La prima guerra d’indipendenza (1848-1849)

Risorgimento I nodi interpretativi

L’espressione “Risorgimento” – e il concetto che ne ebbero alcuni dei suoi principali protagonisti – rimanda all’idea di una continuità di lungo periodo della storia della nazione italiana, che, mortificata da secoli di decadenza, oppressa dal dominio delle potenze straniere e politicamente divisa in piccoli stati di dimensione regionale, riprende con energia le redini del proprio destino, rinnovando la grandezza del passato. Tipica in tal senso fu, ad esempio, la teoria mazziniana della “Terza Roma” che, dopo la Roma dei Cesari (che aveva unificato politicamente il mondo antico) e la Roma dei Papi (che aveva unificato in senso religioso l’Europa medievale), avrebbe dovuto farsi carico della missione di unire l’umanità in un’alleanza di popoli liberi e indipendenti, strutturati secondo il principio di nazionalità. La storiografia successiva (ma già con grande chiarezza Benedetto Croce e poi Antonio Gramsci) ha messo in luce il carattere mitologico, ideologico e progettuale dell’idea di una “nazione italiana” preesistente alla nascita dello stato unitario: fu semmai lo stato – e anche in questo caso con grandi limiti – a “costruire” la nazione vera e propria attraverso strumenti quali la scolarizzazione di massa, il progressivo allargamento della partecipazione politica, la guerra (nazione, nazionalismo). Il dibattito storiografico sul Risorgimento si è sviluppato parallelamente a quello politico e ideologico dell’Italia postunitaria, diventando di volta in volta epopea dei vincitori (i moderati filosabaudi), recupero delle ragioni dei vinti (i democratici), riflessione sul rapporto tra l’unificazione politica e lo sviluppo economico, discussione sul rapporto con la più generale “rivoluzione borghese” europea. Si è parlato di “revisionismo risorgimentale” per le interpretazioni che, alla luce delle storture dello stato unitario e della tragica degenerazione nel fascismo, si interrogarono sugli aspetti di “rivoluzione mancata” del Risorgimento (G. Salvemini, P. Gobetti, A. Gramsci) e sulle ragioni della sconfitta delle possibilità alternative. Nel periodo fascista vi fu chi sostenne la tesi della continuità tra Risorgimento e fascismo, entrambi finalizzati all’affermazione della nazione (G. Volpe, G. Gentile), e chi invece parlò di rottura, poiché il fascismo aveva spezzato il legame, essenziale invece per il Risorgimento, tra nazione e libertà (B. Croce). Un tema assai dibattuto fu quello relativo al rapporto tra le istanze dell’unificazione politica e lo sviluppo economico italiano. E. Hobsbawm e R. Romeo, ad esempio, affermarono che il processo di unificazione non fu stimolato da fattori strutturali – data l’arretratezza economica italiana – ma ebbe ragioni soprattutto ideali e politiche. Soboul, al contrario, vide nella trasformazione in senso capitalistico dell’agricoltura e nell’inizio dell’industrializzazione la condizione per l’affermazione degli ideali risorgimentali. Lo stesso Romeo indicò nella lungimiranza politica di una minoranza liberale e liberista il merito dell’iniziativa – di gran lunga anticipatrice rispetto al livello di sviluppo sociale ed economico degli stati preunitari – di porre attraverso la costruzione del regno d’Italia le premesse per la modernizzazione e l’europeizzazione del paese. Altri, per contro, accusarono l’élite risorgimentale di essersi legata col vecchio blocco dominante, impedendo la realizzazione di un’autentica “rivoluzione liberale” (Gobetti). Un acceso dibattito divise gli storici sulla questione agraria. Secondo Gramsci e poi Emilio Sereni, la mancata riforma agraria in una società ancora prevalentemente rurale e semifeudale produsse quell’estraneità delle masse allo stato che incise pesantemente sui suoi sviluppi futuri, fino alla degenerazione fascista. Gramsci indicò nell’assenza di un vero partito “giacobino” in Italia, capace di far convergere le istanze della borghesia progressista con le esigenze delle masse contadine, il motivo della “rivoluzione mancata”. Di parere opposto furono storici come Romeo, che nella compressione dei consumi popolari (e quindi nella mancata redistribuzione delle terre) videro la condizione indispensabile per l’accumulazione capitalistica e l’industrializzazione del paese (anche se storici dell’economia come A. Gerschenkron sminuirono il ruolo del profitto agrario nell’industrializzazione italiana). Quanto alla cronologia, la storiografia è divisa nel determinare il termine iniziale e quello finale del processo risorgimentale. Per l’inizio si oscilla tra l’età del riformismo settecentesco e gli anni Trenta del XIX secolo; per la fine tra la nascita dello stato unitario (1861) e la prima guerra mondiale (1914-18). A partire dagli anni Ottanta, adottando una prospettiva esplicitamente comparativa, incentrata soprattutto sulle aree regionali e municipali, e contestando sempre più il carattere teleologico dei due principali canoni interpretativi – quello di matrice crociana e liberale da un lato, quello di matrice gramsciana e marxista dall’altro, entrambi tesi a spiegare l’intero processo di costruzione dello Stato nazionale alla luce dello scontro tra progresso e reazione e della successiva deviazione dell’Italia moderna rispetto a un più generale modello democratico-borghese – la cosiddetta “storiografia revisionista” di studiosi, quali, ad esempio, Paolo Macry, Paul Ginsborg, Alberto Banti e Marco Meriggi ha perlopiù teso a interpretare l’unificazione nazionale non più momento decisivo di rottura con il passato feudale, ma soluzione parziale, con carattere “accidentato” e per niente scontato, di problemi specifici. Secondo tale prospettiva, un punto di partenza fondamentale è coinciso con la revisione di quella linea tradizionalmente tesa a concepire il periodo della Restaurazione come una fase segnata in maniera esclusiva da politiche oscurantiste, destinate inesorabilmente al fallimento. Presentando un quadro ben più complesso, all’interno del quale la consueta contrapposizione frontale tra forze del progresso e forze della reazione è stata sensibilmente sfumata, è stata negata sia l’equazione tra sviluppo economico e unificazione, sia quella tra movimento liberale e borghesia, sia infine quella tra rivoluzione e classi popolari. In questo senso, interpretando il mito della “deviazione” italiana come pura invenzione degli storici, influenzati da modelli di spiegazione deterministici dello sviluppo politico ed economico, il compimento dell’unità nazionale non è più stato visto come l’inevitabile risultato del “risorgimento” liberale o dell’ascesa di una particolare nuova classe sociale, ma come l’esito di processi diversi e talora contraddittori, genericamente identificabili con l’affermazione degli Stati moderni. In tale contesto, segnato dalla presenza di tendenze economiche e sociali estremamente eterogenee, variabili a seconda dei singoli contesti geografici e, come tali, difficilmente spiegabili in termini univoci, è stato rivalutata, nel segno del cosiddetto approccio culturalista, l’importanza decisiva del nazionalismo, inteso come elemento catalizzatore, in grado di mobilitare un vero e proprio “movimento di massa”, orientato a dare una soluzione prettamente politica alla questione della frammentarietà italiana.