nazione

  1. Definizione
  2. Nazione e stato nazionale
1. Definizione

La definizione storico-politica della nazione, e quindi di un coerente e univoco “principio di nazionalità”, ha sempre rappresentato una questione di difficile soluzione. Dal punto di vista lessicale, dal latino natus (nato) deriva il termine originario di natio, “nazione” nel senso di “nascita” e, logicamente a questa collegata, l’idea di popolazione di un determinato luogo e razza. Semanticamente, la nazione rimanda perciò fin dall’antichità a un ambito non necessariamente politico di relazioni, strette tra persone nate e abitanti nello stesso territorio e pertanto formanti una comunità di lingua, costumi e tradizioni. Sulla base di questa limitata definizione si è ancora lontani da ciò che nell’epoca moderna e contemporanea si intende per “nazione”, ma essa appare come il punto di partenza necessario per capirne le trasformazioni, l’approfondimento e l’allargamento. Nel medioevo il termine nationes fu usato, ancora come indicatore etnico-geografico di provenienza senza implicazioni politiche, all’interno delle università per indicare quei raggruppamenti, costituiti per la mutua protezione corporativa economico-giuridica, di studenti provenienti da altri paesi. La caratterizzazione nazionale – con una prima implicita coloritura politica – fu presente, tra medioevo ed età moderna, nel processo di sviluppo e di scissione delle chiese locali all’interno del cattolicesimo (gallicanesimo, anglicanesimo) e nel contesto della formazione dello stato unitario e centralizzato moderno, nonché appunto “nazionale”. Si trattava però ancora di un’accezione rudimentale e non univoca del concetto di nazione, come dimostra il suo uso ristretto e ricorrente nei secoli XVI e XVII, per designare sommariamente una provenienza regionale sia nel caso di grandi stati (che oggi si direbbero plurinazionali) sia di piccole province o città. Ancora nel Settecento la parola “nazione” conservava un senso meramente descrittivo e indicava le differenze materiali che contraddistinguevano una popolazione da un’altra, senza un riferimento puntuale e ideologico alla peculiare identità spirituale e politica del popolo stesso. Era piuttosto lo stato in quanto “corpo politico” ad attribuire caratteri comuni (ovvero nazionali) a un popolo. Così, ad esempio, nel saggio di D. Hume, Sui caratteri nazionali (1748).

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2. Nazione e stato nazionale

La valorizzazione dell’aspetto politico-nazionale, che è all’origine della concezione contemporanea della nazione, ebbe inizio dalla seconda metà del Settecento e percorse un tornante decisivo con la Rivoluzione francese. In questo senso la nazione aveva già cominciato a definirsi in contrasto, da un lato, con il tipo d’identificazione universalistica (sia con quella religiosa della respublica christiana medievale, sia con quella civile dell’impero, come accadde in Francia e in Inghilterra) e cosmopolitica (affermatasi a livello politico-culturale nell’Illuminismo); dall’altro, con il dominio egemonico di una potenza già pervenuta a un’avanzata coesione statal-nazionale (fu questo, ad esempio, il caso della Germania rispetto all’espansionismo francese). Momento decisivo di tale maturazione – che allora si espresse soprattutto sul piano culturale e linguistico-pedagogico – fu la scoperta, tra Sette e Ottocento, dell’importanza nazionale della lingua tedesca in autori come Herder e soprattutto Fichte (Discorsi alla nazione tedesca, 1807-1808), nell’ambito dell’emergente idealismo romantico. Sul piano prettamente politico, dopo l’esperienza liberal-costituzionale inglese, fu la Rivoluzione francese a promuovere un’accezione “borghese” del termine, creando una frattura tra il nuovo significato di nazione e l’assolutismo monarchico dell’antico regime. In Sieyès, ad esempio, la nazione non ha una valenza geografica o meramente culturale: coincide politicamente e socialmente col “terzo stato” e con le sue aspirazioni rivoluzionarie liberal-costituzionali. La nazione fu altresì intrecciata all’idea, di derivazione rousseauiana, di comunità basata sulla volontà di quanti volevano organizzarsi collettivamente come corpo sovrano di uomini liberi ed eguali. Nel corso dell’Ottocento il concetto di nazione – paradigmaticamente inteso come organismo vitale, originario, portatore di un progetto autonomo e capace di esprimere, se educato, decisioni politiche – si precisò ulteriormente in connessione con la lotta di taluni popoli, come l’italiano e il tedesco, determinati a fondare un proprio stato nazionale. In questo quadro furono letterati come E.-M. Arndt in Germania, politici come Mazzini e soprattutto, sul piano teorico e giuridico, accademici come P.S. Mancini in Italia, ad apportare rilevanti contributi. A Mancini – autore di un celebre discorso tenuto nel 1851 all’Università di Torino e intitolato Della nazionalità come fondamento del diritto delle genti – si deve una chiara esposizione costituzionale del “principio di nazionalità”, che, partendo dai caratteri “oggettivi” fondanti la nazione (gli aspetti etnico-linguistico-culturali, nel linguaggio attuale l’ethnos: territorio, razza, lingua, tradizioni religiose, costumi), li trasfonde in una superiore visione spiritualistica, volontaristica e politica democratica (oggi si configurerebbe tale elemento come demos, ovvero l’elemento morale che sta alla radice del sentimento di appartenenza a un comune destino di libertà). Non dissimilmente si pronunciò E. Renan nel 1882 nella celebre conferenza alla Sorbona sul tema Che cos’è una nazione? : “Una nazione è dunque una grande solidarietà costituita dal sentimento dei sacrifici già fatti e di quelli che si è disposti a fare. Suppone un passato: e però si riassume nel presente per mezzo di un fatto tangibile: il consenso, il desiderio espresso chiaramente di continuare la vita in comune. L’esistenza di una nazione è un plebiscito di tutti i giorni ”. Tale concezione della nazione fu alla base dei movimenti liberali e democratico-indipendentistici europei dell’Ottocento. Storicamente, l’epoca del primo dopoguerra novecentesco rappresentò in Europa il trionfo apparente del principio di autodeterminazione nazionale, con la caduta degli imperi plurinazionali centrali e la costituzione di una miriade di piccoli stati nazionali che trovarono nella Società delle Nazioni una sede unitaria (benché debole) di concertazione (a tale funzione, criticamente rivista, fu designato nel secondo dopoguerra l’ONU). Diversamente, l’esasperazione del primato della nazione di appartenenza e lo stravolgimento in chiave reazionaria, espansionistica e militaristica della concezione nazionale permeò, tra Otto e Novecento, il nazionalismo. Una critica della nazione, intesa come supporto ideologico dello stato accentrato moderno a danno delle minori etnie e delle opportune e necessarie costituzioni federali sovranazionali (federalismo), è stata sviluppata dai pensatori federalisti del Novecento, in particolare da M. Albertini (Lo Stato nazionale, 1958). Concezioni nazionali e nazionaliste, con caratteri parzialmente differenti da quelli riscontrabili nella storia europea, hanno fatto la loro comparsa sugli scenari africani e asiatici nell’epoca della decolonizzazione. In ultimo, è da ricordare l’uso del termine “nazione” per designare insiemi plurinazionali o pluristatali (la nazione “africana” o “araba”, oppure la nazione “americana”), che si discosta apparentemente dalla tradizione di pensiero di radice europea fondata sull’esistenza di stati nazionali ma che, in verità, sottolinea in pari misura l’esigenza progettuale di una dimensione nazionale, per quanto allargata. [Corrado Malandrino]

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