Rivoluzione francese

S’intende per Rivoluzione francese non un singolo evento, ma un intero arco cronologico che si configura come processo storico e insieme come giacimento di fenomeni, ciascuno dei quali è considerato provvisto di una sua specifica identità. Comunemente, la data d’inizio è ritenuta il 14 luglio 1789 (presa della Bastiglia), mito di fondazione, e peccato originale, da una parte dell’intera età contemporanea, e dall’altra della libertà e dell’eguaglianza dei moderni. La data della fine, meno universalmente accreditata, è per lo più situata al 18 brumaio (9 novembre) dell’anno VIII (1799), vale a dire il giorno del colpo di stato di Napoleone Bonaparte. Tutta la periodizzazione è comunque estremamente controversa. C’è chi insiste, per quel che riguarda i prodromi, sulla preparazione intellettuale effettuata dal secolo dei lumi, vale a dire da quel “secolo breve” che fu il XVIII, iniziato con la morte di Luigi XIV (1715) e conclusosi appunto con la rivoluzione del 1789. C’è chi sottolinea l’importanza delle sempre più frequenti crisi economico-annonarie e finanziarie d’antico regime, sino al pessimo raccolto cerealicolo del 1788 e alla conseguente crisi di sussistenza. C’è chi mette in rilievo il ruolo giocato dalla onerosissima politica estera (guerra di Successione austriaca, 1740-48, guerra dei Sette anni, 1756-63, conflitto con l’Inghilterra, 1778-83) e dalla fallimentare politica interna, segnata dagli ostacoli frapposti all’azione riformatrice, sul terreno amministrativo e finanziario, di Turgot (1774-76) e di Necker (1777-81). C’è chi infine mette in luce l’esistenza, all’origine dell’intero processo, di una “reazione aristocratica” (1787), poi sfuggita di mano ai settori privilegiati della società. Indubbiamente, in una Francia che stava cambiando volto e che trovava troppo stretta la gabbia assolutistica dell’antico regime, la convocazione degli Stati generali, resasi inevitabile nel 1788, aveva di mira il centralismo regio e poteva sembrare un’azione volta a rinvigorire i localismi e gli autonomismi di matrice feudale. Nell’occasione, tuttavia, la compilazione di circa 60.000 cahiers de doléances si rivelò uno strumento straordinario, e trasparente, di mobilitazione politica collettiva. La “società degli ordini”, che si articolava nei tre stati (clero, aristocrazia, terzo stato), si rivelò a sua volta un mero fantasma giuridico, incapace di rappresentare i francesi. Lo strumento della “reazione aristocratica” (gli Stati generali, non più convocati dal 1614) era cioè largamente obsoleto. La sua convocazione, un boomerang da parte del sovrano, e un calcolo sbagliatissimo da parte dell’aristocrazia, mise anzi clamorosamente in evidenza il carattere arcaico dell’intero ordinamento politico francese. Gli eventi allora precipitarono. I rappresentanti del Terzo Stato, di cui faceva parte l’enorme maggioranza (quasi la totalità) dei francesi, si autocostituirono il 17 giugno 1789 in Assemblea Nazionale, la quale il 9 luglio si proclamò “costituente”. All’inizio, dunque, la rivoluzione intervenne nelle forme della rappresentanza (con gli individui-cittadini al posto dei “ceti”) e si configurò come un processo appunto “costituente”. Si sparse però ben presto la notizia di un “complotto aristocratico”. Il re, a sua volta, minacciò di sciogliere l’Assemblea. Il processo divenne allora insurrezionale. Dopo le élites (aristocratici e rappresentanti del Terzo Stato), entrò in scena il popolo, protagonista e soggetto non più di rivolte, come nell’antico regime, ma della rivoluzione stessa, vale a dire di una trasformazione politica e sociale che aveva tra le sue componenti anche la mobilitazione spontanea, e l’uso della violenza, dal basso. Fu presa e abbattuta la Bastiglia, simbolo in Parigi dell’arbitrio assolutistico. La rivoluzione uscì poi dalla capitale e divenne “municipale”, fino a raggiungere, nei giorni della Grande Paura, le campagne. Il 4 agosto la Costituente proclamò aboliti i diritti feudali. Il 26 agosto adottò il testo della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, una Dichiarazione, che, a differenza dei princìpi della precedente rivoluzione americana, si presentava come “universale”. Tale testo era una sorta di preambolo, e un contenitore di valori, che sarebbe stato a fondamento delle future costituzioni liberali e democratiche. Tutti gli uomini nascono liberi e uguali, era scritto nel primo articolo. La sovranità inoltre risiede nella nazione; i diritti di proprietà sono imprescrittibili; la legge è l’espressione della volontà generale. Se all’inizio il processo parve più moderato che in seguito, la macchina rivoluzionaria proseguì, passo dopo passo, in un modo che alla storiografia di tutte le tendenze parve in seguito spietatamente logico. Nelle giornate di ottobre il re, ricongiunto alla sua nazione, fu portato da Versailles alle Tuileries. Era ormai ostaggio di Parigi. Fu questa, fisicamente, l’ultima translatio imperii: la sovranità passava dalla cittadella del re alla capitale della nazione. Nell’Assemblea, a proposito di un passato che appariva irreversibilmente concluso, si cominciò a usare l’espressione “antico regime”. Furono poi creati, per spezzare il centralismo, i dipartimenti. Furono emessi, in quantità crescente, sino alla svalutazione, titoli di debito pubblico (o assegnati). La necessità di reperire denaro portò alla vendita dei beni della chiesa. La costituzione civile del clero (12 luglio 1790) divise quest’ultimo in “costituzionale” (favorevole all’Assemblea) e in “refrattario” (fedele al papa). Le aree di conflitto così si allargarono. Molti aristocratici e non pochi ecclesiastici cominciarono a scegliere la strada dell’emigrazione e, con il trascorrere del tempo, dell’agitazione controrivoluzionaria. La fallita fuga di Varennes (20 giugno 1791), in concomitanza con la dichiarazione antifrancese di austriaci e prussiani, esaurì quel che restava del potere regio. Nasceva il patriottismo e si rivelava una formidabile risorsa rivoluzionaria. “Patriota”, nel linguaggio rivoluzionario, significava del resto “nemico degli aristocratici”. Il re e gli ordini privilegiati non erano infatti ritenuti, in quanto tali, parti costitutive della nazione. E fu così che la rivoluzione, il 20 aprile 1792, si trasformò, arroventandosi, e dichiarando guerra all’Austria, in guerra rivoluzionaria. Intanto la Costituente, varata la prima costituzione francese, che prevedeva un suffragio censitario, era stata sostituita dall’Assemblea Legislativa (1 ottobre 1791). Con una nuova insurrezione popolare, il 10 agosto 1792, entrarono direttamente in scena i sanculotti. Il re fu deposto. Fu votata a suffragio universale una nuova Assemblea, detta Convenzione, e il 22 settembre, subito dopo la vittoria dei francesi a Valmy contro gli austro-prussiani (salutata come vittoria di un esercito di popolo), venne proclamata la repubblica, nota poi come Prima Repubblica. Anche il calendario, dando inizio a una nuova era, divenne repubblicano. Il re venne processato, condannato a morte e giustiziato. Lo scontro politico, mentre i rivoluzionari della prima fase (la Costituente) erano in buon numero divenuti “moderati”, coinvolgeva ora i gruppi rivoluzionari più radicali, vale a dire i girondini di Brissot e i giacobini di Robespierre e di Saint-Just. Questi ultimi, sostenuti da una nuova ondata di “giornate rivoluzionarie” a base popolare (31 maggio – 2 giugno 1793), ebbero la meglio, misero in vigore una nuova Costituzione democratica (in realtà mai pienamente applicata) e si trovarono in non poche circostanze a dover fare i conti con il “doppio potere” delle sezioni parigine (istituti dell’autogoverno popolare). Mentre la guerra continuava, accentrarono infine il potere in forma dittatoriale (ma a base parlamentare) nelle mani del Comitato di Salute Pubblica. Fu questo il periodo del Terrore. Che durò sino al 9 Termidoro (27 luglio) 1794, quando, vinta ormai la guerra contro i nemici esterni, l’Assemblea destituì e condannò a morte Robespierre e i suoi seguaci. La Prima Repubblica francese, per le generazioni successive, per i numerosi ammiratori come per gli altrettanto numerosi detrattori, divenne il percorso in qualche modo “esemplare” della tradizione repubblicana dei moderni. Sin dall’inizio seppe esprimere, con vertiginosa e incalzante rapidità, l’amplissimo spettro espressivo della politica contemporanea: l’utopia razionalistico-progressista di Condorcet, il risoluto liberalismo girondino, la dittatura rivoluzionaria e patriottica, la politica come “virtù”, la costituzione democratica dell’anno I, il “doppio potere” della piazza, l’enigmatica contiguità tra democrazia e dittatura, la svolta termidoriana (sinonimo poi di involuzione conservatrice), la nuova costituzione censitaria dell’anno III (1795), il regime parlamentare del Direttorio, la filosofia politica degli idéologues che collegarono il secolo dei Lumi e quello dell’industria, l’autonomizzarsi del fattore militare tra le rissose fazioni politiche, l’inizio repubblicano del regno di Bonaparte. Lo scenario della società divisa non più in “ordini” feudali, ma in classi sociali, scenario in cui l’opinione pubblica e la politica organizzata poterono finalmente fare irruzione, condizionò lo svolgersi degli eventi. Senza il ’92-’94, del resto, non ci sarebbe stata la forma-repubblica, vale a dire la repubblica istituzionalmente sottrattasi alla forma-monarchia. Senza la “dittatura popolare” – peraltro confiscata e usurpata dal Comitato di Salute Pubblica – non ci sarebbe stata la comparsa, invero turbolenta, della democrazia. La dittatura poté comunque inserirsi, in tempi di guerra, come tertium tra le conflittuali fisionomie, e la mancata conciliazione, della democrazia rappresentativa (l’Assemblea) e della democrazia diretta (le sezioni parigine). La Prima Repubblica, d’altra parte, conobbe un tragitto accidentato e subì numerosi contraccolpi. Durò dal 22 settembre del 1792, quando la Convenzione proclamò abolita la royauté e iniziato l’anno I, al 18 maggio del 1804, quando entrò in funzione la Costituzione dell’anno XII, il cui primo articolo recitava che il governo della repubblica veniva affidato a un imperatore che prendeva il titolo di “Empereur des Français”. Ebbe tre fasi, che sciorinarono quasi per intero il repertorio contemporaneo della rappresentanza politica: la Convenzione (insieme, contraddittoriamente, liberalrivoluzionaria, democratica, assemblearistica e dittatoriale), il Direttorio (liberalmoderato, parlamentare e oligarchico), il Consolato (liberalconservatore, burocratico-amministrativo e protocesaristico). La repubblica fu dichiarata, a partire dall’incipit dell’atto costituzionale del 24 giugno 1793 (anno I), “una e indivisibile”. E tale restò. Ebbe però fasi radicali e moderate. Soprattutto, tra rivoluzione politica, sconvolgimenti sociali, e guerra, fu preda di un continuo alternarsi dell’egemonia del legislativo (1789-92, in presenza ancora del vecchio monarca, e 1794-99) e dell’egemonia dell’esecutivo (1792-94, e, in presenza già del nuovo monarca, 1799-1804). Ma è veramente finita nel 1799 la Rivoluzione francese? C’è chi iscrive a pieno titolo nella rivoluzione la fase napoleonica (con il codice civile e l’europeizzarsi del fenomeno) e fa quindi concludere il tutto nel 1814. C’è anche chi, sottolineando il carattere socialmente “borghese” della rivoluzione stessa, considera concluso il processo solo nel 1830, vale a dire con la rivoluzione di luglio, con la monarchia di Luigi Filippo e con l’affermarsi istituzionale di una ristretta oligarchia industriosa. C’è invece chi vi ha visto l’incunabolo delle rivoluzioni popolari e proletarie a venire e ne ha visto la ricomparsa nel 1848 europeo e nel 1871 parigino. C’è infine chi, cogliendone la dimensione prevalentemente liberaldemocratica e costituzionale (deviata da tante tentazioni, ora “classistiche” e ora “cesaristiche”), ne ha individuato la conclusione nell’affermarsi, e nel costituzionalizzarsi (1875), della Terza Repubblica, laica e parlamentare. Cos’è stata la Rivoluzione francese? Un “complotto” di intellettuali e massoni organizzati nella rete della nascente opinione pubblica? Una rivoluzione “borghese”, frutto di una lotta di classe contro l’aristocrazia? O piuttosto una rivoluzione popolare a guida piccolo-borghese (i giacobini), o anche una rivoluzione multiclassistica in cui tutti i settori sociali sono saliti di volta in volta sul palcoscenico? O una rivoluzione politica di nuove élites dirigenti, o piuttosto una continuazione antimonarchica dell’accentramento amministrativo posto in essere sin dall’epoca di Richelieu? Molte sono state a questo proposito le risposte. Controversa, del resto, è anche la questione se la rivoluzione sia stata una e una sola. Per alcuni il ’93 è stato, mutate le circostanze (la guerra e la controrivoluzione), in linea con l’89. Per altri ancora ne è stato la logica e spietata conseguenza. Per altri l’inveramento popolare e sociale. Per altri, invece, è stato una deviazione, un tradimento, addirittura una controrivoluzione. Nello stesso modo è stato considerato, rispetto al decennio precedente, il ’99 di Napoleone. Sempre, tuttavia, ogni interrogativo su periodizzazioni, natura sociale, e tappe storiche della Rivoluzione francese, ha coinvolto le questioni fondamentali della politica e della storia contemporanee. [Bruno Bongiovanni]