Italia

Stato attuale dell’Europa occidentale.

  1. L’Italia preromana e romana
  2. L’Italia medievale
  3. L’Italia nell’età moderna
  4. Dalla Rivoluzione francese al Risorgimento
  5. Il Risorgimento
  6. L’Italia nell’età liberale
  7. L’Italia fra le due guerre mondiali. Il fascismo
  8. L’Italia repubblicana (1946-1991)
  9. Crisi e trasformazione del sistema politico italiano (1991-2008)
  10. Le nuove elezioni del 2008 e la crisi della seconda repubblica
  11. TABELLA: Le guerre per il predominio in Italia (1521-1559)
  12. TABELLA: Legislature, elezioni politiche e governi italiani (1861-2011)
1. L’Italia preromana e romana

Fu intorno alla fine dell’età del bronzo fra il XII e il X secolo a.C. che l’Italia raggiunse una sua propria fisionomia: da un lato elaborando tratti di cultura comune alle sue varie parti, dall’altro definendo strutture regionali destinate poi a consolidarsi. Nell’età del ferro, fra il IX e l’VIII secolo a.C., si produsse quell’evoluzione sociale che – avendo il proprio centro nella cultura villanoviana (sorta a opera degli etruschi nell’Italia centrale ed estesasi alla Campania e così detta da Villanova, dove nel 1853 venne scoperta un’importante necropoli) – doveva portare alla creazione di entità urbane distinte dalla campagna e a differenziazioni sociali segnate dal primato dell’élite dei guerrieri. Fra il VII e il VI secolo a.C. si ebbe la fioritura della civiltà degli etruschi. Fin dall’VIII secolo i greci stabilirono colonie in zone della Sicilia e del Sud, importandovi la loro grande civiltà; il che rappresentò un’evoluzione di enorme rilievo. Nel V e nel IV secolo a.C. tribù celtiche provenienti dalla Gallia si insediarono stabilmente nella pianura padana. In epoca preromana la geografia delle popolazioni italiche si configurava nel modo seguente: nell’Italia settentrionale erano stanziati i liguri, i veneti, i galli; nell’Italia centrale gli etruschi, i latini, i volsci, gli equi, gli umbri, i sabini, i marsi, i picenti; nell’Italia meridionale e nelle isole i sanniti, i campani, i lucani, i bruzi, gli iapigi, i greci, i siculi, i sicani, i sardi e i corsi. I secoli V e IV a.C. furono segnati da una serie di lotte fra le varie popolazioni, che si conclusero con l’emergere della potenza di Roma antica, la quale intorno alla metà del III secolo a.C. aveva ormai stabilito la propria egemonia sull’intera Italia peninsulare a sud della Gallia subalpina, mediante la soggezione diretta o l’associazione politica. Tra il 91 e l’89 la cittadinanza romana fu estesa a tutte le popolazioni italiche; il che favorì la penetrazione della cultura e dei costumi e l’egemonia politica di Roma. L’imperatore Augusto (27 a.C.-14 d.C.) divise la penisola in 11 regioni: Lazio e Campania, Apulia e Calabria, Lucania e Bruzio, Sannio, Piceno, Umbria, Etruria, Emilia, Liguria, Venezia e Istria, Gallia Transpadana. Nel quadro del declinante ruolo dell’Italia nell’ambito dell’impero, Diocleziano (284-305) divise l’Italia in due diocesi: l’“annonaria” a nord e la “suburbicaria” a sud. Nel 330 il trasferimento della capitale da Roma a Costantinopoli a opera di Costantino (306-337) sanzionò il declino dell’Italia e il prevalere, nell’ambito dell’impero, dell’Oriente sull’Occidente. Nel V secolo ebbero inizio le invasioni barbariche. Nel 410 i visigoti e nel 455 i vandali presero Roma.

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2. L’Italia medievale

Nel 476 la deposizione dell’imperatore romano d’Occidente Romolo Augustolo a opera del re degli Eruli, Odoacre, segnò una svolta cruciale nella storia d’Italia. Il ceto militare barbarico si impadronì del potere, solo formalmente rimasto nelle mani dell’imperatore d’Oriente Zenone, e di una parte consistente delle terre. Nel 493 Odoacre venne a sua volta rovesciato dal re degli ostrogoti Teodorico, inviato da Zenone, che nel corso del suo regno (493-526) governò lasciando ai romani i compiti amministrativi e affidando ai goti quelli militari. Fra il 535 e il 553 l’imperatore bizantino Giustiniano (527-65) inviò eserciti sotto i generali Belisario e Narsete, che distrussero il regno ostrogoto dopo una guerra devastatrice, la guerra greco-gotica. Nel 569 il re longobardo Alboino invase l’Italia. L’unità della penisola venne definitivamente infranta. I longobardi diedero vita a un regno che durò fino al 774. Essi stabilirono la capitale a Pavia, consolidarono il proprio potere nell’Italia settentrionale, comprendendo anche i ducati di Spoleto e Benevento, ed entrarono periodicamente in conflitto con i bizantini per il controllo dell’Italia centrale e meridionale. La dominazione longobarda ridusse in una posizione completamente subalterna l’elemento romano. Di grande significato furono la conversione dei longobardi dall’arianesimo al cattolicesimo a partire dal VII secolo e l’emissione nel 643 dell’editto di Rotari, con cui si realizzò la codificazione del diritto consuetudinario barbarico. Nelle lotte fra longobardi e bizantini si inserì un nuovo centro di potere, quello della Chiesa, che era andato rifulgendo con Gregorio Magno (590-604) e con l’opera civilizzatrice del monachesimo, specie benedettino. Il potere papale da spirituale prese a trasformarsi anche in temporale. Il suo primo nucleo fu costituito nel 728, con la donazione di Sutri a Gregorio II da parte del sovrano longobardo Liutprando. Ciò nonostante fu il papato ad avere un ruolo determinante nella distruzione del regno longobardo. Dietro richiesta del papa Stefano II, il re dei franchi Pipino il Breve scese per due volte in Italia nel 753 e nel 756, sconfiggendo i longobardi e facendo al pontefice ampie donazioni, così che il ducato di Roma, le Marche e la Romagna formarono il primo saldo nucleo dello Stato della Chiesa. Nel 772 il re longobardo Desiderio, intenzionato a stroncare la potenza papale in sviluppo, che si faceva sentire in maniera crescente anche nel suo regno mediante il clero, invase lo Stato della Chiesa. Ma il re franco Carlo (il futuro Carlo Magno), il cui intervento era stato invocato da papa Adriano, sconfisse nel 774 Desiderio; quindi, pose fine al regno dei longobardi incorporandolo e nell’800 si fece incoronare imperatore in Roma da Adriano, dando origine all’impero carolingio. L’Italia franca, costituita in regno italico, diventò di fatto una provincia del nuovo impero: il paese subì un profondo processo di feudalizzazione (feudalesimo); conti e marchesi furono insediati in luogo dei duchi longobardi; lo Stato della Chiesa cadde sotto l’influenza franca. Nel corso del IX e per gran parte del X secolo, l’Italia carolingia attraversò un lungo periodo di accentuato particolarismo e di instabilità politica, contraddistinta a partire dagli ultimi decenni dell’800 dalle lotte dei grandi feudatari per impadronirsi della corona del regno italico. Nel frattempo ebbe inizio la conquista dell’Italia meridionale da parte degli arabi, i quali, in lotta con i bizantini, penetrarono in Sicilia nell’827, giunsero a saccheggiare parte di Roma (846) e infine ridussero sotto la loro signoria l’intera Sicilia, la Sardegna e zone della Puglia. Dopo i sovrani carolingi, una nuova dinastia, quella dei duchi sassoni sovrani di Germania, riaffermò il disegno di incorporare il regno d’Italia nel Sacro Romano Impero della nazione germanica. Ottone I, calato nel 951 una prima volta in Italia, dove assunse la corona del regno, vi ridiscese nel 961 su richiesta del papa Giovanni XII, stroncò Berengario II che ambiva alla corona e nel 962 si fece proclamare a Roma imperatore dal papa, vedendosi inoltre riconosciuto il privilegium che gli garantiva il controllo sull’elezione dei pontefici. Ebbe così inizio una lotta tesa ad assicurare la sottomissione del potere spirituale alle direttive di quello imperiale, e di cui fu una componente di grande importanza la politica dell’impero volta ad attribuire ai vescovi compiti di governo civile (vescovi conti), onde diminuire la potenza della feudalità laica. Ottone II, riprendendo la politica paterna, riaffermò il controllo sul pontificato, e proseguì il progetto, già iniziato da Ottone I, di penetrare stabilmente nell’Italia meridionale. Nel 982, tuttavia, egli subì una severa sconfitta a opera dei saraceni a Stilo, in Calabria. Ottone III ristabilì l’autorità imperiale in Roma, trovandosi a dover reprimere ripetute rivolte nel 998 e nel 1001. L’ultimo dei sovrani sassoni, Enrico II, dovette fronteggiare la ribellione di Arduino di Ivrea che aspirava alla corona italica, ma riuscì infine a sconfiggerlo facendosi incoronare imperatore da Benedetto VIII nel 1014. Enrico a sua volta riconfermò la supremazia imperiale nell’elezione dei papi, ma fallì nei suoi disegni di conquista dell’Italia meridionale bizantina. Consolidatasi sul trono imperiale la casa di Franconia, Corrado II, con l’appoggio del potente arcivescovo di Milano, Ariberto di Intimiano, affermò il proprio potere sulla grande feudalità laica italiana a lui ostile, facendosi prima incoronare re d’Italia e poi nel 1027 imperatore da Giovanni XIX. Se non che, scoppiata nel 1037 una pericolosa rivolta a Milano, guidata dallo stesso Ariberto, che mobilitò anche l’elemento popolare cittadino riunito dietro il simbolo del carroccio, per porre fine all’instabilità causata dai contrasti di interesse fra grande e piccola feudalità, Corrado nel 1037 concesse la Constitutio de feudis, con cui fu riconosciuta l’ereditarietà anche dei feudi minori. Venne così ridotta la potenza dei feudatari maggiori. Salito al trono imperiale Enrico III, a Milano scoppiò una rivolta dell’elemento popolare contro la nobiltà feudale, capeggiata da Lanzone della Corte. Quando Enrico si presentò a imporre il suo ordine, le due parti in conflitto si allearono contro i tedeschi, dando vita nel 1044 a un governo misto di nobili e popolani, primo germe di un nuovo istituto: il comune. Pieno successo ottenne invece nel 1046 l’azione di Enrico per riaffermare e consolidare la volontà dell’imperatore nell’elezione dei papi (principatus in electione papae). Fallimentare risultò il tentativo del papa tedesco Leone IX, sostenuto dall’impero, di impedire il consolidarsi nell’Italia meridionale della dominazione dei normanni. Questi, che avevano iniziato la loro penetrazione nel 1027, allargarono le conquiste con Roberto il Guiscardo e suo fratello Ruggero, fino a che nel 1130 il figlio di questo, Ruggero II, non venne incoronato re di Sicilia e duca di Calabria e di Puglia. Posta fine alla dominazione bizantina e araba, i normanni unificarono il Mezzogiorno, dando ad esso una fisionomia unitaria, destinata a durare nelle linee fondamentali fino all’Ottocento. Lo stato normanno ebbe un carattere fortemente centralistico, contrassegnato da una efficiente amministrazione e da una feudalità soggetta alla monarchia. La Sicilia in particolare conobbe un periodo di grande splendore. Come lo stato normanno, anche le repubbliche marinare conobbero un grande sviluppo. Favorite dalla crisi della dominazione bizantina, nel sud Napoli, Gaeta, Bari e soprattutto Amalfi, animate da una forte vocazione commerciale, presero a fiorire nel corso del secolo XI. Amalfi cedette però nel secolo successivo all’emergere della potenza di Pisa. Un’importanza crescente andò assumendo nel nord Venezia, che, sottrattasi di fatto al dominio bizantino alla fine del secolo IX e datasi un governo oligarchico autonomo sotto i propri dogi, affermò sempre più la sua egemonia nell’Adriatico nei secoli X e XI, stabilendo un vero e proprio impero commerciale in espansione. Pisa e Genova si diedero un ordinamento comunale nel corso del XII secolo e fondarono la propria potenza commerciale nel corso di aspre e vittoriose lotte con i saraceni durante i secoli XI e XII. Un importante moto di rinnovamento della chiesa trovò i suoi protagonisti in Niccolò II (1059-61) e, ancor più, in Gregorio VII (1073-85). La riforma nacque da un’ansia di purificazione morale e dall’esigenza di emanciparsi dalle ingerenze dei poteri laici nella vita interna della chiesa. Il movimento ebbe un momento culminante nel concordato di Worms del 1122 fra Callisto II e l’imperatore Enrico V, che, portando a conclusione la lotta per le investiture, pose fine alle ingerenze del potere imperiale nell’elezione del pontefice. Nel quadro della rinascita economica che, in Italia come più in generale nell’Europa occidentale, portò a una notevole crescita demografica, a un rilevante aumento della produzione agricola, a una ripresa degli scambi e al rifiorire dei centri urbani, caduti in netto declino dopo le invasioni barbariche, a cavallo tra l’XI e il XII secolo nell’Italia settentrionale e centrale si ebbe la nascita e quindi lo sviluppo dei comuni. Questi andarono realizzando forme di integrazione fra centri cittadini e contado, promuovendo la ripresa delle attività artigianali e mercantili e dotandosi di forme politiche di autogoverno aventi al vertice i consoli e in seguito i podestà, forestieri nominati per contrastare la troppo elevata conflittualità interna. Con l’avvento al trono della casa degli Hohenstaufen nel 1138, i sovrani tedeschi ripresero in grande stile il progetto di rinsaldare il controllo sull’Italia. Federico I Barbarossa, deciso ad affermare la propria assoluta autorità di fronte alle autonomie cittadine, distrusse nel 1160 Crema e nel 1162 Milano, ma subì infine una completa disfatta a Legnano nel 1176 a opera delle milizie cittadine della Lega lombarda. L’imperatore poté infine ottenere, con la pace di Costanza (1183), il riconoscimento della suprema autorità imperiale da parte dei comuni, ma solo al prezzo di riconoscerne a sua volta le autonomie. L’egemonia imperiale era ormai scossa e un’epoca finita. Enrico VI nel 1186, attraverso il matrimonio con l’erede al trono normanno Costanza d’Altavilla, assunse il controllo del Mezzogiorno. E Federico II, che trasferì il centro della sua grandiosa attività di governo proprio nel sud d’Italia ed entrò ripetutamente in lotta con il papato e i comuni, alla sua morte, nel 1250, lasciò un sistema di potere divenuto precario, che fu travolto quando nel 1265-68 Carlo d’Angiò, sceso in Italia su invito di Clemente IV, si impadronì del regno di Sicilia. In seguito alla sollevazione popolare dei Vespri siciliani (1282), tuttavia si impadronirono dell’isola gli Aragonesi, con Pietro III. Agli Angiò restò il controllo di Napoli, costituitosi in un regno autonomo che nella prima metà del secolo XIV raggiunse una notevole potenza, poi entrata in fase di declino; fino a che nel 1442 Alfonso V d’Aragona non se ne impadronì, unendo Napoli alla Sicilia e alla Sardegna. La chiesa, uscita vincitrice dalla lotta con l’impero, aveva cercato con Bonifacio VIII – il quale aveva pubblicato nel 1302 la bolla Unam sanctam – di far valere la più intransigente teocrazia e la subordinazione del potere temporale a quello spirituale. La reazione fermissima del re di Francia Filippo IV il Bello portò al trasferimento della sede pontificale ad Avignone, dal 1308 fino al 1377, alla subordinazione del papato alla monarchia francese e a una lunga crisi del potere papale, superata solo agli inizi del Quattrocento. In una situazione di frantumazione dei possedimenti della chiesa, in Roma maturò fra il 1347 e il 1354 il tentativo a opera di Cola di Rienzo di far rinascere la repubblica romana, cui pose fine il cardinale Egidio di Albornoz, che iniziò la riorganizzazione dello stato pontificio, la quale però soltanto verso la metà del secolo XV poté considerarsi compiuta. La vita dei comuni nell’Italia centrosettentrionale fu contraddistinta da una forte crescita che li rese centri di una potenza economica e finanziaria di importanza europea. La loro politica interna, tuttavia, fu segnata fra il XIII e i primi decenni del XIV secolo da un’acuta conflittualità, che vide contrapposti i magnati di origine aristocratica, i nuovi ceti emergenti borghesi e il popolo minuto, i ghibellini legati all’impero e i guelfi, loro nemici, legati al papato. Sicché andò facendosi strada il potere di nuovi signori come i Visconti a Milano, gli Scaligeri a Verona, gli Este a Ferrara, i Malatesta a Rimini, i Gonzaga a Mantova, i quali, fondandosi su una legittimazione imperiale o papale, diedero origine a vere e proprie dinastie. Le signorie, originariamente personali, si trasformarono infine in principati ereditari. A questo processo si sottrasse, fino agli anni Trenta del secolo XV, Firenze, che rimase così il simbolo delle libertà repubblicane. Qui le arti maggiori, le corporazioni di mestiere più forti e influenti (“popolo grasso”), e la corrente guelfa affermarono a lungo il loro primato, pur in un contesto di ricorrenti conflitti interni politici e sociali, culminati nel tumulto dei Ciompi, operai addetti alla cardatura della lana (1378-82). Il tumulto dei Ciompi aprì la strada al potere di una ristretta oligarchia economico-finanziaria, da cui emerse con Cosimo de’ Medici nel 1434 la signoria medicea. Per circa un secolo le maggiori repubbliche marinare – Genova, Pisa e Venezia – si affrontarono in aspre lotte per la supremazia. I genovesi stroncarono nella battaglia della Meloria del 1284 la potenza pisana; e il decisivo confronto fra Venezia e Genova si concluse a favore della prima nella guerra di Chioggia (1378-81). La potenza dei Visconti di Milano toccò un punto culminante con Gian Galeazzo, che intraprese un tentativo di espansione che estese le frontiere dei suoi possedimenti nel nord e nel centro. La sua morte nel 1402, dopo che nel 1395 aveva ricevuto il titolo di duca di Milano – il che segnava la comparsa formale dell’istituto del principato in Italia – pose fine alle ambizioni di unificazione di gran parte della penisola sotto un solo potere.

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3. L’Italia nell’età moderna

Nel corso del secolo XV andò consolidandosi nella penisola italiana un sistema di stati regionali fondato su cinque maggiori potenze: Venezia, Milano, Firenze, stato pontificio e Napoli. Nel 1454 Francesco Sforza e Venezia firmarono la pace di Lodi, che pose fine a un lungo periodo di lotte. Subito dopo prese vita una lega tra i maggiori stati italiani, che stabilì una “politica dell’equilibrio” durata un quarantennio. Il XV e il XVI furono secoli di incomparabile splendore per l’Italia, che, con il suo sviluppo economico e la cultura rinascimentale, diventò il centro della civiltà europea (Rinascimento e Umanesimo). Ma a tale splendore corrispondeva un’accentuata debolezza politica e militare di fronte alle potenti monarchie nazionali di Spagna e Francia. La politica di “equilibrio” che regolava i rapporti fra gli stati regionali crollò infatti di fronte all’azione espansionistica di queste monarchie. Nel 1494 Carlo VIII di Francia invase l’Italia, inaugurando un lungo periodo di guerre fra francesi e spagnoli per l’egemonia. Già nel 1495, tuttavia, il sovrano, contro cui si era levata una lega costituita da Austria, Spagna, Milano, Venezia e la Chiesa, dovette riguadagnare le Alpi. Fra il 1494 e il 1498 Firenze conobbe l’esperimento della “repubblica piagnona”, messo in atto da fra Gerolamo Savonarola, infine travolto dall’ostilità del papato e dalle opposizioni interne. Nel 1499 Luigi XII di Francia ripeté l’invasione e si impadronì di Milano. Ma la guerra che seguì con la Spagna diede a questa il possesso di Napoli. Divenuta mira delle brame di Austria, Francia, Spagna, del papa Giulio II e altri stati italiani, stretti nella lega di Cambrai, Venezia lottò con successo fra il 1508 e il 1510 per la propria esistenza. Nel 1511 Giulio II organizzò contro la Francia la Lega santa, con l’effetto di riportare al potere nel 1512 a Milano gli Sforza e a Firenze i Medici. Intanto fra il 1499 e il 1503 il duca Valentino, figlio del papa Alessandro VI, aveva tentato invano di costruire uno stato personale nell’Italia centrale. Machiavelli riconobbe in lui il tipo eccellente del “principe” rinascimentale. L’invasione francese venne ancora una volta rinnovata nel 1515 con Francesco I. Il trattato di Noyon (1516) sancì il dominio della Francia sul Milanese e della Spagna su Napoli, Sicilia e Sardegna. Lo scontro fra le due potenze per il controllo dell’Italia continuò opponendo Francesco a Carlo V, imperatore e re di Spagna. I francesi furono sconfitti presso Pavia nel 1525. Nel 1527 Roma venne saccheggiata dai lanzichenecchi di Carlo. Firenze, cacciati i Medici, si eresse a repubblica; ma nel 1530 vi fu la restaurazione; e subito dopo Cosimo I, nominato duca ereditario, consolidò l’ordine mediceo. La lotta fra francesi e spagnoli giunse a conclusione solo nel 1559 con la pace di Cateau-Cambrésis, stabilita da Enrico II di Francia e Filippo II di Spagna, in base alla quale l’Italia cadeva sotto la piena egemonia della Spagna, che estendeva il suo dominio su Milano, sullo stato dei presidi, su Napoli, sulla Sicilia e sulla Sardegna. I francesi mantennero forti posizioni in Piemonte. Grazie all’opera congiunta della chiesa e delle autorità politiche, l’Italia rimase estranea, salvo che in zone affatto marginali, all’influenza della Riforma protestante. Fu anzi il centro di irradiazione della Controriforma, che ebbe il suo momento cruciale nel concilio di Trento (1545-63), con cui la tradizione cattolica venne integralmente ribadita pur nel quadro di una vasta opera di rinnovamento, espressa significativamente dall’azione di nuovi ordini religiosi. Nella seconda metà del XVI secolo e in quello successivo, l’Italia, dominata dalla Spagna e dallo spirito controriformistico, andò incontro a un progressivo declino economico – cui concorse anche lo spostamento delle grandi correnti di traffico marittimo dal Mediterraneo all’Atlantico -, sociale e anche culturale (pur toccando ancora punte altissime con Giordano Bruno e Galileo Galilei). I commerci e le attività industriali cedettero in importanza alle attività agrarie. In particolare l’agricoltura meridionale prese a caratterizzarsi per la sua arretratezza. Politicamente indipendenti rimanevano solo Venezia, che nel corso di un aspro scontro con la chiesa tra il 1605 e il 1607 riaffermò l’autonomia dello stato dall’influenza ecclesiastica, e lo stato dei Savoia. Quest’ultimo, tuttavia, dopo che Emanuele Filiberto (1553-80) ebbe dato al potere una struttura assolutistica, cadde nel 1630, con Carlo Emanuele I, sotto l’influenza francese. Nel Mezzogiorno la dominazione spagnola dovette fronteggiare nel 1647-48 rivolte a Napoli, che vide emergere e cadere il capopopolo Masaniello, e a Palermo. Gli ultimi due decenni del Seicento e il primo del Settecento videro una prolungata azione del re di Francia Luigi XIV nel corso delle grandi guerre europee per affermare la sua influenza, in specie sul Piemonte retto da Vittorio Amedeo II. Questi, per salvaguardare l’indipendenza dello stato sabaudo, sottoposto a un’energica riorganizzazione assolutistica che ne accentuò il carattere militare e burocratico, attuò spregiudicati capovolgimenti di alleanze. In seguito alla guerra di Successione spagnola (1701-1713), la pace di Rastadt del 1714 sancì la fine dell’egemonia spagnola sulla penisola e l’inizio di quella austriaca. Milano, Mantova, lo stato dei presidi, Napoli e la Sardegna passarono sotto il dominio austriaco. Il ducato di Savoia si trasformò in regno, ottenendo la Sicilia, ceduta però nel 1720 all’Austria in cambio della Sardegna. Nel 1734 i Borbone di Spagna si impadronirono del regno di Napoli. Un riassetto, i cui effetti dovevano durare sino alla fine del secolo, si ebbe in conseguenza del trattato di Aquisgrana del 1748, seguito alla guerra di Successione austriaca (1740-48), per cui gli austriaci cedettero la Toscana, Parma, Piacenza e Guastalla ai Borbone e i Savoia annessero l’alto novarese, Voghera e Vigevano. Durante il Settecento, e specie nella seconda metà del secolo, l’Italia conobbe una ripresa economica, specie in campo agrario, e culturale, partecipando degli sviluppi dell’Illuminismo europeo. La cultura illuministica italiana ebbe fra i suoi più insigni rappresentanti Antonio Genovesi, Ferdinando Galiani, Gaetano Filangieri, i fratelli Alessandro e Pietro Verri e Cesare Beccaria. In campo politico, i governi illuminati aprirono un corso riformatore, a cui rimasero estranee solo Venezia e Genova, dominate da chiuse oligarchie. Genova, in particolare, andò declinando rapidamente; nel 1768 cedette alla Francia la Corsica, dopo una lunga rivolta. Nella Lombardia austriaca di Maria Teresa e Giuseppe II, dove il moto di riforma acquistò un carattere assai intenso, fu rammodernata la macchina amministrativa, fu creato un nuovo catasto, fu condotta una decisa azione contro i privilegi del clero, fu dato impulso alla laicizzazione della cultura. Imponente fu lo sforzo riformatore anche nella Toscana di Pietro Leopoldo. A Napoli, durante il regno di Carlo VII e di Ferdinando IV di Borbone, Bernardo Tanucci, appoggiato dagli esponenti della cultura illuministica, tentò un corso innovativo, che però conseguì successi limitati. Nel 1741 un concordato con la chiesa abolì alcuni privilegi ecclesiastici e si ebbe una parziale laicizzazione dell’istruzione; ma il potere feudale non venne sostanzialmente toccato, con grave impedimento allo sviluppo economico. A Parma, Guillaume-Lèon Du Tillot, deciso a introdurre riforme in campo giurisdizionale, fu protagonista di un durissimo scontro con la chiesa, che si concluse con il suo licenziamento nel 1771. Del tutto estraneo alle riforme rimase lo stato pontificio, in lotta aperta contro la cultura e il riformismo dell’Illuminismo e caratterizzato da una dominante clericalizzazione delle istituzioni.

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4. Dalla Rivoluzione francese al Risorgimento

Nell’età della Rivoluzione francese e di Napoleone gran parte dell’Italia si trovò ridotta nel quadro degli interessi francesi; ma conobbe al tempo stesso un processo di modernizzazione politica e di risveglio delle proprie energie nazionali. Il movimento patriottico si trovò diviso fra un’ala filofrancese (i “giacobini italiani”) e un’altra ostile alla subordinazione alla Francia, fra moderati e democratici. Le masse contadine cattoliche restarono per lo più ostili ai francesi e ai loro alleati italiani. Le vittorie napoleoniche del 1796 determinarono la sovversione degli antichi regimi italiani. In Lombardia nel 1796 furono repressi moti contadini antifrancesi. Nel 1797, sul nucleo della precedente repubblica cispadana, venne formata la repubblica cisalpina. Genova fu trasformata in repubblica ligure. La pace di Campoformio, con la quale ebbe fine l’indipendenza di Venezia, consegnata all’Austria, deluse profondamente i democratici. Nel 1798 fu proclamata la repubblica romana. Nel 1799 si ebbe anche la nascita e il crollo della repubblica partenopea. Occupata dai francesi, Napoli fu trasformata in repubblica, con l’adesione del fiore della cultura napoletana, ma con l’ostilità delle masse contadine guadagnate alla reazione cattolico-monarchica guidata dal cardinale Ruffo (sanfedismo). Le sconfitte francesi nel nord provocarono la caduta della repubblica e lo sterminio dell’élite repubblicana. La penisola subì una profonda riorganizzazione in seguito alle vittorie napoleoniche del 1800. Nel 1802 il Piemonte venne annesso alla Francia, dopo che Carlo Emanuele IV nel 1798 aveva abdicato trasferendosi in Sardegna. Sempre nel 1802 la cisalpina fu trasformata in repubblica italiana, sotto la presidenza di Napoleone e la vicepresidenza di Melzi d’Eril. Nel 1805, in conseguenza della proclamazione dell’impero in Francia, sorse il regno d’Italia, con viceré Eugenio di Beauharnais. Il regno, pur stato vassallo, conobbe importanti riforme amministrative e militari, e un notevole sviluppo economico. Giuseppe Bonaparte nel 1806 divenne re di Napoli; a lui succedette nel 1808 Gioacchino Murat. La più importante riforma nel Napoletano fu la legge di eversione della feudalità (1806), di cui però i contadini beneficiarono solo in maniera marginale. Murat accentuò l’autonomia del regno e represse energicamente la piaga del brigantaggio. Nel 1805 la repubblica ligure venne annessa all’impero francese; nel 1807 seguì la Toscana. Lo stato pontificio subì un processo di smembramento e nel 1809 Pio VII fu deportato in Francia. In Sicilia, dove si era rifugiato sotto la protezione inglese, Ferdinando IV fu indotto dagli inglesi a concedere nel 1812 una costituzione. Nel periodo napoleonico presero intanto impulso le società segrete. Attive prima contro i regimi assolutistici, esse, di diverse e anche opposte tendenze (calderari, adelfi, carboneria, ecc.), presero ad agire in nome sia della restaurazione degli antichi regimi sia della democrazia, delle libertà e dei diritti nazionali. Nel momento del crollo napoleonico, Murat cercò di salvare il proprio regno, ma, sconfitto, venne fucilato nel 1815. Beauharnais, rimasto fedele a Napoleone, fu a sua volta sconfitto.

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5. Il Risorgimento

Il congresso di Vienna (1814-15), che elevò a criterio supremo la restaurazione dei sovrani “legittimi”, pose l’Italia sotto l’influenza austriaca. L’assetto della penisola risultò il seguente: sotto il dominio dell’Austria furono posti il Lombardo-Veneto, il Trentino, Trieste e parte dell’Istria; il regno di Sardegna tornò a Vittorio Emanuele I; il ducato di Parma, Piacenza e Guastalla andò a Maria Luisa d’Austria; il principato di Massa e Carrara a Maria Beatrice d’Este; il ducato di Modena e Reggio a Francesco IV d’Austria-Este; il granducato di Toscana a Ferdinando III di Asburgo-Lorena; lo stato pontificio a Pio VII; il regno delle Due Sicilie a Ferdinando I. In questo quadro, il Piemonte rimase l’unico stato italiano relativamente autonomo dall’influenza austriaca. A distinguersi per una politica di restaurazione accentuatamente reazionaria fu il regno delle Due Sicilie. La Restaurazione non cancellò, almeno in parte, l’opera di rinnovamento civile e amministrativo introdotto nel periodo francese. L’età della Restaurazione vide anche in Italia la cultura politica dominata da tre principali correnti: la tradizionalista-assolutistica, la liberale moderata e quella nazionalista-rivoluzionaria, di matrice romantica. Le correnti estreme, per un verso reazionarie e per l’altro rivoluzionarie, trovarono un loro tipico veicolo nelle società segrete, la maggiore della quali diventò la carboneria, a struttura elitaria. Per impulso dei moti scoppiati in Spagna, nel 1820-21 si ebbero moti anche nel regno delle Due Sicilie e in Piemonte sotto la guida di Santorre di Santarosa. I rispettivi sovrani furono indotti a concedere costituzioni; ma la reazione prese infine il sopravvento. Il fallimento dei moti favorì la politica dell’ala più intransigente della Restaurazione. Nel Lombardo-Veneto vennero condannati Silvio Pellico e Federico Confalonieri; in Piemonte, dove nel 1821 era asceso al trono Carlo Felice, si ebbero processi e condanne a morte; a Napoli vennero impiccati gli ufficiali Michele Morelli e Giuseppe Silvati. La politica repressiva continuò nel regno dopo l’avvento al trono nel 1825 di Francesco I. Solo la Toscana di Leopoldo II si sottrasse all’ondata reazionaria. La nuova stagione rivoluzionaria europea del 1830-31 favorì lo scoppio nel 1831 di nuovi moti nell’Italia centrale i quali, partiti da Modena, si conclusero con l’impiccagione di Ciro Menotti e la repressione a opera dell’Austria. I moti misero in luce la debolezza dell’azione rivoluzionaria delle società segrete. Al fallimento dell’azione settaria vennero date due risposte diverse. L’una fu quella di Giuseppe Mazzini, che nel 1831 fondò la Giovine Italia, con un programma basato sull’unità italiana e sulla repubblica democratica come fine e l’insurrezione popolare come mezzo; l’altra fu quella dei liberali monarchici moderati e gradualisti. Fra il 1831 e il 1845 l’azione mazziniana fu ricca di fermenti ideali, ma andò incontro a una serie di insuccessi, fra cui nel 1844 quello, pur non promosso direttamente da Mazzini, della spedizione dei fratelli Bandiera in Calabria. Gli insuccessi mazziniani favorirono le correnti del liberalismo moderato, che presero piede specie in Lombardia, Toscana e Piemonte. Nel regno sardo si sviluppò la corrente “neoguelfa” di Cesare Balbo e di Vincenzo Gioberti, la quale teorizzò la funzione unificatrice del papato in contrapposizione alla corrente “neoghibellina”, che opponeva papato e unificazione italiana. Dal canto loro i lombardi Carlo Cattaneo e Giuseppe Ferrari, peraltro privi di una seria influenza politica, sostennero un disegno di federalismo repubblicano e democratico. Il piemontese Massimo D’Azeglio denunciò con vigore nel 1846, dopo il fallimento del moto di Rimini, la sterilità dei metodi mazziniani. Mentre le Due Sicilie rimanevano con Ferdinando II sotto la cappa di un rigido reazionarismo e il papato di Gregorio XVI costituiva un esempio di malgoverno retrivo, il Lombardo-Veneto conosceva un notevole sviluppo economico e una buona amministrazione di stampo burocratico, la Toscana di Leopoldo II mostrava le maggiori aperture alle istanze del liberalismo moderato e il regno di Sardegna, sul cui trono sedeva dal 1831 Carlo Alberto, pur in un quadro di rigido conservatorismo politico, promosse riforme in campo amministrativo ed economico. Il sovrano, entrato in urto con l’Austria per questioni doganali, assurse negli anni Quaranta a campione di un nuovo spirito di indipendenza. La rivoluzione del 1848 in Francia costituì la premessa di una serie di rivolgimenti rivoluzionari che si diffusero in Europa e investirono anche l’Italia. Con un’improvvisa svolta politica, Pio IX, salito al pontificato nel 1846, aveva avviato una politica di riforme a Roma, seguito dalla Toscana e dal Piemonte. Nel 1848 a Napoli, Ferdinando II, nel quadro di una grave crisi interna, fu indotto a concedere la costituzione, imitato da Carlo Alberto, Leopoldo II e Pio IX. Scoppiata a Vienna, la rivoluzione si estese in marzo a Venezia e a Milano, liberatasi nel corso di una grande insurrezione (cinque giornate di Milano, 18-22 marzo). Sperando di poter attuare la formazione di un regno dell’alta Italia e temendo uno sviluppo democratico-repubblicano a Milano, Carlo Alberto dichiarò guerra all’Austria (prima guerra di indipendenza), inizialmente appoggiato anche da Firenze, Roma e Napoli, che però in un secondo tempo ritirarono le loro truppe. Ma il 25 luglio 1848 i piemontesi furono sconfitti da Radetzky a Custoza. A Venezia i democratici resistettero guidati da Daniele Manin. Anche in Toscana fu organizzato un governo democratico. A Roma, dopo la fuga a Gaeta di Pio IX, i democratici presero il potere e nel 1849 proclamarono la repubblica con a capo un triumvirato, di cui diventò membro Mazzini. Per impulso dei democratici, in Piemonte Carlo Alberto riprese nel marzo 1849 la guerra, subendo però a Novara una sconfitta definitiva, che lo indusse ad abdicare a favore del figlio Vittorio Emanuele II. Ebbe allora inizio un’azione di repressione generalizzata. Gli austriaci riportarono sul trono Leopoldo II in Toscana. La repubblica romana, difesa da Giuseppe Garibaldi, venne soffocata nel luglio dalle truppe francesi di Luigi Napoleone. Venezia capitolò in agosto. Tra il 1849 e il 1860 il processo risorgimentale venne dominato per un verso dal liberalismo piemontese, con a capo Camillo Cavour, e per l’altro dal repubblicanesimo democratico di Mazzini. Il contrasto, si risolse infine con la vittoria politica del primo. Dopo il 1849, mentre nel resto dell’Italia imperversava la reazione, in Piemonte, nonostante la sconfitta subita, Vittorio Emanuele II restò fedele allo Statuto albertino e al liberalismo. I tentativi di Mazzini nel 1851-53 di rilanciare l’iniziativa dei democratici fallirono sistematicamente. Per contro Cavour seppe dare una guida ferma ed efficace al liberalismo piemontese. Entrato nel governo d’Azeglio nel 1850, nel 1852 diventò primo ministro. Il regno preservò con lui le libere istituzioni, diventando la patria degli esuli perseguitati. Economicamente conobbe un notevole sviluppo, anche in campo industriale. Grandi furono inoltre i progressi delle ferrovie. Fu altresì migliorata l’efficienza delle istituzioni. Nel 1855 Cavour inviò truppe in Crimea in appoggio a quelle di Francia e Inghilterra in lotta con la Russia, così da poter sollevare, al congresso di Parigi del 1856, che pose fine alla guerra, la questione italiana e sottolineare il ruolo guida del Piemonte nel processo di rinascita nazionale. Nel 1857 la fondazione della Società nazionale, a cui aderì Garibaldi, pose le premesse perché molti democratici si volgessero verso il Piemonte. L’indebolimento di Mazzini, che nel 1853 aveva fondato il Partito d’azione, venne gravemente accentuato dall’insuccesso della spedizione di Carlo Pisacane nel sud (1857). Cavour, indirizzato verso l’espansione del regno e la creazione di un regno dell’alta Italia, nel 1857 ruppe le relazioni diplomatiche con l’Austria e nel 1858 strinse accordi a Plombières con Napoleone III. Nel 1859 scoppiò la seconda guerra di indipendenza che portò i franco-piemontesi alle vittorie di Magenta, Solferino e San Martino. L’Italia centrale insorse. Ma in luglio Napoleone III, cedendo alla pressione dei clericali francesi e per timore di una reazione prussiana, decise unilateralmente l’armistizio di Villafranca, inducendo Cavour per protesta alle dimissioni. La Lombardia venne ceduta dall’Austria al Piemonte, tramite la Francia. Non così il Veneto. Cavour tornò al potere nel gennaio del 1860. In seguito a plebisciti, si ebbe l’annessione al Piemonte della Toscana, dell’Emilia e dei ducati. Nizza e Savoia furono cedute, quali compensi per l’alleanza, alla Francia. Il regno delle Due Sicilie entrò in grande fermento. E nel maggio del 1860 Garibaldi, con un migliaio di seguaci (le camicie rosse), segnando così la ripresa politica delle forze democratiche, partì da Quarto per la Sicilia, che conquistò rapidamente, stabilendovi la propria dittatura. Cavour, già ostile all’impresa per motivi politici e internazionali, di fronte al suo successo accettò il fatto compiuto, operando per assicurarne i frutti al Piemonte monarchico. Il re borbone, Francesco II, dimostrò una totale incapacità politica. Sbarcato in Calabria, Garibaldi entrò in settembre a Napoli, mentre le truppe piemontesi occuparono l’Italia centrale. Nella battaglia del Volturno (ottobre), i borbonici furono completamente disfatti. Garibaldi, in nome delle esigenze dell’unità nazionale, accettò, contro il parere di Mazzini, l’annessione del Mezzogiorno al Piemonte, incontrando Vittorio Emanuele a Teano (ottobre). Il 17 marzo 1861 il parlamento italiano proclamò re d’Italia Vittorio Emanuele II, sanzionando così la raggiunta unità nazionale (pur senza il Veneto e Roma) e la vittoria politica dell’iniziativa liberal-monarchica cavouriana, che fece nascere la nuova Italia dall’unione al Piemonte monarchico delle altre regioni, nei confronti di quella democratico-repubblicana mazziniana, che avrebbe voluto che le istituzioni del paese finalmente unito nascessero da una Assemblea costituente eletta dal popolo.

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6. L’Italia nell’età liberale

L’Italia unita si trovò a dover affrontare i problemi complessi dell’unificazione amministrativa ed economica e, in campo internazionale, l’ostilità dell’Austria e della Chiesa. Il paese era fortemente arretrato, con uno sviluppo industriale assai limitato e gran parte dell’agricoltura, specie nel sud, in uno stato di debolezza cronica. Dopo la morte di Cavour nel giugno 1861, la classe politica si divise in una Destra, formata dai liberali moderati cavouriani, e in una Sinistra, costituita dai liberali progressisti. Il regime politico assunse un carattere accentuatamente oligarchico, con un suffragio assai ristretto (circa il 2% della popolazione). Volendo sanzionare l’egemonia piemontese e temendo i pericoli delle accentuate diversità regionali, la Destra al potere instaurò nel nuovo regno un centralismo burocratico di tipo francese. Nel 1862 Garibaldi tentò di liberare Roma, ma venne fermato dalle truppe regie, ferito sull’Aspromonte e posto agli arresti. Dietro pressioni della Francia, intesa a ottenere la rinuncia alla conquista di Roma, il governo trasferì nel 1865 la capitale da Torino a Firenze. Nel 1866 l’Italia si alleò con la Prussia contro l’Austria. Pur avendo subìto clamorose sconfitte a Custoza e nella battaglia navale di Lissa, essa ottenne, grazie alle vittorie prussiane, il Veneto dall’Austria (terza guerra di indipendenza). Nel 1867 Garibaldi rinnovò il tentativo di liberare Roma, ma fallì per l’opposizione delle truppe francesi a Mentana. Scoppiata la guerra franco-prussiana nel 1870, non essendo più in grado la Francia di proteggere Roma, questa venne occupata dalle truppe italiane il 20 settembre ed elevata a capitale del regno. Pio IX denunciò lo stato italiano come usurpatore; e in conseguenza i cattolici proclamarono la loro astensione dalla vita pubblica (non expedit). Lo stato liberale allora regolò in maniera unilaterale i rapporti con la chiesa, a cui venne assicurata piena indipendenza, con la legge delle guarentigie (1871). L’unità nazionale era ormai completata, ma persistevano gravi problemi interni. Nel 1872, in uno stato di isolamento politico, morì Mazzini. Gravissima si presentava la situazione nel sud: i contadini, che avevano sperato invano in un’ampia riforma agraria, alimentarono nel primo decennio della storia unitaria un massiccio brigantaggio, sfruttato da borbonici e papalini, e represso spietatamente dall’esercito nel corso di una vera e propria guerra civile. Le terre dell’asse ecclesiastico e dei demani comunali erano finite per lo più nelle mani delle classi agiate. L’industria meridionale, incapace di reggere alla concorrenza nel quadro di una legislazione liberistica, quasi scomparve. Nel paese si costituì un blocco sociale dominante formato dalla borghesia settentrionale e dai grandi proprietari meridionali. Studiosi come Pasquale Villari, Leopoldo Franchetti, Sidney Sonnino e Giustino Fortunato portarono l’opinione pubblica a conoscenza della questione meridionale. L’opera della Destra fu in ogni caso imponente. Nel 1865 l’unificazione legislativa era ormai un fatto compiuto. La rete ferroviaria ebbe grande sviluppo. Le finanze pubbliche, a prezzo di un implacabile fiscalismo che gravò specie sulle masse popolari (tassa sul macinato), vennero risanate grazie agli sforzi di Quintino Sella, che portò il bilancio al pareggio. Il malessere agrario era diffuso e vi furono ripetuti disordini nelle campagne. Nel 1876 la Destra cedette il potere alla Sinistra guidata da Agostino Depretis che, rimasto al potere quasi ininterrottamente dal 1876 al 1887, si rese interprete delle esigenze di allargamento delle basi del sistema politico. Depretis invitò gli esponenti della Destra a “trasformarsi” e a convergere con la Sinistra (trasformismo). All’opposizione intransigente si collocarono allora i repubblicani, i radicali, gli anarchici e i socialisti. Importanti le riforme: nel 1877 fu approvata la legge Coppino sull’istruzione elementare obbligatoria (rimasta poi largamente disattesa); nel 1879 fu abolita la tassa sul macinato; nel 1882 una riforma elettorale portò il corpo degli elettori dal 2,2 al 6,9%, escludendo però ancora le masse contadine. Per strappare l’Italia all’isolamento internazionale, nel 1882 fu firmata la Triplice Alleanza, in funzione antifrancese, con Prussia e Austria. Le agitazioni irredentistiche nel Trentino e a Trieste, ancora sotto la dominazione austriaca, vennero perciò frenate. Nel 1882 Depretis avviò il paese verso una politica coloniale largamente fallimentare, alimentata dalle speranze di alleviare le tensioni sociali interne. L’occupazione di Massaua nel 1885 provocò un conflitto con l’Etiopia conclusosi con la sconfitta di Dogali (1887). Morto Depretis, salì al potere Francesco Crispi (1887-91), un ex mazziniano divenuto monarchico e fervente nazionalista e colonialista. Ammiratore di Bismarck, Crispi portò il paese a un guerra commerciale con la Francia nel 1888. Un trattato con l’Etiopia assicurò all’Italia l’Eritrea (1890). Una serie di riforme rinnovò le amministrazioni locali, rinsaldò il controllo centrale, stabilì un nuovo codice penale abolendo la pena di morte, sancì il riconoscimento del diritto di sciopero, ma introdusse anche una legge di pubblica sicurezza di segno autoritario. Crispi improntò il suo governo a un acceso anticlericalismo. Nel 1892 salì al potere Giovanni Giolitti (1892-93), il cui ministero cadde dopo lo scoppio del movimento dei Fasci siciliani, determinato da motivi di acuto disagio sociale che egli non intese reprimere con lo stato d’assedio, e in seguito al grave scandalo della Banca Romana. Nel 1893 tornò al potere Crispi, che procedette a una violenta repressione in Sicilia. Egli riprese altresì la politica coloniale, ma presso Adua gli italiani subirono nel 1896 una sanguinosa sconfitta a opera dell’Etiopia, che determinò nel paese un’ondata di agitazioni contro il governo, costretto quindi a dimettersi. Nel frattempo, negli ultimi tre decenni del secolo era andato formandosi il movimento operaio e contadino. Dopo una prima fase di influenza anarchica e di moti falliti promossi dai seguaci di Michail Bakunin, presero a svilupparsi le organizzazioni operaie e il socialismo, che trovò esponenti prestigiosi in Andrea Costa, Filippo Turati e Antonio Labriola. Nel 1891 fu fondata la prima Camera del lavoro a Milano, e nel 1892 sorse il Partito socialista. A Crispi succedette Antonio Di Rudinì (1896-98), che dovette affrontare una situazione interna divenuta difficilissima per il sommarsi di un’acuta crisi economica e dei conflitti politici e sociali. I moti di Milano, causati dalla fame, furono sanguinosamente repressi nel 1898 dal generale Bava Beccaris con centinaia di arresti nelle file dell’opposizione socialista e cattolica. Quando il generale Luigi Pelloux (1898-1900), nominato primo ministro, tentò di attuare una svolta reazionaria con il consenso del re Umberto I (1878-1900), in parlamento si sviluppò l’ostruzionismo guidato dai socialisti; e i liberali progressisti Giuseppe Zanardelli e Giolitti promossero un’energica azione di opposizione in difesa delle libere istituzioni. Dopo il successo elettorale delle opposizioni e l’assassinio di Umberto I a opera dell’anarchico Gaetano Bresci nel 1900, a un breve governo di Giuseppe Saracco succedette nel 1901 un governo Zanardelli, per volontà del nuovo sovrano Vittorio Emanuele III, deciso a chiudere la parentesi reazionaria della cosiddetta “crisi di fine secolo”. Negli ultimi due decenni del secolo fu allargata nel nord la base, assai ristretta, dell’industrializzazione. Intorno al 1880 la rete ferroviaria era completata. Per favorire l’industria nazionale, fu varata (1878 e 1887) una legislazione protezionistica, che giovò agli agrari meridionali con l’imposizione del dazio sul grano. Il Mezzogiorno rimase in preda a un accentuato sottosviluppo, la crisi agraria provocò agitazioni contadine, specie nella Bassa padana e nel Sud e indusse oltre due milioni di contadini a emigrare. Per esigenze anzitutto militari, lo stato promosse la nascita di un’industria siderurgica (fondazione della Terni). Il vero e proprio decollo industriale dell’Italia si ebbe tra il 1896 e il 1914, e coincise largamente con il periodo di governo di Giolitti. Nel 1911 si contavano 4.400.000 addetti all’industria, largamente concentrata nel nord e specie nel “triangolo industriale” (Milano-Torino-Genova). L’agricoltura capitalistica aveva sede soprattutto nella pianura padana. Nel 1906 sorse la Confederazione generale del lavoro e nel 1910 la Confederazione italiana dell’industria. Ministro degli Interni nel 1901, Giolitti si dimostrò favorevole a nuovi e più dinamici rapporti nelle relazioni di lavoro, assicurando la neutralità dello stato nei conflitti di natura economica. Nominato nel 1903 presidente del consiglio, Giolitti, che formò il suo secondo ministero (1903-1905), invitò significativamente il capo dei socialisti riformisti, Turati, a entrare nel governo; ma ottenne un rifiuto. Le elezioni del 1904, seguite a un grande sciopero generale, rafforzarono Giolitti. Accanto allo sviluppo del movimento operaio e socialista, si ebbe quello del movimento cattolico, diviso in clerico-moderati, inclini ad appoggiare i liberali contro i socialisti, e “democratici cristiani” di tendenze progressiste, in concorrenza con i socialisti nell’organizzazione dei contadini e delle masse lavoratrici specie agricole e ostili ad accordi politici con i liberali. Dopo due brevi governi di Alessandro Fortis (1905-1906) e di Sidney Sonnino (1906), Giolitti formò il suo terzo governo (1906-1909), che coincise con un periodo di crisi economica e di agitazioni sociali. Le elezioni del 1909 videro un forte rafforzamento dei socialisti e, in misura minore, dei radicali e dei repubblicani e l’appoggio dei clericomoderati in numerosi collegi ai liberali. Dopo un secondo ministero Sonnino (1909-1910) e un ministero presieduto dal giolittiano Luigi Luzzatti (1910-1911), Giolitti formò il suo quarto governo (1911-1914). Nel 1910 intanto era sorta l’Associazione nazionalista italiana, che organizzò il movimento antiliberale, antisocialista e imperialista. Il nuovo ministero Giolitti (1911-14) fu caratterizzato da eventi di grande importanza: nel 1912 fu introdotto il suffragio quasi universale maschile, che portò il corpo elettorale a oltre 8 milioni, anche per allargare il consenso alla guerra di Libia (1911-12), che suscitò un’ondata nazionalistica sostenuta dai cattolici. In Romagna il socialista Benito Mussolini e il repubblicano Pietro Nenni diressero violente agitazioni di protesta. La guerra esasperò il confronto interno al Partito socialista, portando nel 1912 all’espulsione del riformista Leonida Bissolati e l’estremista Benito Mussolini a una posizione di leadership. Per fronteggiare le elezioni del 1913, le prime celebrate con la nuova legge elettorale, e contrastare i socialisti, i liberali strinsero accordi (patto Gentiloni) con i cattolici, i quali, abbandonato definitivamente l’astensionismo, ottennero, con i socialisti, un rilevante successo, che ne dimostrò la capacità organizzativa. Dimessosi nel 1914 Giolitti, che non considerò soddisfacenti i risultati elettorali, si ebbe la formazione di un governo guidato dal liberale di destra Antonio Salandra (1914-16). In seguito a confitti di lavoro sanguinosamente repressi, nel giugno del 1914 nelle Marche e in Romagna si svilupparono moti insurrezionali (“settimana rossa”), che provocarono una violenta repressione militare.

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7. L’Italia fra le due guerre mondiali. Il fascismo

Scoppiata nell’agosto del 1914 la prima guerra mondiale, l’Italia proclamò la sua neutralità. Contro l’intervento si schierò la maggioranza del paese: i liberali giolittiani, i socialisti, i cattolici, parte del mondo industriale; a favore una minoranza di nazionalisti, imperialisti, interventisti democratici che vedevano nella guerra l’occasione di ottenere Trento e Trieste e di sconfiggere le potenze autoritarie e militaristiche liberando le nazionalità oppresse, i liberali antigiolittiani, la monarchia, gli industriali interessati alla produzione bellica. Mussolini ruppe con i socialisti, passando agli interventisti. Dopo inconcludenti trattative con Austria e Germania per compensi territoriali, il governo Salandra firmò con la Triplice Intesa (26 aprile 1915) il patto segreto di Londra, che prometteva all’Italia il Trentino, Trieste e l’Istria, la Dalmazia, zone dell’impero turco, compensi coloniali. Dopo le agitazioni di piazza in cui ebbe un ruolo preminente il poeta Gabriele D’Annunzio, il 24 maggio 1915 l’Italia entrò in guerra contro l’Austria-Ungheria. Il corso del conflitto vide l’esercito italiano dapprima impegnato in una dura guerra di logoramento, con momenti di acuta crisi come quella determinata dalla “spedizione punitiva” (Strafexpedition) austriaca del maggio 1916, che provocò la caduta del governo Salandra e la costituzione di un governo con a capo Paolo Boselli (1916-17). Nell’agosto 1916 fu dichiarata guerra anche alla Germania. Nell’ottobre del 1917 gli italiani subirono la disastrosa disfatta di Caporetto, che portò a capo dell’esercito, dopo Luigi Cadorna, contraddistintosi per una grande durezza nei confronti della massa dei soldati, il generale Armando Diaz e alla guida del governo Vittorio Emanuele Orlando (1917-19). L’esercito resistette sulla linea del Piave e contrattaccò ottenendo infine la vittoria a Vittorio Veneto (ottobre 1918). Il conflitto lasciò l’Italia, nonostante la vittoria, in uno stato di prostrazione. I morti erano stati circa 600.000. In conseguenza dell’opposizione del presidente americano Wilson agli obiettivi imperialistici dell’Italia, questa ottenne dai trattati di pace il Trentino, l’Alto Adige, l’Istria e isole del Dodecanneso, ma non tutti i compensi previsti dal patto di Londra. Si parlò allora di “vittoria mutilata”. Acuto si rinnovò il conflitto fra neutralisti e in prima fila i socialisti, che misero sotto accusa la classe dirigente liberale e i nazionalisti per aver voluto la guerra, e interventisti. D’Annunzio con militari sediziosi occupò Fiume (1919). Il 1919-20 fu un periodo di aspri conflitti sociali e politici. In molte zone del sud i contadini presero a occupare le terre. Gli operai del nord misero in atto un’ondata di scioperi e agitazioni. Il PSI, sotto l’influenza della vittoria dei bolscevichi in Russia, mise all’ordine del giorno in Italia la rivoluzione socialista. Il dopoguerra fu contrassegnato da una completa alterazione dei rapporti di forza politici. Nel gennaio 1919, entrando direttamente nella scena politica, i cattolici formarono il Partito popolare italiano, guidato da Luigi Sturzo, con l’intento di opporsi alla minaccia rivoluzionaria socialista e di imprimere un nuovo indirizzo politico al paese dinanzi alla crisi dei liberali. In marzo Mussolini fondò a Milano i Fasci di combattimento, con un programma oscillante fra nazionalismo imperialistico e riforme democratiche. La crisi dello stato e della classe dirigente liberale era profonda. Le elezioni del 1919 – che furono effettuate dopo l’introduzione del suffragio universale maschile e del sistema proporzionale – rappresentarono un grande successo per socialisti e popolari. I liberali per poter governare si appoggiarono allora ai popolari. Alla guida del governo si succedettero prima Francesco Saverio Nitti (1919-20) e poi Giolitti (1920-21). Questi pose fine con successo sia all’avventura fiumana sia all’occupazione delle fabbriche da parte degli operai (settembre 1920); ma dovette cedere di fronte alle diverse ostilità dei socialisti, dei cattolici, dei nazionalisti e del mondo industriale. Intanto il fascismo, che già aveva ottenuto l’appoggio degli agrari in funzione antisindacale e antisocialista nelle campagne dell’Emilia-Romagna, ebbe sempre più il sostegno anche degli industriali, che non si sentivano più sufficientemente protetti dai liberali. Illudendosi di manovrare i fascisti, Giolitti li fece includere nei “blocchi nazionali” alle elezioni del 1921. Il governo di Ivanoe Bonomi (1921-22) vide crescere la forza dei fascisti, in un clima di conflitti spesso sanguinosi fra questi e i socialisti e i comunisti. Nel gennaio 1921 nacque, in conseguenza della scissione del Partito socialista, il Partito comunista d’Italia, persuaso di poter fare la rivoluzione che i socialisti avevano programmato ma che erano stati incapaci di mettere in atto. In novembre sorse anche il Partito nazionale fascista dalla fusione tra fascisti e nazionalisti. In una situazione di irresolubili contrasti fra le maggiori forze politiche, il fascismo diede l’assalto allo stato. Dopo un ultimo governo liberale, presieduto dal debole Luigi Facta, nell’ottobre del 1922 il fascismo si mobilitò militarmente compiendo la “marcia su Roma”. Il re cedette e diede l’incarico di formare il governo a Mussolini, che diede vita a una coalizione di fascisti, nazionalisti, popolari, liberali. Tra il 1922 e il 1923, creato il Gran Consiglio del fascismo, organizzata la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, riformata la scuola a opera di Gentile secondo linee gradite alla Chiesa, introdotta con la legge Acerbo una riforma elettorale che concedeva un forte premio (i due terzi dei seggi alla Camera) alla lista che avesse ottenuto la maggioranza con almeno il 25% dei voti, le elezioni del 1924, condotte in un clima di violenza contro le opposizioni, diedero ai fascisti e ai loro alleati una maggioranza del 64,9%. In seguito all’assassinio del socialista Giacomo Matteotti nel giugno del 1924, le opposizioni divise diedero vita alla “secessione dell’Aventino”, ritirandosi dal parlamento nella speranza di un intervento del re contro il fascismo; ma andarono incontro a una totale sconfitta. Rinsaldatosi al potere, dopo un momento di grave crisi, Mussolini procedette nel 1925-26 a varare le “leggi fascistissime”, che portarono a un enorme rafforzamento del potere esecutivo e segnarono la fine delle istituzioni liberali e del pluralismo partitico, con la costituzione del Partito fascista in partito unico. Fu creato un Tribunale speciale per la difesa dello stato e una polizia politica segreta (OVRA); e la gioventù venne inquadrata nelle organizzazioni del nuovo regime. Il “duce” Mussolini, con l’appoggio determinante dei ceti medi, dell’élite del potere economico e della Chiesa, stabilì così la sua dittatura e il fascismo assunse le caratteristiche di un regime totalitario, reso però incompiuto dal “compromesso” stabilito con altri centri di potere come la monarchia e la Chiesa (totalitarismo). L’11 febbraio del 1929 il fascismo pose fine allo storico conflitto fra stato e Chiesa con i Patti lateranensi, ottenendo così un larghissimo consenso cattolico, anche se nel 1931 insorsero profondi contrasti circa l’educazione dei giovani. Abolita la libertà sindacale, varata nel 1927 una Carta del lavoro, postosi il fine di creare un ordine corporativo atto a conciliare i rapporti fra capitale e lavoro, introdotta nel 1928 una nuova riforma elettorale di tipo plebiscitario ed elevato il Gran Consiglio del Fascismo a fondamento del governo, il regime sostituì infine nel 1939 la Camera dei deputati con la Camera dei fasci e delle corporazioni, abolendo di fatto qualsiasi traccia delle istituzioni parlamentari previste dallo Statuto albertino. La politica economica, dopo un’iniziale fase di liberismo antistatalistico (1922-25), subì una drastica svolta nel senso di un accentuato interventismo statalistico, specie per far fronte alla crisi iniziata nel 1929, e di cui furono massime espressioni la creazione nel 1933 dell’Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI), un vasto piano di opere pubbliche, il pieno controllo del sistema bancario, il lancio della politica “autarchica” volta al massimo sfruttamento delle risorse interne e la battaglia del grano. Il regime procedette a una capillare repressione contro le forze dell’antifascismo, rivolgendosi con particolare durezza contro i comunisti, il cui capo, Antonio Gramsci, arrestato nel 1926, morì nel 1937. All’opposizione e per la massima parte in esilio, si trovarono Benedetto Croce, Gaetano Salvemini, Piero Gobetti, Turati, Nenni, Sturzo, Nitti, Alcide De Gasperi, i fratelli Carlo e Nello Rosselli, Emilio Lussu, Palmiro Togliatti. In politica estera, il fascismo, dopo le fasi iniziali segnate dall’appoggio alla Francia contro la Germania, dall’ostilità verso il nuovo stato iugoslavo e dalla protezione dell’indipendenza dell’Austria, culminata nel 1934 e nella seguente conferenza di Stresa (1935) in un’energica azione contro le mire di Hitler, subì una drastica svolta. La guerra per la conquista dell’Etiopia (1935-36), che oppose l’Italia alla Società delle Nazioni, sanzionò l’irreversibile alleanza tra fascismo e nazismo. Forte del fallimento delle deboli sanzioni imposte dalla Società delle Nazioni e vittorioso in Etiopia, nel maggio del 1936 Mussolini proclamò la nascita dell’impero raggiungendo il massimo di consenso nel paese. La guerra civile spagnola (1936-39), nella quale l’Italia intervenne a fianco dei franchisti, saldò definitivamente l’alleanza fra l’Italia e la Germania nazista, che nel 1936 stabilirono l’“asse Roma-Berlino”, nel 1937 il patto Anticomintern (cui aderì anche il Giappone), nel 1939 il patto d’acciaio. In questo quadro, l’Italia dapprima si ritirò dalla Società delle Nazioni (1937), quindi accettò nel 1938 l’occupazione dell’Austria da parte dei tedeschi (Anschluss). Alla conferenza di Monaco (settembre 1938), che provocò la distruzione della Cecoslovacchia, Mussolini appoggiò decisamente la politica di Hitler. La crescente subordinazione del fascismo al nazismo si espresse anche nell’emanazione nel 1938 di leggi razziali dirette contro gli ebrei, condannate dalla chiesa. Nel 1939 l’Italia occupò l’Albania. Scoppiata la seconda guerra mondiale nel settembre del 1939, l’Italia, dopo un periodo di “neutralità armata”, entrò nel conflitto il 10 giugno 1940, in uno stato di grave impreparazione militare, illudendosi che esso fosse ormai prossimo a risolversi in senso favorevole ai tedeschi. Avendo subito gli italiani irrimediabili insuccessi in Africa, in Grecia e in Russia, nel luglio del 1943 gli angloamericani sbarcarono in Sicilia, determinando il crollo del regime fascista (25 luglio), dopo che Mussolini era stato messo in minoranza al Gran Consiglio del fascismo per iniziativa di Achille Grandi. Il duce fu arrestato per ordine del re e il governo venne affidato dal re al maresciallo Pietro Badoglio, che in una situazione di caos, nel corso del governo detto dei “quarantacinque giorni”, portò il paese fuori dal conflitto in seguito all’armistizio del 3 settembre, a cui seguirono l’8 settembre il crollo dell’esercito e la fuga a Brindisi del sovrano. Nell’Italia settentrionale, occupata dai tedeschi, Mussolini, da essi liberato, diede vita il 23 settembre a un regime neofascista repubblicano (Repubblica Sociale Italiana) con sede a Salò; mentre nell’Italia occupata dagli alleati fu formato il “regno del sud”, che dichiarò guerra alla Germania il 13 ottobre, con la formazione di governi di coalizione fra i partiti antifascisti guidati da Badoglio (1943-44) e Bonomi (1944-45). Nell’Italia dominata dai nazifascisti, che misero in atto sanguinose repressioni, si organizzò, sotto la direzione di Comitato di liberazione nazionale (CLN) e del Comitato di liberazione nazionale Alta Italia (CLNAI), la Resistenza armata partigiana, a cui diedero un particolare impulso le formazioni comuniste e quelle del Partito d’azione. Nel 1943-44 vi furono nel nord ripetuti scioperi. Il 25-26 aprile 1945, ebbe luogo l’insurrezione nazionale. Mussolini, catturato mentre fuggiva in Svizzera, venne giustiziato il 28 aprile.

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8. L’Italia repubblicana (1946-1991)

Il costo della guerra fu pesantissimo: nel 1945 risultava distrutto circa il 20% del patrimonio nazionale. Dopo un primo governo di transizione presieduto da Ferruccio Parri (1945), esponente del Partito d’azione, la guida passò in dicembre al leader della Democrazia cristiana, Alcide De Gasperi, che formò un governo di coalizione comprendente anche socialisti e comunisti, restando poi alla guida del governo per otto ministeri dal 1945 al 1953. Le elezioni del 2 giugno 1946 per l’Assemblea costituente, in cui per la prima volta votarono anche le donne, fecero emergere la forza dei tre partiti di massa, DC, PSI, PCI. Lo stesso giorno venne tenuto il referendum popolare istituzionale, che portò alla proclamazione della repubblica. Nel febbraio 1947 venne firmato a Parigi il trattato di pace, in base al quale l’Italia, perdute le colonie, cedette alla Iugoslavia l’Istria, Fiume e Zara e alla Francia Briga e Tenda; Trieste formò un territorio libero. Sempre nel 1947 i socialisti si scissero in un Partito socialista, strettamente alleato con i comunisti, e in un partito socialdemocratico. Nel maggio De Gasperi, nel clima della guerra fredda, deciso a far poggiare la politica italiana su una salda alleanza con gli USA, pose fine alla collaborazione di governo con le sinistre, chiudendo così la fase dell’unità antifascista. Il 1° gennaio 1948, conclusisi i lavori dell’Assemblea costituente (1946-47), entrò in vigore la Costituzione, che introduceva in Italia una repubblica democratica parlamentare. Le elezioni dell’aprile 1948 diedero una grande vittoria alla DC, che ottenne il 48,5% dei voti, segnando la sconfitta del PCI, divenuto però il primo partito della sinistra, e del PSI uniti in un Fronte popolare, i quali videro così frantumarsi la loro strategia diretta, secondo la formula di Togliatti, a introdurre in Italia una “democrazia progressiva” orientata in politica estera in senso filosovietico. De Gasperi diede vita al suo quinto ministero, con la partecipazione di liberali, repubblicani e socialdemocratici. Ebbe così inizio l’era del centrismo. In maggio fu eletto presidente della repubblica Luigi Einaudi. In luglio il capo del PCI, Togliatti subì un grave attentato, con un seguito di disordini. I conflitti politici determinarono la scissione della Confederazione generale del lavoro, portando alla formazione della UIL (socialdemocratica) e della CISL (cattolica). Fra il 1945 e il 1948, grazie anche agli imponenti aiuti americani (piano Marshall) e alla moderazione della sinistra, la ricostruzione economica conseguì un sostanziale successo, tanto che nel 1954 la produzione globale risultava quasi raddoppiata rispetto a quella del 1938. Nel 1949 l’Italia aderì al Patto atlantico e alla NATO. Fra il 1948 e il 1953 De Gasperi tenne saldamente il potere. Nel 1950 fu varata la riforma agraria, che spezzò il latifondo meridionale e fu costituita la Cassa per il Mezzogiorno; ma la politica meridionalistica, volta a modernizzare l’agricoltura del sud e a creare i presupposti dello sviluppo industriale, nonostante le ingenti erogazioni dello stato, diede risultati modesti, alimentando un vasto clientelismo a sfondo politico. Il 1953 segnò la crisi del “centrismo” degasperiano. Le elezioni, non avendo dato la maggioranza assoluta alla DC e ai partiti alleati, non fecero scattare la legge maggioritaria voluta dalla DC e introdotta dopo un aspro dibattito parlamentare (battezzata dalle opposizioni “legge truffa”). Formato un ottavo ministero, De Gasperi, non avendo ottenuto la fiducia, cedette il governo a Giuseppe Pella (1953-54). Nel 1954 Trieste tornò all’Italia. Nel 1955 venne eletto presidente il democristiano Giovanni Gronchi. Nel 1956, anno della denuncia dei crimini di Stalin e dell’invasione sovietica dell’Ungheria, i socialisti posero fine alla loro alleanza con i comunisti. Nel 1957 l’Italia aderì al Mercato comune europeo (MEC). In conseguenza del duplice fenomeno della crisi del centrismo e del distacco del PSI dal PCI, si fece strada nei partiti al potere, nonostante forti opposizioni, l’idea di un possibile allargamento dell’area di governo ai socialisti. Dopo un periodo di governo monocolore DC, presieduto da Fernando Tambroni, che rappresentò un estremo tentativo di impedire questa apertura e che nel luglio del 1960 provocò dure agitazioni con numerosi morti per le sue aperture al Movimento Sociale Italiano, il partito neofascista, nel 1962, per il principale impulso dei democristiani Aldo Moro e Amintore Fanfani, fu inaugurata la fase del centrosinistra. A questa svolta politica fu contrario il democristiano Antonio Segni eletto presidente nel 1962. Amintore Fanfani formò un governo (1962-63) con l’appoggio parlamentare dei socialisti, e mise in atto la nazionalizzazione dell’energia elettrica. Nel 1963 Moro formò il primo governo organico di centrosinistra, con la partecipazione diretta dei socialisti. Egli rimase al potere fino al 1968, fortemente contrastato non solo dai comunisti, ma anche dalle forze conservatrici, interne ed esterne al suo partito, e dai neofascisti. Nel 1964 il generale De Lorenzo progettò persino una svolta reazionaria, da mettersi in atto con mezzi militari (“piano Solo”). Nel 1964 fu eletto presidente il socialdemocratico Giuseppe Saragat. I governi Moro furono scarsamente incisivi; il che contribuì, a partire dalla fine del 1967, a suscitare un’ondata di contestazione politica e sociale, prevalentemente operaia e studentesca, avente radici internazionali, la quale, estesasi l’anno seguente, diede origine a quello che venne chiamato “il Sessantotto”. Dopo che tra il 1968 e il 1970 fu approvato l’ordinamento regionale, nel 1970 fu varato lo Statuto dei lavoratori, che fissò un sistema di garanzie di grande importanza, e venne approvata la legge che introduceva il divorzio, nonostante la durissima opposizione cattolica. Ma i conflitti interni esplosero violenti. Nel 1969 un attentato a Piazza Fontana a Milano, che provocò 16 morti, segnò l’inizio di un’ondata di terrorismo, inizialmente alimentato dagli estremisti di destra e in seguito anche da quelli della sinistra extraparlamentare. Dall’universo delle organizzazioni terroristiche, che misero in atto sequestri, attentati, assassinii e stragi, emersero le Brigate rosse. Assai grave fu l’infiltrazione nelle file del terrorismo di destra di corpi deviati dello stato, i quali ne appoggiarono le azioni con propositi autoritari. La diffusa corruzione pubblica, che ebbe il suo epicentro nell’area di governo, portò nel 1974 alla legge per il finanziamento dei partiti da parte dello stato; ma la sua attuazione non valse ad attenuare la piaga. Le elezioni amministrative del 1975 e quelle politiche del 1976 rappresentarono un rilevante successo per il PCI, il quale aveva trovato in Moro, dopo che il segretario del PCI Enrico Berlinguer aveva nel 1973 auspicato un compromesso storico fra sinistre e mondo cattolico, un interlocutore convinto che fosse necessario, data la gravità della crisi interna, aprire un nuovo corso della politica nazionale. Mentre era in atto un governo monocolore, detto di “solidarietà nazionale”, data la partecipazione alla maggioranza parlamentare dei comunisti, e presieduto da Andreotti (1976-78), Moro fu rapito e quindi ucciso dalle Brigate rosse (1978). La sua linea politica fu così liquidata. Nel 1978 fu eletto alla presidenza della repubblica il socialista Sandro Pertini, destinato a grande popolarità, che succedette al democristiano Giovanni Leone, eletto nel 1971 con i voti dei neofascisti e dimessosi dopo un grave scandalo che lo coinvolse direttamente. Verso la fine degli anni Settanta i terrorismi di destra e di sinistra, anche se ancora attivi, risultavano ormai politicamente sconfitti. Sempre nel 1978 si aprì un rinnovato accordo di governo fra la DC e il PSI, guidato dal 1976 da Bettino Craxi. Nel 1981, rispecchiando una crisi di leadership della DC, venne nominato presidente del Consiglio il repubblicano Giovanni Spadolini (1981-82). In un clima di corruzione e di intrighi, scoppiò lo scandalo della Loggia P2, organizzazione segreta con fini politici antidemocratici. Nel 1983 assunse la guida del governo, per la prima volta nella storia nazionale, un socialista, Bettino Craxi (1983-87), sotto la cui presidenza venne affrontata una crisi di rapporti, rapidamente composta, con gli Stati Uniti in seguito al dirottamento a opera di palestinesi della nave Achille Lauro; fu efficacemente contrastato il processo di inflazione; e Stato e Chiesa firmarono nel 1984 un nuovo concordato, che segnò la fine dello stato confessionale, non essendo più riconosciuta quale religione di stato la religione cattolica. Dopo la caduta del governo Craxi la guida della vita politica italiana tornò alla DC. Le elezioni anticipate del giugno 1987 premiarono i due partiti maggiori della coalizione, la DC e il PSI, ponendo le premesse di un’ulteriore riedizione del pentapartito (dal 1991 quadripartito, dopo l’uscita del PRI dalla maggioranza) fino alle elezioni del 5 aprile 1992. In questa fase della storia repubblicana – durante la quale i principali governi furono retti da Ciriaco De Mita (1988-89) e da Andreotti (1989-91) – ebbe un ruolo assai attivo e inedito il presidente della repubblica Francesco Cossiga (1985-92), che intervenne a più riprese con le sue “esternazioni”, soprattutto nell’ultimo periodo del suo mandato, nel dibattito politico. Nel contesto più generale prima della perestrojka gorbacëviana, poi della caduta dei regimi comunisti nell’Europa centro-orientale e della dissoluzione dell’Unione Sovietica, la crisi delle coalizioni di governo divenne infine la crisi di un intero sistema politico, che si era formato e sviluppato in Italia nel contesto della guerra fredda. Alla vigilia delle elezioni del 1992 sembrava ancora praticabile la strada di un rinnovato accordo tra la DC e il PSI, con la duplice candidatura di Craxi alla presidenza del Consiglio e di Arnaldo Forlani alla presidenza della Repubblica. Già negli anni immediatamente precedenti, tuttavia, erano iniziati radicali mutamenti che provocarono un profondo rivolgimento del sistema politico italiano, trasformatosi in un vero e proprio crollo del sistema dei partiti. Nel primo quarantennio repubblicano l’Italia subì una grande trasformazione economica, passando da paese agricolo-industriale a paese industriale-agricolo. Gli anni Cinquanta e Sessanta fecero parlare di un “miracolo” economico italiano, pur nel quadro degli irrisolti squilibri fra nord e sud, di cui era stata una spia la grande ondata dell’emigrazione meridionale verso le città industriali settentrionali e il nord europeo. La crisi petrolifera del 1973 aveva aperto un periodo di difficoltà per il mondo produttivo, dando inizio a un accentuato fenomeno inflativo. Gli anni Ottanta videro un’importante ristrutturazione degli apparati produttivi, accompagnato dalla crescita del ruolo dell’“economia sommersa”. Il continuo dilatarsi della spesa pubblica provocò un fortissimo indebitamento dello stato, sullo sfondo del quale vennero per l’appunto a prodursi grandi cambiamenti di natura politica.

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9. Crisi e trasformazione del sistema politico italiano (1991-2008)

Tra questi cambiamenti ebbe un ruolo decisivo la trasformazione del PCI in un nuovo Partito democratico della Sinistra (PDS), portata a compimento dall’ultimo segretario del PCI Achille Occhetto nel febbraio del 1991 e da cui sorse, in seguito a una scissione della sinistra, il Partito della Rifondazione comunista (dicembre 1991).
Un altro elemento determinante fu lo sviluppo delle leghe nelle regioni settentrionali del paese, in particolare nelle aree più ricche e dinamiche della Lombardia e del Nord-Est. Federate dal dicembre del 1989 nella Lega Nord, esse posero all’ordine del giorno – insieme a motivi antimeridionalistici e razzistici – temi quali il federalismo e la secessione, la critica dello stato assistenziale, della partitocrazia e del sistema ormai dilagante della corruzione, ponendo con forza all’attenzione dell’opinione pubblica una nuova “questione settentrionale”. A fronte di queste prime importanti trasformazioni – a cui si deve aggiungere la fondazione del movimento “La Rete” nel marzo 1991 – le elezioni politiche del 5 aprile 1992 diedero il segnale di una profonda crisi del sistema politico italiano: la DC scese al 29,7% e il PSI al 13,6%; il PDS e Rifondazione comunista ottennero rispettivamente il 16,1% e il 5,6%. Fu la Lega Nord, con l’8,6%, a raccogliere i frutti della crisi dei partiti tradizionali.
Il progetto di un nuovo governo Craxi e dell’elezione alla presidenza della Repubblica di Forlani divenne del tutto inattuale. In un clima estremamente teso – segnato da due gravi delitti di mafia in cui furono assassinati i giudici Giovanni Falcone (23 maggio 1992) e Paolo Borsellino (19 luglio 1992) – fu nominato presidente, all’indomani delle dimissioni anticipate di Cossiga, il democristiano Oscar Luigi Scalfaro (25 maggio 1992) e capo del governo il socialista Giuliano Amato (28 giugno 1992), il quale si pose alla guida di un quadripartito comprendente DC, PSI, PSDI e PLI. Due ulteriori trasformazioni finirono per determinare il tracollo del vecchio sistema dei partiti. La prima – la “rivoluzione dei giudici”, in cui ebbe un ruolo di primo piano il magistrato Antonio Di Pietro – fu messa in moto da una serie di inchieste della Procura di Milano che, dal 1992, misero in luce un gigantesco sistema di corruzione finalizzato al finanziamento illegale dei partiti e degli uomini di governo (soprattutto della DC e del PSI), delegittimando di fatto gran parte della classe politica. Tra le vittime più eccellenti di “Tangentopoli” vi furono Craxi – che si dimise dalla segreteria del PSI nel febbraio del 1993 per trasferirsi poi in Tunisia – e Forlani, anch’egli costretto ad abbandonare la vita politica. Andreotti nel marzo del 1993 fu formalmente accusato dalla procura di Palermo di collusioni con la mafia (da cui fu peraltro poi prosciolto in primo grado nel 1999). Dopo le dimissioni di Amato (22 aprile 1993) si formò, per iniziativa del presidente Scalfaro, un governo tecnico presieduto dall’ex governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi (28 aprile 1993), il primo formato da un non parlamentare. Nel contempo – ed è la seconda trasformazione – furono varate importanti riforme dei meccanismi della rappresentanza con il sostegno di schieramenti trasversali rispetto ai partiti tradizionali: fu introdotta la preferenza unica in seguito all’esito positivo della consultazione referendaria del 9 giugno 1991; venne approvata una nuova legge elettorale per i comuni (25 marzo 1993), che introduceva meccanismi maggioritari e l’elezione diretta del sindaco e che fu messa per la prima volta alla prova nelle amministrative del 1993; all’indomani di una nuova consultazione referendaria (18 aprile 1993), furono infine approvate due nuove leggi elettorali per la Camera e il Senato (4 agosto 1993), le quali introdussero un meccanismo elettorale per il 75% maggioritario e per il 25% proporzionale. Si trattava di un’innovazione radicale, che avviò il sistema politico italiano, sia pure in maniera incompiuta, sulla strada dei moderni sistemi maggioritari e del bipolarismo. In tale contesto si iniziò a parlare di fine della “prima Repubblica” e di transizione alla “seconda Repubblica”. Dopo il PCI, crollarono definitivamente gli altri partiti tradizionali: la DC che, dopo una secca sconfitta alle amministrative del 1993, si sciolse nel gennaio del 1994 trasformandosi in un Partito popolare (PPI), da cui si separò poi il Centro cristiano democratico (CCD); e il PSI che, divenuto in qualche modo il simbolo stesso della corruzione della classe politica della “prima Repubblica”, conobbe un vero e proprio tracollo alle amministrative del 1993. Nel contempo il MSI, sotto la leadership di Gianfranco Fini, si trasformò in Alleanza nazionale (AN).
Prima il governo Amato e poi il governo Ciampi affrontarono con grande energia una gravissima emergenza finanziaria, avente la sua causa prima nell’enorme indebitamento dello stato, e diedero inizio alle privatizzazioni delle aziende a capitale pubblico. Tra la fine del 1993 e l’inizio del 1994, per iniziativa dell’imprenditore Silvio Berlusconi, fu fondata una forza politica destinata a un inaspettato quanto clamoroso successo, Forza Italia (FI): un partito costruito su quadri aziendali che poteva contare sulla forza derivante dal controllo dell’emittenza televisiva privata a diffusione nazionale da parte del suo leader. Le elezioni del 27-28 marzo 1994, seguite a una campagna elettorale dominata da toni di acceso anticomunismo e dalle promesse di un nuovo “miracolo economico” da realizzarsi con strategie neoliberiste simili a quelle del reaganismo e del tatcherismo, segnarono una netta affermazione di FI (21%), che raccolse il voto di parte dell’ex DC e dell’ex PSI, dando la vittoria al Polo delle libertà (formato al Nord da FI e dalla Lega di Umberto Bossi) e al Polo del buon governo (formato al Sud dalla stessa FI e da Alleanza nazionale). La coalizione dei “Progressisti” di centrosinistra (PDS, una componente dell’ex PSI, Verdi, Alleanza democratica, Rete) e di Rifondazione comunista risultò così perdente. Ancor più grave fu la sconfitta della coalizione di centro, il Patto Italia, formato dal PPI e dal Patto Segni. Le elezioni del Parlamento europeo che si svolsero il 12 giugno successivo confermarono i risultati delle politiche.
Nel frattempo si insediò il nuovo governo di Silvio Berlusconi. Esso rimase tuttavia in carica soltanto fino al dicembre del 1994, quando Berlusconi, direttamente coinvolto nelle indagini su Tangentopoli, fu costretto a dimettersi in seguito all’uscita della Lega Nord dalla maggioranza parlamentare in relazione al dibattito sulla riforma del sistema radio-televisivo (14 dicembre). Nonostante la dura opposizione di FI e di AN, si costituì per iniziativa di Scalfaro un nuovo governo tecnico presieduto da Lamberto Dini, già ministro del Tesoro nel governo Berlusconi, che rimase in carica dal gennaio 1995 fino alle elezioni dell’aprile 1996, con il sostegno dei Progressisti, della Lega e del PPI. Dopo aver fatto approvare un’importante legge di riforma del sistema previdenziale, un decreto sulla par condicio televisiva e la legge finanziaria, Dini rassegnò le dimissioni. Nel frattempo il PPI andò incontro a una nuova scissione e confluì in parte nelle file del centrodestra con il CDU di Rocco Buttiglione e in parte in quelle del centrosinistra con il PPI di Gerardo Bianco. Lo stesso Dini si candidò alle elezioni insieme allo schieramento dei progressisti – l’Ulivo – guidato dall’ex presidente dell’IRI Romano Prodi, sostenuto dal PDS, dai popolari e dai Verdi.
Le elezioni del 21 aprile 1996 segnarono la vittoria dell’Ulivo, che portò alla formazione di un governo, appoggiato dall’esterno da Rifondazione comunista, presieduto da Romano Prodi, rimasto in carica fino all’ottobre del 1998 alla testa di una coalizione di governo quanto mai instabile. Al principio del suo mandato, nel settembre del 1996, la Lega Nord, rimasta fuori da entrambi gli schieramenti di centrodestra e di centrosinistra, radicalizzò le proprie posizioni nel senso della secessione, dichiarando l’indipendenza della Padania e lanciando in tal modo una sfida gravissima all’unità nazionale, che ebbe tuttavia un peso poco più che simbolico. Grazie a una serie di importanti riforme strutturali e a una politica di stretto rigore finanziario, il governo Prodi riuscì ad adeguare l’Italia ai parametri richiesti dall’Unione Europea per l’adesione alla moneta unica. Il governo fu tuttavia costretto a dimettersi nel 1998 dopo il ritiro di Rifondazione comunista dalla maggioranza. Ad esso subentrò un nuovo governo presieduto dal segretario del PDS Massimo D’Alema, che poté contare sul sostegno dell’UDR di Cossiga (poi UDEUR) e dei Comunisti italiani di Armando Cossutta, che operarono una scissione da Rifondazione comunista in polemica con la linea politica di Fausto Bertinotti. Il governo D’Alema portò l’Italia a partecipare nel 1999 alla guerra della NATO contro la Iugoslavia per la questione del Kosovo, si impegnò attivamente nel sostegno alle popolazioni delle zone colpite dalla guerra e proseguì il processo delle riforme avviato da Prodi. Ma fu esposto agli effetti infine dirompenti di una coalizione attraversata da forti contrasti; il che, dopo una prima crisi nel dicembre del 1999 e un rimpasto che vide l’ingresso nel governo dei Democratici, una nuova formazione politica sorta a opera dei seguaci di Prodi, nel frattempo nominato presidente della Commissione esecutiva dell’Unione Europea, portò infine alle sue dimissioni nell’aprile del 2000, a seguito di una netta sconfitta del centrosinistra alle elezioni regionali tenutesi il 16 aprile (in qualche modo già anticipata dai risultati sfavorevoli conseguiti alle elezioni europee del giugno 1999).
Gli subentrò, con il sostegno dei partiti di centro e di sinistra e su designazione del nuovo presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi (eletto nel maggio 1999), un secondo governo presieduto da Giuliano Amato. Al centro dei dibattiti che caratterizzarono il suo mandato tornò a porsi la questione della riforma elettorale, in seguito anche al fallimento (per il non raggiungimento del quorum) dei referendum tenutisi nel maggio del 2000, uno dei quali prevedeva per l’appunto l’abolizione della quota proporzionale fissata dalle leggi elettorali del 1993. I governi di centrosinistra, mentre non riuscirono nell’intento di procedere a un’efficace riforma del sistema politico e istituzionale, conseguirono invece sostanziali successi nel campo del risanamento finanziario e del miglioramento della situazione economica in generale. Ciò non consentì comunque di ripetere il successo elettorale e alle elezioni politiche del 2001 si affermò la coalizione di centrodestra (“Casa delle Libertà”) con ampio margine di seggi alla Camera e al Senato.
Il nuovo governo guidato da Silvio Berlusconi – il più lungo della storia repubblicana – si impegnò a far approvare contestati provvedimenti in materia di giustizia e una serie di progetti di legge delega in campo economico, fiscale e del lavoro incontrando la ferma opposizione della CGIL guidata da Sergio Cofferati. Tra le leggi più contestate rientrò anche la riforma elettorale del 2005, che ripristò il sistema proporzionale pur su liste bloccate (cioè senza la possibilità di esprimere preferenze) con premio di maggioranza. In campo internazionale, l’Italia partecipò alla spedizione militare in Afghanistan guidata dagli USA dopo gli attentati dell’11.9.2001. Successivamente, pur non prendendo direttamente parte alle operazioni belliche, l’Italia inviò anche, con compiti di mantenimento e salvaguardia della pace (Missione “Antica Babilonia”), un contingente militare in Iraq, il quale fu ripetutamente coinvolto in scontri a fuoco con le forze ribelli irachene e oggetto di attentati suicidi, il più grave dei quali fu quello avvenuto il 12 novembre 2003 a Nassiriya, che causò la morte di 19 italiani, tra smilitari e civili. A causa della crescente disaffezione dell’elettorato nei confronti del governo, le elezioni regionali del 2005 videro il centrodestra subire una pesante sconfitta, a seguito della quale la stessa coalizione richiese un forte rilancio del programma e dell’attività di governo.
All’indomani del ritiro dei ministri centristi dell’UDC si aprì così una crisi di governo che tuttavia si concluse a pochi giorni di distanza con la formazione del terzo governo Berlusconi. Alle successive elezioni politiche del 2006, la coalizione di centrosinistra, l’Unione, si impose di misura su quella di centrodestra, riportando così Romano Prodi alla guida del governo. A causa tuttavia delle continue frizioni all’interno della coalizione di governo – soprattutto tra la componente moderata facente capo all’UDEUR e quella radicale facente capo a Rifondazione Comunista – e di una ristretta maggioranza in senato, l’esistenza stessa del governo fu continuamente minacciata sino a quando, dopo l’approvazione della legge finanziaria 2008 e lo scoppio di un nuovo caso giudiziario che coinvolse direttamente il ministro della giustizia Clemente Mastella, quest’ultimo annunciò le proprie dimissioni dando di fatto avvio alla crisi del governo, che si consumò definitivamente all’indomani del voto di sfiducia del 24 gennaio 2008.

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10. Le nuove elezioni del 2008 e la crisi della seconda repubblica

Una volta accertata l’impossibilità di formare un governo ad interim finalizzato a raggiungere un accordo di massima in vista di una nuova riforma elettorale che sostituisse quella contestatissima del 2005, il Presidente Napolitano sciolse le camere. Nel frattempo il panorama delle forze politiche era andato incontro a mutamenti significativi, che si erano tradotti nella nascita di due nuovi soggetti politici unitari: il Partito democratico (PD), nato esssenzialmente dalla convergenza tra i Democratici di sinistra e i centristi della Margherita, e il Popolo della Libertà (PdL), nato a sua volta dalla confluenza tra Forza Italia e Alleanza Nazionale. Le successive elezioni anticipate della primavera 2008 portarono non solo alla netta vittoria della coalizione di centrodestra, guidata ancora una volta da Silvio Berlusconi e formata da PdL, Lega e Movimento per le Autonomie, sulla coalizione di centrosinistra, formata da PD e Italia dei Valori, ma registrarono anche una significativa trasformazione nel quadro delle alleanze e insieme una significativa semplificazione del quadro politico, che vide l’esclusione dal parlamento di numerose formazioni minori, tra cui l’UDEUR e Rifondazione comunista. Nonostante la netta maggioranza goduta dal governo in entrambi i rami del parlamento, anche la vita del quarto governo Berlusconi fu però estremamente travagliata sin dal suo esordio. Esso dovette infatti fare fronte a una triplice serie di sfide. La prima fu legata al grave peggioramento della situazione economica del paese, il quale fu duramente investito dalla crisi finanziaria globale del 2008.
Di fronte alla nuova emergenza economica il governo reagì varando un drastico piano di riduzione della spesa pubblica che, non accompagnandosi ad adeguate misure di rilancio della produzione industriale e di stimolo del mercato interno, suscitò la dura reazione dei sindacati da un lato e i malcelati malumori della Confindustria. La seconda sfida fu legata all’emergere di una nuova serie di scandali e di casi giudiziari che coinvolsero direttamente la figura del premier e di fronte ai quali quest’ultimo e i suoi più stretti collaboratori risposero lanciando una vera e propria controffensiva a colpi di contestati provvedimenti legislativi in materia di giustizia. La terza e ultima sfida cui il governo dovette far fronte fu legata al grave scontro politico e personale che si consumò nella seconda metà del 2010 tra Berlusconi e Fini, con la conseguente espulsione di quest’ultimo dal PdL e la scissione di una parte minoritaria del partito, che andò successivamente a costituire un gruppo parlamentare autonomo denominato Futuro e libertà. Nella seconda metà del 2010, il governo Berlusconi sopravvisse a tre successivi voti di sfiducia, ma la sua maggioranza andò comunque incontro a un progressivo indebolimento. Nel frattempo la situazione economica e finanziaria del paese andò incontro a un ulteriore peggioramento, aggravato dall’attacco della speculazione internazionale, dall’avvio, di fatto, di un’intensa fase recessiva e dalla progressiva perdita di fiducia da parte dei mercati nei confronti delal stabilità del governo, continuamente coinvolto in scandali giudiziari.
A fronte di tali crescenti difficoltà, la coalizione di governo subì una dura sconfitta nelle elezioni amministrative nel giugno del 2011, perdendo il controllo di importanti centri urbani come Milano, ma sopravvisse, a breve distanza di tempo, a un nuovo voto di sfiducia. Sottoposto alla vigile sorveglianza delle istituzioni europee, il governo fu costretto ad approvare successive manovre di riduzione drastica della spesa, che tuttavia non convinsero né gli investitori esteri, né i partners europei. Maturata la consapevolezza della gravità della situazione, Berlusconi rassegnò infine le dimissioni nei primi giorni di novembre e il presidente Napolitano affidò quindi l’incarico di governo a Mario Monti. Quest’ultimo, mediando con le tre maggiori forze politiche a sostegno del suo governo – il PD, il PDL e i centristi di Pier Ferdinando Casini – si impegnò con fatica nel rilancio dell’economia, nell’elaborazione di un piano strutturale di riduzione della spesa pubblica e in un ambizioso progetto di riforma sia del mercato del lavoro, sia del sistema previdenziale. [Federico Trocini]

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100. TABELLA: Le guerre per il predominio in Italia (1521-1559)

1494 Discesa di Carlo VIII in Italia
1495 Carlo VIII occupa il Regno di Napoli
Battaglia di Fornovo: Carlo VIII sconfitto da una lega antifrancese
1499 Luigi XII conquista Milano
1504 Il Regno di Napoli passa sotto la sovranità spagnola
1508 Formazione della Lega di Cambrai contro Venezia
1509 Battaglia di Agnadello: sconfitta di Venezia
1510 Pace tra Venezia e Giulio II
1511 Giulio II organizza la Lega Santa contro la Francia
1513 Sconfitta dei francesi a Novara
1515 Nuova invasione francese con Francesco I
1516 Trattato di Noyon
1521 Inizia il conflitto tra Francesco I e Carlo V
1525 Sconfitta dei francesi a Pavia
1526 Trattato di Madrid
Francesco I promuove la Lega di Cognac
1527 Milano riconquistata dal maresciallo de Lautrec
Sconfitta francese a Landriano, presso Pavia
Saccheggio di Roma da parte dei lanzichenecchi
1529 Trattato di Cambrai
1535 Riprendono le ostilità tra Francia e Impero
1536 Carlo V si impedronisce di Milano
1538 Tregua di Nizza, promossa da Paolo III
1542 Alleanza anti-imperiale francese
1544 Pace di Crepy, promossa da Paolo III
1547 Enrico II riprende il conflitto con l’Impero
1556 Tregua di Vaucelles
1557 Vittoria spagnola a San Quintino
1559 Trattato di Cateau-Cambrésis

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101. TABELLA: Legislature, elezioni politiche e governi italiani (1861-2011)






2013 XVII legislatura (29/4/2008)

1861 VIII legislatura (18/2/1861 - 7/9/1865)
418.696 aventi diritto di voto (1,9%), 239.583 votanti
Camillo Benso Cavour 23/3/1861 - 12/6/1861
Bettino Ricasoli 12/6/1861 - 3/3/1862
Urbano Rattazzi 3/3/1862 - 8/12/1862
Luigi Carlo Farini 8/12/1862 - 24/3/1863
Marco Minghetti 24/3/1863 - 28/9/1864
Alfonso Lamarmora 28/9/1864 - 7/9/1865
1865 IX legislatura (18/11/1865 - 13/2/1867)
504.265 aventi diritto di voto (2%), 276.523 votanti
Alfonso Lamarmora 18/11/1865 - 20/6/1866
Bettino Ricasoli 20/6/1866 - 13/2/1867
1867 X legislatura (22/3/1867 - 2/11/1870)
498.208 aventi diritto di voto (1,9%), 258.243 votanti
Bettino Ricasoli 22/3/1867 - 10/4/1867
Urbano Rattazzi 10/4/1867 - 27/10/1867
Luigi Federico Manabrea 27/10/1867 - 14/12/1869
Giovanni Lanza 14/12/1869 - 2/11/1870
1870 XI legislatura (5/12/1870 - 20/9/1874)
530.018 aventi diritto di voto, 240.974 votanti
Giovanni Lanza 5/12/1870 - 10/7/1873
Marco Minghetti 10/7/1873 - 20/9/1874
1874 XII legislatura (23/11/1874 - 3/10/1876)
571.939 aventi diritto di voto (2,1%), 318.517 votanti
Marco Minghetti 23/11/1874 - 25/3/1876
Agostino Depretis 25/3/1876 - 3/10/1876
1876 XIII legislatura (20/11/1876 - 2/5/1880)
605.007 aventi diritto di voto (2,2%), 358.258 votanti
Agostino Depretis 20/11/1876 - 24/3/1878
Benedetto Cairoli 24/3/1878 - 19/12/1878
Agostino Depretis 19/12/1878 - 14/7/1879
Benedetto Cairoli 14/7/1879 - 2/5/1880
1880 XIV legislatura (26/5/1880 - 2/10/1882)
621.896 aventi diritto di voto (2,2%), 358.258 votanti
Benedetto Cairoli 26/5/1880 - 29/5/1881
Agostino Depretis 29/5/1881 - 2/10/1882
1882 XV legislatura (22/11/1882 - 27/4/1886)
2.017.829 aventi diritto di voto (6,9%), 1.223.851 votanti
Agostino Depretis 22/11/1882 - 27/4/1886
1886 XVI legislatura (10/6/1886 - 22/10/1890)
2.420.317 aventi diritto di voto, 1.415.801 votanti
Agostino Depretis 10/6/1886 - 29/7/1887
Francesco Crispi 29/7/1887 - 22/10/1890
1890 XVII legislatura (10/12/1890 - 27/9/1892)
2.752.658 aventi diritto di voto, 1.477.173 votanti
Francesco Crispi 10/12/1890 - 6/2/1891
Antonio Di Rudinì 6/2/1891 - 15/5/1892
Giovanni Giolitti 15/5/1892 - 27/9/1892
1892 XVIII legislatura (23/11/1892 - 8/5/1895)
2.934.445 aventi diritto di voto, 1.639.298 votanti
Giovanni Giolitti 23/11/1892 - 15/12/1893
Francesco Crispi 15/12/1893 - 8/5/1895
1895 XIX legislatura (10/6/1895 - 2/3/1897)
2.120.185 aventi diritto di voto, 1.251.366 votanti
Francesco Crispi 10/6/1895 - 10/3/1896
Antonio Di Rudinì 10/3/1896 - 2/3/1897
1897 XX legislatura (5/4/1897 - 17/5/1900)
2.120.909 aventi diritto di voto, 1.241.486 votanti
Antonio Di Rudinì 5/4/1897 - 29/6/1898
Luigi Pelloux 29/6/1898 - 17/5/1900
1900 XXI legislatura (16/6/1900 - 18/10/1904)
2.248.509 aventi diritto di voto, 1.310.480 votanti
Luigi Pelloux 16/6/1900 - 24/6/1900
Giuseppe Saracco 24/6/1900 - 15/2/1901
Giuseppe Zanardelli 15/2/1901 - 3/11/1903
Giovanni Giolitti 3/11/1903 - 18/10/1904
1904 XXII legislatura (30/11/1904 - 8/2/1909)
2.541.327 aventi diritto di voto, 1.593.886 votanti
Giovanni Giolitti 30/11/1904 - 12/3/1905
Tommaso Tittoni 12/3/1905 - 28/3/1905
Alessandro Fortis 28/3/1905 - 8/2/1906
Sidney Sonnino 8/2/1906 - 29/5/1906
Giovanni Giolitti 29/5/1906 - 8/2/1909
1909 XXIII legislatura (24/3/1909 - 29/9/1913)
2.930.473 aventi diritto di voto, 1.827.865 votanti
Giovanni Giolitti 24/3/1909 - 11/12/1909
Sidney Sonnino 11/12/1909 - 31/3/1910
Luigi Luzzati 31/3/1910 - 30/3/1911
Giovanni Giolitti 30/3/1911 - 29/9/1913
1913 XXIV legislatura (27/11/1913 - 29/9/1919)
8.443.205 aventi diritto di voto, 5.014.921 votanti
Giovanni Giolitti 27/11/1913 - 21/3/1914
Antonio Salandra 21/3/1914 - 18/6/1916
Paolo Boselli 18/6/1916 - 29/10/1917
Vittorio Emanuele Orlando 29/10/1917 - 23/6/1919
Francesco Saverio Nitti 23/6/1919 - 29/9/1919
1919 XXV legislatura (1/12/1919 - 7/4/1921)
10.239.326 aventi diritto di voto, 5.793.507 votanti
Francesco Saverio Nitti 1/12/1919 - 15/6/1920
Giovanni Giolitti 15/6/1920 - 7/4/1921
1921 XXVI legislatura (11/6/1921 - 25/1/1924)
11.477.210 aventi diritto di voto, 6.701.496 votanti
Giovanni Giolitti 11/6/1921 - 4/7/1921
Ivanoe Bonomi 4/7/1921 - 26/2/1922
Luigi Facta 26/2/1922 - 31/10/1922
Benito Mussolini 31/10/1922 - 25/1/1924
1924 XXVII legislatura (24/5/1924 - 21/1/1929)
11.930.452 aventi diritto di voto, 7.614.451 votanti
Benito Mussolini 24/5/1924 - 21/1/1929
1929 XXVIII legislatura (20/4/1929 - 19/1/1934)
Primo plebiscito: 9.460.737 aventi diritto, 8.661.820 votanti
Benito Mussolini 20/4/1929 - 19/1/1934
1934 XXIX legislatura (28/4/1934 - 2/3/1939)
Secondo plebiscito: 10.433.536 aventi diritto, 10.041.997 votanti
Benito Mussolini 28/4/1934 - 2/3/1939
1939 XXX legislatura
Benito Mussolini 23/3/1939 - 25/7/1943
Ordinamento provvisorio 25/7/1943 - 1/7/1946
1° Pietro Badoglio 25/7/1943 - 17/4/1944
2° Pietro Badoglio 22/4/1944 - 18/6/1944
Ivanoe Bonomi 18/6/1944 - 10/12/1944
2° Ivanoe Bonomi 12/12/1944 - 19/6/1945
1° Ferruccio Parri 21/6/1945 - 8/12/1945
1° Alcide De Gasperi 10/12/1945 - 1/7/1946
1946 Costituente (25/7/1943 - 23/5/1948)
28.005.449 aventi diritto di voto, 24.947.187 votanti
2° Alcide De Gasperi 13/7/1946 - 28/1/1947
3° Alcide De Gasperi 2/2/1947 - 31/5/1947
4° Alcide De Gasperi 31/5/1947 - 23/5/1948
1948 I legislatura repubblicana (8/5/1948 - 24/6/1953)
Camera: 29.117.554 aventi diritto, 26.854.203 votanti (92,2%)
Senato: 25.874.809 aventi diritto, 23.842.919 votanti (92,1%)
5° Alcide De Gasperi 23/5/1948 - 12/1/1950
6° Alcide De Gasperi 27/1/1950 - 16/7/1951
7° Alcide De Gasperi 26/7/1951 - 29/6/1953
1953 II legislatura (25/6/1953- 11/6/1958)
Camera: 30.280.342 aventi diritto, 28.410.326 votanti (93,8)
Senato: 27.172.872 aventi diritto, 25.483.201 votanti (93,8)
8° Alcide De Gasperi 16/7/1953 - 28/7/1953
Giuseppe Pella 17/8/1953 - 5/1/1954
1° Amintore Fanfani 18/1/1954 - 30/1/1954
Mario Scelba 10/2/1954 - 22/6/1955
1° Antonio Segni 6/7/1955 - 6/5/1957
Adone Zoli 19/5/1957 - 19/6/1968
1958 III legislatura (12/6/1958 - 15/5/1963)
Camera: 32.446.892 aventi diritto, 30.758.031 votanti (93,8%)
Senato: 29.174.858 aventi diritto, 27.391.239 votanti (93,9%)
2° Amintore Fanfani 26/1/1959 - 2/2/1962
2° Antonio Segni 15/2/1959 - 24/2/1960
Fernando Tambroni 25/3/1960 - 19/7/1960
3° Amintore Fanfani 26/7/1960 - 2/2/1962
4° Amintore Fanfani 21/2/1962 - 16/5/1963
1963 IV legislatura (16/5/1963 - 14/5/1968)
Camera: 31.766.058 aventi diritto, 30.758.031 votanti (92,9%)
Senato: 30.989.382 aventi diritto, 28.831.008 votanti (93%)
1° GiovanniLeone 21/6/1963 - 5/11/1963
1° Aldo Moro 4/12/1963 - 26/6/1964
2° Aldo Moro 22/7/1964 - 21/1/1966
3° Aldo Moro 23/2/1966 - 5/6/1968
1968 V legislatura (5/6/1968 - 24/5/1972)
Camera: 35.566.681 aventi diritto, 33.003.249 votanti (92,8%)
Senato: 32.528.271 aventi diritto, 30.212.701 votanti (92,7%)
2° Giovanni Leone 24/6/1968 - 19/11/1968
1° Mariano Rumor 12/12/1968 - 5/7/1969
2° Mariano Rumor 5/8/1969 - 7/2/1970
3° Mariano Rumor 27/3/1970 - 6/7/1970
Emilio Colombo 6/8/1970 - 15/1/1972
1° Giulio Andreotti 17/2/1972 - 26/2/1972
1972 VI legislatura (25/5/1972 - 4/7/1976)
Camera: 37.049.634 aventi diritto, 34.524.106 votanti (93,2%)
Senato: 33.923.895 aventi diritto, 31.454.873 votanti (92,7%)
2° Giulio Andreotti 26/6/1972 - 12/6/1973
4° Mariano Rumor 7/7/1973 - 2/3/1974
5° Mariano Rumor 14/3/1974 - 3/10/1974
4° Aldo Moro 23/11/1974 - 7/1/1976
5° Aldo Moro 12/2/1976 - 30/4/1976
1976 VII legislatura (5/7/1976 - 19/6/1979)
Camera: 40.423.131 aventi diritto, 37.760.520 votanti (93,4%)
Senato: 34.908.119 aventi diritto, 32.557.373 votanti (93,3%)
3° Giulio Andreotti 29/7/1976 - 16/1/1978
4° Giulio Andreotti 11/3/1978 - 31/1/1979
5° Giulio Andreotti 20/3/1979 - 31/3/1979
1979 VIII legislatura (20/6/1979 - 11/7/1983)
Camera: 42.303.314 aventi diritto, 38.252.986 votanti (90,6%)
Senato: 36.364.039 aventi diritto, 32.877.329 votanti (90,4%)
1° Francesco Cossiga 4/8/1979 - 19/3/1980
2° Francesco Cossiga 4/4/1980 - 28/9/1980
Arnaldo Forlani 18/10/1980 - 26/5/1981
1° Giovanni Spadolini 28/6/1981 - 7/8/1982
2° Giovanni Spadolini 23/8/1982 - 13/11/1982
5° Amintore Fanfani 1/12/1982 - 2/5/1983
1983 IX legislatura (12/7/1983 - 1°/7/1987)
Camera: 44.047.478 aventi diritto, 39.188.182 votanti (89%)
Senato: 37.603.817 aventi diritto, 33.308.600 votanti (88,6%)
1° Bettino Craxi 4/8/1983 - 27/6/1986
2° Bettino Craxi 1/8/1986 - 3/3/1987
6° Amintore Fanfani 17/4/1987 - 28/4/1987
1987 X legislatura (2/7/1987 - 22/4/1992)
Camera: 45.689.829 aventi diritto, 40.599.490 votanti (88,9%)
Senato: 38.953.549 aventi diritto, 34.421.230 votanti (88,4%)
Giovanni Goria 28/7/1987 - 11/3/1988
Ciriaco De Mita 13/4/1988 - 19/5/1989
6° Giulio Andreotti 22/7/1989 - 29/3/1991
7° Giulio Andreotti 14/4/1991 - 24/4/1992
1992 XI legislatura (23/4/1992 - 14/4/1994)
Camera: 47.465.709 aventi diritto, 41.390.098 votanti (87,2%)
Senato: 41.179.818 aventi diritto, 35.785.269 votanti (86,8%)
1° Giuliano Amato 28/6/1992 - 28/4/1993
Carlo Azeglio Ciampi 28/4/1993 - 16/4/1994
1994 XII legislatura (15/4/1994 - 8/5/1996)
Camera: 48.235.213 aventi diritto, 41.539.464 votanti (86,12%)
Senato: 41.966.783 aventi diritto, 35.880.903 votanti (85,5%)
1° Silvio Berlusconi 10/5/1994 - 22/12/1994
Lamberto Dini 17/1/1995 - 11/1/1996
1996 XIII legislatura (9/5/1996)
Camera: 48.846.238 aventi diritto, 40.496.438 votanti (82,9%)
Senato: 42.884.351 aventi diritto, 35.308.497 votanti (82,33%)
Romano Prodi 17/5/1996 - 9/10/1998
1° Massimo D’Alema 21/10/1998 - 18/12/1999
2° Massimo D’Alema 22/12/1999 - 19/4/2000
2° Giuliano Amato 25/4/2000 - 31/5/2001
2001 XIV legislatura (30/5/2001)
Camera: 45.690.670 aventi diritto, 37.100.824 votanti (81,2%)
Senato: 41.648.698 aventi diritto, 33.818.743 votanti (81,3%)
2° Silvio Berlusconi 10/6/2001 - 23/4/2005
3° Silvio Berlusconi 23/4/2005 - 17/5/2006
2006 XV legislatura (28/4/2006)
Camera: 46.997.601 aventi diritto, 32.298.497 votanti (83,62%)
Senato: 42.232.467 aventi diritto, 35.262.679 votanti (83,5%)
2° Romano Prodi 17/5/2006 - 8/5/2008
2008 XVI legislatura (29/4/2008)
Camera: 47.041.814 aventi diritto, 37.874.569 votanti (80,51%)
Senato: 42.358.775 aventi diritto, 34.058.406 votanti (80,40%)
4° Silvio Berlusconi 8/5/2008 - 12/11/2011
1° Mario Monti 16/11/2011
Camera: 46.905.154 aventi diritto, 35.270.926 votanti (75,20%)
Senato: Senato: 42.270.824 aventi diritto, 31.751.350 votanti (75,11%)
1° Enrico Letta 28/04/2013

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