimi di tipo totalitario: il fascismo in Italia, il nazionalsocialismo in Germania e lo stalinismo in Russia (totalitarismo). Il clima internazionale tornò ad arroventarsi, soprattutto a causa della politica aggressiva condotta dall’Italia fascista e dalla Germania nazista a partire dal 1935. Hitler cercò di risolvere la crisi tedesca proiettando il paese verso la costruzione di un “nuovo ordine europeo”. Esso doveva fondarsi sull’unione di tutti i tedeschi in un unico stato; sulla conquista di uno “spazio vitale” a est, dove sottomettere e sfruttare la razza considerata inferiore degli slavi; e sull’eliminazione della razza ebraica, ritenuta demoniaca e pericolosa. Trasgredendo i trattati internazionali, Hitler ricostituì un forte esercito tedesco e operò una serie di invasioni-annessioni nel biennio 1938-39 (Austria, Cecoslovacchia e Polonia) a cui gli stati occidentali, per timore di una nuova guerra, non si opposero con fermezza. L’alleanza con l’Italia nel 1936 (cementata dal comune appoggio al generale Franco nella guerra civile spagnola), con il Giappone (1937) e il patto di non aggressione con l’URSS (1939), crearono le condizioni di un nuovo assalto al potere mondiale. Quando le truppe tedesche invasero la Polonia, Francia e Inghilterra abbandonarono infine ogni esitazione e dichiararono guerra alla Germania. La seconda guerra mondiale (1939-45) fu la più tragica della storia, con un costo umano di 50 milioni di morti, di cui 7 milioni nei campi di concentramento e di sterminio tedeschi (6 milioni di ebrei) e numerosissime vittime nella popolazione civile. Fu una guerra totale, che coinvolse l’intera popolazione degli stati belligeranti: ogni attività economica fu finalizzata allo sforzo bellico, le città e i civili furono oggetto di continui bombardamenti e rappresaglie, le popolazioni parteciparono attivamente al conflitto con la Resistenza ai regimi di occupazione nazifascisti. Fu anche una guerra ideologica tra il nazifascismo e la democrazia, con la temporanea alleanza tra la democrazia capitalistica occidentale e il socialismo sovietico nella comune lotta contro Hitler. La sconfitta finale del nazifascismo non evitò all’Europa un ulteriore declassamento a livello mondiale: i veri vincitori furono una potenza extraeuropea, gli Stati Uniti, e una solo in parte europea, l’Unione Sovietica. Il continente fu diviso in due zone di influenza: l’Europa dell’est entrò nell’orbita sovietica, l’Europa occidentale in quella americana. La Germania fu divisa in zone di occupazione, trasformate nel 1949 in due repubbliche (Repubblica Federale Tedesca e Repubblica Democratica Tedesca), sotto il rispettivo controllo delle due superpotenze. Anche la città di Berlino fu divisa in zone di occupazione: ciò fu fisicamente sottolineato dal muro costruito dai russi (1961) per evitare fughe di tedeschi dell’est in occidente. Nelle rispettive zone di influenza le superpotenze esercitarono un forte controllo politico: Stalin impose la nascita di regimi socialisti in tutti i paesi dell’est, gli Stati Uniti finanziarono la ripresa economica degli stati occidentali a condizione che allontanassero i comunisti dall’area di governo (Italia, Francia). Nel 1948 la Iugoslavia, che si era liberata dall’occupazione nazista senza aiuti stranieri, si staccò dal blocco dell’est, pur conservando un regime socialista, e contribuì alla fondazione del movimento dei paesi non allineati. I paesi dell’est furono caratterizzati da sistemi politici a partito unico, strettamente sorvegliati dall’URSS, e dal controllo statale dell’economia. La produzione dei diversi stati socialisti fu coordinata nel Comecon (Consiglio di mutua assistenza economica, 1949), in una programmazione che privilegiò l’industria pesante e, secondariamente, l’agricoltura, a scapito dei beni di consumo (imponendo alle popolazioni un tenore di vita molto più basso che nei paesi occidentali). Dove si tentarono ribellioni antisovietiche o esperienze nuove e autonome da Mosca (in Ungheria nel 1956 e in Cecoslovacchia nel 1968), l’URSS intervenne sistematicamente con la forza. In Occidente si affermarono sistemi politici democratici, pluralistici e parlamentari (le ultime dittature fasciste in Grecia, Spagna e Portogallo, caddero negli anni Settanta) e regimi di economia mista. Grazie ai finanziamenti americani del piano Marshall (1947) e alle iniziative di integrazione economica europea, dal 1945 agli anni Sessanta si ebbe un periodo di crescita che in alcune situazioni assunse i tratti del “miracolo economico”. I caratteri generali dello sviluppo, che generò il fenomeno sociale del consumismo, furono una rapida industrializzazione, lo spopolamento delle campagne e intensi movimenti migratori verso le aree più industrializzate. Nonostante la crescita della ricchezza complessiva, non vennero cancellati gli squilibri tra le diverse regioni e classi sociali. Pertanto si sviluppò anche in Occidente un movimento di contestazione del modello di sviluppo, particolarmente attivo nel biennio 1968-69 e nei primi anni Settanta. Nel 1973 la crisi petrolifera gettò l’economia europea in una crisi contrassegnata dalla concomitanza di stagnazione produttiva e continuo aumento dei prezzi. Dopo una temporanea ripresa negli anni Ottanta, negli anni Novanta l’economia europea fu ancora in difficoltà. La storia europea del secondo dopoguerra fu caratterizzata anche dal processo di decolonizzazione. Alle nazioni sconfitte nella seconda guerra mondiale (Germania e Italia) le colonie furono sottratte con i trattati di pace. Tra il 1945 e il 1965 anche le altre potenze (Francia, Inghilterra, Belgio, Olanda) persero quasi tutte le colonie, a volte pacificamente, a volte dopo lunghe guerre di liberazione (guerra franco-algerina, 1954-62). Per ultimo, crollò l’impero coloniale portoghese in Africa, in seguito alla rivoluzione contro il regime di Salazar (1974). I rapporti politici tra le due Europe seguirono l’evoluzione dei rapporti tra le superpotenze. Negli anni della guerra fredda, gli stati occidentali si allearono con gli Stati Uniti nella NATO (1949); i paesi dell’est si unirono invece nel Patto di Varsavia (1955). Negli anni Settanta la distensione tra le superpotenze consentì in Europa il miglioramento dei rapporti tra le due Germanie e tra i due blocchi. In tale contesto ebbero grande rilievo la “Ostpolitik” del cancelliere socialdemocratico della RFT Willy Brandt e la conferenza di Helsinki (1973) per la sicurezza e la cooperazione in Europa. Un’ulteriore distensione, dopo un periodo di inasprimento dei rapporti all’inizio degli anni Ottanta, si ebbe con la nomina a segretario del PCUS di Gorbacëv (1985). La sua politica di dialogo con i presidenti americani Reagan e Bush, l’impegno per un disarmo bilaterale e la svolta democratica all’interno dell’URSS e con i paesi dell’est, inaugurarono una nuova era nelle relazioni internazionali. L’esito decisivo delle trasformazioni in atto si ebbe nel 1989, con il crollo del “socialismo reale” nei paesi dell’est, dove libere elezioni e pacifiche manifestazioni (solo in Romania si ebbe una guerra civile) cancellarono i sistemi comunisti e inaugurarono una nuova, anche se tuttora problematica, stagione di sviluppo democratico. Simbolo della nuova era fu la distruzione del muro di Berlino (9 novembre 1989). Nel 1990 le due Germanie si riunificarono e nel 1991 l’Unione Sovietica si trasformò nella Comunità degli Stati Indipendenti. Il crollo dell’Unione Sovietica provocò, però, l’esplosione di nuovi nazionalismi, con numerose guerre civili tra i diversi gruppi etnici e religiosi. Il dramma dei nazionalismi e dell’intolleranza etnica e religiosa sconvolse negli anni Novanta anche la Iugoslavia, aprendo un drammatico conflitto, le cui lacerazioni cominciarono a essere ricomposte solo nei primi anni Duemila. Nel secondo dopoguerra prese anche l’avvio il faticoso processo dell’integrazione economica e politica del continente. L’europeismo conobbe nuovi e importanti sviluppi, che ebbero un punto di riferimento fondamentale nel “Manifesto per un’Europa libera” (1941) redatto a Ventotene da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi. E a partire dal 1949, quando fu istituito il Consiglio d’Europa, fu avviata la costruzione delle grandi strutture della Comunità Europea. Nel 1992 il trattato di Maastricht pose infine le premesse per la nascita dell’Unione Europea. L’integrazione economica, ma soprattutto politica, si rivelò un obiettivo difficile, a causa della resistenza da parte dei singoli stati a rinunciare alla piena sovranità nazionale. I problemi maggiori furono posti dalla differente velocità di sviluppo dei diversi paesi, dai contrastanti interessi economici e dalla diffidenza delle destre nazionaliste e delle sinistre più radicali. Un importante passo avanti fu comunque compiuto il 1° gennaio 1999, quando fu adottata la moneta unica europea, l’euro. Ai primi undici paesi dell’Unione Europea che rinunciarono alle proprie monete nazionali – Austria, Belgio, Finlandia, Germania, Francia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna – si aggiunsero successivamente Grecia (2001), Slovenia (2007), Cipro (2008), Malta (2008), Slovacchia (2009), Estonia (2011). Nel frattempo, il crollo dei regimi socialisti in Europa orientale e la loro transizione verso la democrazia di stampo liberale aprì nuove prospettive all’integrazione, che, in effetti, negli anni successivi intraprese un processo di progressivo allargamento a oriente, contribuendo così al superamento delle divisioni politiche, economiche e culturali imposte per un cinquantennio dalla logica della guerra fredda. Tale processo avvenne in due fasi: la prima (2004) interessò Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Slovacchia, Slovenia, Repubblica Ceca e Unheria; la seconda (2007) interessò Bulgaria e Romania. Questo complesso processo di ampliamento pose tuttavia la necessità di una revisione dell’assetto istituzionale dell’Unione Europea e in particolare di un superamento del Trattato di Nizza del 2001. A tale scopo fu quindi convocato uno speciale organo straordinario – la Convenzione Europea, istituita nel 2001 – al quale fu assegnato il compito di redigere il testo della Costituzione Europea (più precisamente il testo del Trattato per l’adozione della Costituzione europea). Tale Costituzione non però mai in vigore, per via della sua mancata approvazione nel 2005 da parte dell’elettorato francese e olandese. Tale inaspettata interruzione del processo di ratifica rappresentò un grave momento di crisi per il progetto europeista, il quale tuttavia, soprattutto grazie all’iniziativa del cancelliere tedesco Angela Merkel, fu ripreso e portato avanti grazie all’accordo siglato nel giugno 2007 a Bruxelles e formalizzato nel dicembre dello stesso anno con il Trattato di Lisbona. Accanto alle difficoltà e alle contraddizioni poste dal processo di avanzamento dell’integrazione europea, nei primi anni Duemila il vecchio continente dovette far fronte anche a un’altra complessa serie di sfide. La prima coincise con la minaccia rappresentata dal terrorismo globale, il quale, all’indomani degli attacchi del settembre 2001 a New York, colpì anche Madrid (marzo 2004) e Londra (luglio 2005). La seconda coincise invece con la sempre più agguerrita concorrenza economica dei paesi in via di rapida industrializzazione – primi fra tutti la Cina e l’India – che rese necessario un ripensamento strutturale del sistema produttivo europeo in vista di una maggiore competitività sul piano tecnologico.
Negli anni più recenti, a queste prime grandi sfide se ne sono poi aggiunte almeno altre due, rispettivamente rappresentate dall’ondata di proteste di massa che nel 2011 ha sconvolto la regione nordafricana e, di fatto, riaperto la questione mai del tutto risolta di un’unica e coerente politica estera europea e poi dalla crisi finanziaria globale avviatasi nel 2008, che ha determinato una netta compressione non solo della produzione industriale, ma anche dei livelli occupazionali e degli standard di benessere, finendo per mettere gravemente a rischio lo stesso futuro dell’eurozona. [Sergio Parmentola]