Risorgimento

Con il termine “Risorgimento” si indica complessivamente il processo storico in cui maturarono e si svilupparono le condizioni interne e internazionali, le correnti di pensiero, le iniziative politiche e le vicende diplomatico-militari che portarono all’indipendenza e all’unificazione nazionale dell’Italia (1861).

  1. I nodi interpretativi
  2. Origini, sviluppo e compimento del Risorgimento italiano
1. I nodi interpretativi

L’espressione “Risorgimento” – e il concetto che ne ebbero alcuni dei suoi principali protagonisti – rimanda all’idea di una continuità di lungo periodo della storia della nazione italiana, che, mortificata da secoli di decadenza, oppressa dal dominio delle potenze straniere e politicamente divisa in piccoli stati di dimensione regionale, riprende con energia le redini del proprio destino, rinnovando la grandezza del passato. Tipica in tal senso fu, ad esempio, la teoria mazziniana della “Terza Roma” che, dopo la Roma dei Cesari (che aveva unificato politicamente il mondo antico) e la Roma dei Papi (che aveva unificato in senso religioso l’Europa medievale), avrebbe dovuto farsi carico della missione di unire l’umanità in un’alleanza di popoli liberi e indipendenti, strutturati secondo il principio di nazionalità. La storiografia successiva (ma già con grande chiarezza Benedetto Croce e poi Antonio Gramsci) ha messo in luce il carattere mitologico, ideologico e progettuale dell’idea di una “nazione italiana” preesistente alla nascita dello stato unitario: fu semmai lo stato – e anche in questo caso con grandi limiti – a “costruire” la nazione vera e propria attraverso strumenti quali la scolarizzazione di massa, il progressivo allargamento della partecipazione politica, la guerra (nazione, nazionalismo). Il dibattito storiografico sul Risorgimento si è sviluppato parallelamente a quello politico e ideologico dell’Italia postunitaria, diventando di volta in volta epopea dei vincitori (i moderati filosabaudi), recupero delle ragioni dei vinti (i democratici), riflessione sul rapporto tra l’unificazione politica e lo sviluppo economico, discussione sul rapporto con la più generale “rivoluzione borghese” europea. Si è parlato di “revisionismo risorgimentale” per le interpretazioni che, alla luce delle storture dello stato unitario e della tragica degenerazione nel fascismo, si interrogarono sugli aspetti di “rivoluzione mancata” del Risorgimento (G. Salvemini, P. Gobetti, A. Gramsci) e sulle ragioni della sconfitta delle possibilità alternative. Nel periodo fascista vi fu chi sostenne la tesi della continuità tra Risorgimento e fascismo, entrambi finalizzati all’affermazione della nazione (G. Volpe, G. Gentile), e chi invece parlò di rottura, poiché il fascismo aveva spezzato il legame, essenziale invece per il Risorgimento, tra nazione e libertà (B. Croce). Un tema assai dibattuto fu quello relativo al rapporto tra le istanze dell’unificazione politica e lo sviluppo economico italiano. E. Hobsbawm e R. Romeo, ad esempio, affermarono che il processo di unificazione non fu stimolato da fattori strutturali – data l’arretratezza economica italiana – ma ebbe ragioni soprattutto ideali e politiche. Soboul, al contrario, vide nella trasformazione in senso capitalistico dell’agricoltura e nell’inizio dell’industrializzazione la condizione per l’affermazione degli ideali risorgimentali. Lo stesso Romeo indicò nella lungimiranza politica di una minoranza liberale e liberista il merito dell’iniziativa – di gran lunga anticipatrice rispetto al livello di sviluppo sociale ed economico degli stati preunitari – di porre attraverso la costruzione del regno d’Italia le premesse per la modernizzazione e l’europeizzazione del paese. Altri, per contro, accusarono l’élite risorgimentale di essersi legata col vecchio blocco dominante, impedendo la realizzazione di un’autentica “rivoluzione liberale” (Gobetti). Un acceso dibattito divise gli storici sulla questione agraria. Secondo Gramsci e poi Emilio Sereni, la mancata riforma agraria in una società ancora prevalentemente rurale e semifeudale produsse quell’estraneità delle masse allo stato che incise pesantemente sui suoi sviluppi futuri, fino alla degenerazione fascista. Gramsci indicò nell’assenza di un vero partito “giacobino” in Italia, capace di far convergere le istanze della borghesia progressista con le esigenze delle masse contadine, il motivo della “rivoluzione mancata”. Di parere opposto furono storici come Romeo, che nella compressione dei consumi popolari (e quindi nella mancata redistribuzione delle terre) videro la condizione indispensabile per l’accumulazione capitalistica e l’industrializzazione del paese (anche se storici dell’economia come A. Gerschenkron sminuirono il ruolo del profitto agrario nell’industrializzazione italiana). Quanto alla cronologia, la storiografia è divisa nel determinare il termine iniziale e quello finale del processo risorgimentale. Per l’inizio si oscilla tra l’età del riformismo settecentesco e gli anni Trenta del XIX secolo; per la fine tra la nascita dello stato unitario (1861) e la prima guerra mondiale (1914-18). A partire dagli anni Ottanta, adottando una prospettiva esplicitamente comparativa, incentrata soprattutto sulle aree regionali e municipali, e contestando sempre più il carattere teleologico dei due principali canoni interpretativi – quello di matrice crociana e liberale da un lato, quello di matrice gramsciana e marxista dall’altro, entrambi tesi a spiegare l’intero processo di costruzione dello Stato nazionale alla luce dello scontro tra progresso e reazione e della successiva deviazione dell’Italia moderna rispetto a un più generale modello democratico-borghese – la cosiddetta “storiografia revisionista” di studiosi, quali, ad esempio, Paolo Macry, Paul Ginsborg, Alberto Banti e Marco Meriggi ha perlopiù teso a interpretare l’unificazione nazionale non più momento decisivo di rottura con il passato feudale, ma soluzione parziale, con carattere “accidentato” e per niente scontato, di problemi specifici. Secondo tale prospettiva, un punto di partenza fondamentale è coinciso con la revisione di quella linea tradizionalmente tesa a concepire il periodo della Restaurazione come una fase segnata in maniera esclusiva da politiche oscurantiste, destinate inesorabilmente al fallimento. Presentando un quadro ben più complesso, all’interno del quale la consueta contrapposizione frontale tra forze del progresso e forze della reazione è stata sensibilmente sfumata, è stata negata sia l’equazione tra sviluppo economico e unificazione, sia quella tra movimento liberale e borghesia, sia infine quella tra rivoluzione e classi popolari. In questo senso, interpretando il mito della “deviazione” italiana come pura invenzione degli storici, influenzati da modelli di spiegazione deterministici dello sviluppo politico ed economico, il compimento dell’unità nazionale non è più stato visto come l’inevitabile risultato del “risorgimento” liberale o dell’ascesa di una particolare nuova classe sociale, ma come l’esito di processi diversi e talora contraddittori, genericamente identificabili con l’affermazione degli Stati moderni. In tale contesto, segnato dalla presenza di tendenze economiche e sociali estremamente eterogenee, variabili a seconda dei singoli contesti geografici e, come tali, difficilmente spiegabili in termini univoci, è stato rivalutata, nel segno del cosiddetto approccio culturalista, l’importanza decisiva del nazionalismo, inteso come elemento catalizzatore, in grado di mobilitare un vero e proprio “movimento di massa”, orientato a dare una soluzione prettamente politica alla questione della frammentarietà italiana.

Top

2. Origini, sviluppo e compimento del Risorgimento italiano

Le riforme illuministiche settecentesche a Milano, Firenze, Napoli e Parma posero in effetti alcuni importanti presupposti del successivo processo risorgimentale: la riduzione dei residui feudali, la laicizzazione degli stati (giurisdizionalismo) e la nascita di una matura mentalità borghese. Un nuovo impulso riformatore fu trasmesso all’Italia anche dall’esperienza fondamentale della Rivoluzione francese e del dominio napoleonico, durante il quale emerse per la prima volta l’ideale unitario. Il periodo rivoluzionario accentuò anche il divario tra un nord aperto alle riforme e un sud in cui i moti sanfedisti del 1799 dimostravano la forza e le resistenze di un blocco sociale dominante capace di convogliare contro la fragile borghesia filofrancese ampi strati di popolazione. Decisivi furono in ogni caso gli sviluppi politico-sociali avviati dal congresso di Vienna (1814-15), che ripristinò il frazionamento politico e la sudditanza dell’Italia nei confronti dell’Austria, oltre all’egemonia del clero e della nobiltà con la restaurazione dei regimi assolutistici. Gli ideali risorgimentali di indipendenza, libertà politica ed economica e unità nazionale maturarono infatti in opposizione ai princìpi e alle potenze della Restaurazione, alimentandosi delle suggestioni provenienti dalle esperienze rivoluzionarie francesi, da motivi letterari nazionali (Alfieri, Foscolo) e stranieri (romanticismo tedesco), dal progresso civile di nazioni più avanzate come l’Inghilterra. Dopo la fase delle società segrete – che ebbero un ruolo determinante nei moti del 1820-21 e nei moti del 1831, negli anni Trenta e Quaranta sorsero e si svilupparono le due correnti che avviarono in modo consapevole il processo risorgimentale: i democratici e i moderati. Principale esponente della corrente democratica fu Giuseppe Mazzini, fondatore della Giovine Italia e critico dei metodi settari della carboneria. Convinto che la rivoluzione dovesse essere fatta “dal popolo e per il popolo”, con un’opera di propaganda e di educazione, egli contribuì a diffondere gli ideali di unità, indipendenza, libertà e repubblica presso la piccola e media borghesia urbana. Non riuscì invece a penetrare nel mondo contadino, per via dell’assenza di un definito programma di riforme sociali. Per quanto sensibile alla questione sociale, infatti, Mazzini la subordinò sempre all’obiettivo politico dell’unità nazionale, esponendosi alle critiche dei democratici più radicali, come Giuseppe Ferrari e Carlo Pisacane. Le forze moderate, contrarie all’attivo coinvolgimento delle masse nella vita politica, concepirono invece il Risorgimento come sintesi di una trasformazione interna delle monarchie assolute in costituzionali e liberali e di una federazione degli stati italiani che avviasse una comune politica nazionale. Al loro interno c’era chi attribuiva il ruolo principale alle armi dei Savoia (Cesare Balbo, Massimo d’Azeglio) e chi alla guida spirituale del papa (Vincenzo Gioberti). Il neoguelfismo raccolse ampi consensi al momento dell’elezione al soglio pontificio del “liberale” Pio IX ed ebbe in particolare il merito di attirare alla causa risorgimentale una parte del mondo rurale e della classe dirigente, profondamente cattolica e sensibile al richiamo giobertiano alla missione rigeneratrice della religione nella società moderna. I moderati condividevano, accanto a un cauto riformismo dall’alto, un programma liberistico e una politica economica nazionale che trovò l’espressione più celebre nella Proposta di un programma per l’opinione nazionale italiana di Massimo d’Azeglio (1847). Minore influenza sugli eventi ebbero intellettuali e correnti di buon livello culturale, ma privi di concreti agganci con le forze sociali, come il federalista repubblicano Carlo Cattaneo, critico del’unitarismo mazziniano, e i neoghibellini, assertori del ruolo reazionario da sempre esercitato dalla chiesa nella storia d’Italia. Il biennio 1848-49 mise a dura prova le diverse correnti del Risorgimento: dopo l’allocuzione di Pio IX del 29 aprile 1848 crollò il mito neoguelfo; l’espansionismo assai poco “nazionale” di Carlo Alberto nella prima guerra d’indipendenza deluse numerose aspettative; i fallimenti dei moti democratici, nonostante le numerose prove di eroismo, misero ancora una volta in crisi la fiducia nell’insurrezionalismo, già scossa dagli insuccessi mazziniani degli anni precedenti. Negli anni seguenti toccò al moderato Cavour riprendere le redini del processo risorgimentale. Le sue lotte per la difesa dello Statuto albertino e della libertà di stampa nello stato sabaudo e per la sua laicizzazione; la sua opera, come primo ministro, per l’attuazione di una politica di sviluppo economico improntata ai princìpi del libero scambio; la sua abile iniziativa diplomatica per ottenere l’alleanza delle potenze antiasburgiche (Francia e Inghilterra) nella battaglia per l’indipendenza del Lombardo-Veneto dall’Austria, fecero di Cavour (e del nuovo re Vittorio Emanuele II) i punti di riferimento delle forze risorgimentali. Non a caso anche molti democratici (Manin, Garibaldi) aderirono alla Società nazionale (1857), il cui motto era “Italia e Vittorio Emanuele”, sgretolando i consensi del mazziniano Partito d’azione (1853). La seconda guerra d’indipendenza (1859) fu il frutto della strategia cavouriana, ma l’annessione del Mezzogiorno richiese una nuova iniziativa democratica sotto la guida di Garibaldi (spedizione dei Mille, 1860). Il Regno d’Italia (1861) fu dunque il prodotto della congiunzione dell’iniziativa moderata con quella democratica, ma sotto l’egemonia del moderatismo politico e sociale di Cavour e dei Savoia. Garibaldi consegnò il sud a Vittorio Emanuele, rinunciando al progetto mazziniano di una Costituente nazionale. Il nuovo stato fu di fatto la continuazione del Regno di Sardegna, con l’estensione al territorio nazionale dello Statuto albertino, della legislazione e del personale amministrativo piemontesi. L’oligarchia liberale moderata aveva vinto, cavalcando le conquiste democratiche per il proprio trionfo, ma governò una società che agli squilibri ereditati dal passato vide aggiungersi quelli derivanti da una politica economica vantaggiosa solo per il nord e per ristrette oligarchie politiche e sociali del sud. Lo sviluppo capitalistico comportò anche costi sociali e regionali molto alti e non fu accompagnato da adeguate riforme di struttura, a partire da quella agraria. Il sistema politico non seppe, se non con grande lentezza, democratizzarsi e aprirsi alle masse popolari e fenomeni di rigetto, come il brigantaggio, furono risolti con la semplice repressione. Alcuni storici compresero nel concetto di Risorgimento anche il completamento dell’unità nazionale, cioè la conquista di Venezia nella terza guerra d’indipendenza (1866) e di Roma nel 1870. In passato talvolta si prolungò impropriamente tale periodo fino alla prima guerra mondiale, considerata come una “quarta guerra d’indipendenza” per la conquista di Trento e Trieste. Perfino la Resistenza partigiana fu vissuta da numerosi protagonisti come un “secondo Risorgimento”, che oltre a ricostruire l’unità e l’indipendenza nazionale, riuscì infine a garantire la pienezza delle libertà democratiche che il primo non aveva saputo realizzare. [Sergio Parmentola]

Top