La seconda guerra d’indipendenza (1859-1860)

Risorgimento Origini, sviluppo e compimento del Risorgimento italiano

Le riforme illuministiche settecentesche a Milano, Firenze, Napoli e Parma posero in effetti alcuni importanti presupposti del successivo processo risorgimentale: la riduzione dei residui feudali, la laicizzazione degli stati (giurisdizionalismo) e la nascita di una matura mentalità borghese. Un nuovo impulso riformatore fu trasmesso all’Italia anche dall’esperienza fondamentale della Rivoluzione francese e del dominio napoleonico, durante il quale emerse per la prima volta l’ideale unitario. Il periodo rivoluzionario accentuò anche il divario tra un nord aperto alle riforme e un sud in cui i moti sanfedisti del 1799 dimostravano la forza e le resistenze di un blocco sociale dominante capace di convogliare contro la fragile borghesia filofrancese ampi strati di popolazione. Decisivi furono in ogni caso gli sviluppi politico-sociali avviati dal congresso di Vienna (1814-15), che ripristinò il frazionamento politico e la sudditanza dell’Italia nei confronti dell’Austria, oltre all’egemonia del clero e della nobiltà con la restaurazione dei regimi assolutistici. Gli ideali risorgimentali di indipendenza, libertà politica ed economica e unità nazionale maturarono infatti in opposizione ai princìpi e alle potenze della Restaurazione, alimentandosi delle suggestioni provenienti dalle esperienze rivoluzionarie francesi, da motivi letterari nazionali (Alfieri, Foscolo) e stranieri (romanticismo tedesco), dal progresso civile di nazioni più avanzate come l’Inghilterra. Dopo la fase delle società segrete – che ebbero un ruolo determinante nei moti del 1820-21 e nei moti del 1831, negli anni Trenta e Quaranta sorsero e si svilupparono le due correnti che avviarono in modo consapevole il processo risorgimentale: i democratici e i moderati. Principale esponente della corrente democratica fu Giuseppe Mazzini, fondatore della Giovine Italia e critico dei metodi settari della carboneria. Convinto che la rivoluzione dovesse essere fatta “dal popolo e per il popolo”, con un’opera di propaganda e di educazione, egli contribuì a diffondere gli ideali di unità, indipendenza, libertà e repubblica presso la piccola e media borghesia urbana. Non riuscì invece a penetrare nel mondo contadino, per via dell’assenza di un definito programma di riforme sociali. Per quanto sensibile alla questione sociale, infatti, Mazzini la subordinò sempre all’obiettivo politico dell’unità nazionale, esponendosi alle critiche dei democratici più radicali, come Giuseppe Ferrari e Carlo Pisacane. Le forze moderate, contrarie all’attivo coinvolgimento delle masse nella vita politica, concepirono invece il Risorgimento come sintesi di una trasformazione interna delle monarchie assolute in costituzionali e liberali e di una federazione degli stati italiani che avviasse una comune politica nazionale. Al loro interno c’era chi attribuiva il ruolo principale alle armi dei Savoia (Cesare Balbo, Massimo d’Azeglio) e chi alla guida spirituale del papa (Vincenzo Gioberti). Il neoguelfismo raccolse ampi consensi al momento dell’elezione al soglio pontificio del “liberale” Pio IX ed ebbe in particolare il merito di attirare alla causa risorgimentale una parte del mondo rurale e della classe dirigente, profondamente cattolica e sensibile al richiamo giobertiano alla missione rigeneratrice della religione nella società moderna. I moderati condividevano, accanto a un cauto riformismo dall’alto, un programma liberistico e una politica economica nazionale che trovò l’espressione più celebre nella Proposta di un programma per l’opinione nazionale italiana di Massimo d’Azeglio (1847). Minore influenza sugli eventi ebbero intellettuali e correnti di buon livello culturale, ma privi di concreti agganci con le forze sociali, come il federalista repubblicano Carlo Cattaneo, critico del’unitarismo mazziniano, e i neoghibellini, assertori del ruolo reazionario da sempre esercitato dalla chiesa nella storia d’Italia. Il biennio 1848-49 mise a dura prova le diverse correnti del Risorgimento: dopo l’allocuzione di Pio IX del 29 aprile 1848 crollò il mito neoguelfo; l’espansionismo assai poco “nazionale” di Carlo Alberto nella prima guerra d’indipendenza deluse numerose aspettative; i fallimenti dei moti democratici, nonostante le numerose prove di eroismo, misero ancora una volta in crisi la fiducia nell’insurrezionalismo, già scossa dagli insuccessi mazziniani degli anni precedenti. Negli anni seguenti toccò al moderato Cavour riprendere le redini del processo risorgimentale. Le sue lotte per la difesa dello Statuto albertino e della libertà di stampa nello stato sabaudo e per la sua laicizzazione; la sua opera, come primo ministro, per l’attuazione di una politica di sviluppo economico improntata ai princìpi del libero scambio; la sua abile iniziativa diplomatica per ottenere l’alleanza delle potenze antiasburgiche (Francia e Inghilterra) nella battaglia per l’indipendenza del Lombardo-Veneto dall’Austria, fecero di Cavour (e del nuovo re Vittorio Emanuele II) i punti di riferimento delle forze risorgimentali. Non a caso anche molti democratici (Manin, Garibaldi) aderirono alla Società nazionale (1857), il cui motto era “Italia e Vittorio Emanuele”, sgretolando i consensi del mazziniano Partito d’azione (1853). La seconda guerra d’indipendenza (1859) fu il frutto della strategia cavouriana, ma l’annessione del Mezzogiorno richiese una nuova iniziativa democratica sotto la guida di Garibaldi (spedizione dei Mille, 1860). Il Regno d’Italia (1861) fu dunque il prodotto della congiunzione dell’iniziativa moderata con quella democratica, ma sotto l’egemonia del moderatismo politico e sociale di Cavour e dei Savoia. Garibaldi consegnò il sud a Vittorio Emanuele, rinunciando al progetto mazziniano di una Costituente nazionale. Il nuovo stato fu di fatto la continuazione del Regno di Sardegna, con l’estensione al territorio nazionale dello Statuto albertino, della legislazione e del personale amministrativo piemontesi. L’oligarchia liberale moderata aveva vinto, cavalcando le conquiste democratiche per il proprio trionfo, ma governò una società che agli squilibri ereditati dal passato vide aggiungersi quelli derivanti da una politica economica vantaggiosa solo per il nord e per ristrette oligarchie politiche e sociali del sud. Lo sviluppo capitalistico comportò anche costi sociali e regionali molto alti e non fu accompagnato da adeguate riforme di struttura, a partire da quella agraria. Il sistema politico non seppe, se non con grande lentezza, democratizzarsi e aprirsi alle masse popolari e fenomeni di rigetto, come il brigantaggio, furono risolti con la semplice repressione. Alcuni storici compresero nel concetto di Risorgimento anche il completamento dell’unità nazionale, cioè la conquista di Venezia nella terza guerra d’indipendenza (1866) e di Roma nel 1870. In passato talvolta si prolungò impropriamente tale periodo fino alla prima guerra mondiale, considerata come una “quarta guerra d’indipendenza” per la conquista di Trento e Trieste. Perfino la Resistenza partigiana fu vissuta da numerosi protagonisti come un “secondo Risorgimento”, che oltre a ricostruire l’unità e l’indipendenza nazionale, riuscì infine a garantire la pienezza delle libertà democratiche che il primo non aveva saputo realizzare. [Sergio Parmentola]