età contemporanea

  1. Significato del termine
  2. Il problema della periodizzazione
  3. Il mondo contemporaneo fra sviluppo e sottosviluppo
  4. I fattori della modernizzazione nell’età contemporanea
  5. Il ruolo dello stato
  6. Capitalismo, anticapitalismo, questione sociale
  7. La “massificazione” della politica. Liberalismo, democrazia, totalitarismo
  8. Nazionalismo, imperialismo, internazionalismo
  9. L’emancipazione dei servi e degli schiavi e le lotte contro le discriminazioni di razza e di sesso
  10. I volti della “grande violenza”
  11. Secolarizzazione, laicismo, ateismo militante, integralismi religiosi
  12. Dalla società industriale alla società postindustriale
  13. Una rivoluzione tecnico-scientifica ininterrotta
  14. Luci e ombre del progresso. Questione ecologica ed esplosione demografica
  15. Verso un “villaggio globale” dalle molte divisioni
  16. La decolonizzazione e la crisi della centralità europea
  17. Il mondo tra conflitti e integrazione internazionale
  18. La redistribuzione del potere mondiale
1. Significato del termine

Per età contemporanea si intende il periodo storico che dalla fine dell’età moderna giunge ai nostri giorni. Essa è, insomma, la nostra epoca, intesa non soltanto come il momento in cui viviamo, bensì come l’intero arco temporale nel corso del quale hanno avuto origine e si sono sviluppate le principali strutture che la nostra coscienza identifica come elementi costitutivi del contesto spirituale e materiale in cui l’uomo si trova oggi a operare. In quanto risultato di un’interpretazione culturale, l’idea della contemporaneità non ha un carattere “oggettivo” ed è perciò tale da suggerire anche periodizzazioni diverse a seconda di come si interpreta la storia delle civiltà, dei continenti e dei singoli stati e paesi.

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2. Il problema della periodizzazione

Nella storiografia occidentale la periodizzazione più consolidata è quella che colloca la fine dell’età moderna e l’inizio di quella contemporanea a cavallo tra Sette e Ottocento, assumendo come punti di riferimento principali tre grandi processi i quali, in conseguenza delle reciproche interrelazioni, hanno finito per mutare qualitativamente il panorama storico del mondo euro-nordamericano, spesso chiamato anche “occidentale”. Il primo è la modernizzazione economico-sociale rappresentata dall’industrializzazione capitalistica partita dall’Inghilterra negli ultimi decenni del Settecento; il secondo, l’incessante sviluppo scientifico-tecnologico stimolato dall’industrialismo e organizzato su vasta scala; il terzo, la modernizzazione politico-istituzionale, espressa dagli effetti del consolidamento del liberalismo in Gran Bretagna e dagli esiti delle rivoluzioni americana e francese. L’assunzione di questi punti di riferimento pone quali criteri della periodizzazione le vicende dell’Occidente. Un simile approccio ha tuttavia una sua giustificazione “universale” nel fatto che l’età contemporanea ha visto, fino a tempi assai recenti, dapprima l’Europa e poi anche il Nordamerica in una posizione dominante, tale da farne i centri di irradiazione di processi di modernizzazione che hanno assunto un carattere espansivo enorme anche negli altri continenti. È stata quindi la saldatura della modernizzazione economico-sociale con quelle scientifico-tecnologica e politico-istituzionale a dare principalmente forma al mondo in cui continuiamo a vivere e che perciò chiamiamo “contemporaneo”. Vi sono però correnti storiografiche che suggeriscono di far iniziare l’età contemporanea dagli ultimi decenni dell’Ottocento, in relazione al ridisegnarsi della carta geopolitica dell’Europa e al nuovo ruolo degli Stati Uniti; oppure dalla prima guerra mondiale (1914-18), che segnò il declino della centralità europea, fece da levatrice della rivoluzione sovietica e modificò radicalmente i rapporti internazionali nel quadro del “risveglio dell’Asia” e dell’ascesa degli Stati Uniti a potenza mondiale.

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3. Il mondo contemporaneo fra sviluppo e sottosviluppo

Dall’assumere come elementi strutturalmente caratterizzanti dell’età contemporanea i processi di modernizzazione emerge come questa sia l’età che ha marcato, in misura assai più ampia che in precedenza, la divisione tra i paesi sviluppati – in grado cioè di dotarsi delle risorse culturali e materiali necessarie a tali processi e di organizzarle – e i paesi scarsamente sviluppati o poco sviluppati. A partire dagli ultimi decenni del Settecento, la frontiera tra area dello sviluppo e area dello scarso o mancato sviluppo ha subìto significativi spostamenti e mutamenti, che hanno però lasciato inalterato il profondo divario che separa l’una dall’altra, così da far parlare di diversi “mondi”. Se si assume quale parametro fondamentale il primato nei settori produttivi avanzati, nelle linee generali i principali spostamenti sono stati i seguenti: fra gli inizi della rivoluzione industriale nella seconda metà del Settecento e gli inizi del Novecento il centro dello sviluppo è stato l’Europa, a cui nella seconda metà dell’Ottocento si sono affiancati gli Stati Uniti; intorno alla metà del XX secolo, all’interno di quest’area rimasta globalmente dominante, il baricentro si è spostato decisamente a favore degli Stati Uniti; infine, con una accelerazione accentuatasi negli ultimi decenni del secolo, l’area dello sviluppo si è allargata a paesi del sud-est asiatico e in particolare al Giappone, assurto al rango di superpotenza economica. In quest’ultimo periodo, fra l’area dello sviluppo e quella del sottosviluppo – che forma il “Terzo” e il “Quarto mondo” e occupa la maggior parte dell’Africa e parti consistenti dell’Asia e dell’America Latina – si è stabilita una zona intermedia formata anzitutto da grandi paesi come la Cina, l’India, l’Argentina, il Brasile, il Messico e il Sudafrica, in cui sviluppo e sottosviluppo si intrecciano con le più stridenti contraddizioni.

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4. I fattori della modernizzazione nell’età contemporanea

Come le grandi scoperte geografiche, l’invenzione della stampa, la comparsa dei grandi stati nazionali europei e la formazione dei relativi apparati burocratici hanno segnato la grande linea di demarcazione tra età medievale e moderna; così l’inizio dell’industrializzazione capitalistica, l’impiego della macchina a vapore nella produzione e nei trasporti, l’interconnessione organica e organizzata tra scienza e tecnologia, le rivoluzioni americana e francese, lo sviluppo delle classi sociali determinato dalla modernizzazione socioeconomica hanno caratterizzato l’avvento dell’età contemporanea. Una particolare attenzione richiede il rapporto fra l’industrializzazione e quelli che possiamo chiamare i suoi effetti. L’espressione rivoluzione industriale deve essere intesa non già in un senso ristretto all’ambito della produzione delle merci, ma come asse generatore di un complesso e amplissimo mutamento attinente alle sfere della cultura e alle forme della sua organizzazione, della mentalità collettiva, dei rapporti tra società civile, società politica e stato, città e campagna, zone dello sviluppo e zone dell’arretratezza, alle istituzioni economiche e politiche, alla potenza dei diversi stati e alle loro strategie espansionistiche, alle tecniche militari, alla funzione e ai modi della guerra. L’industrializzazione, in breve, ha creato un “mondo” o “società industriale”, da intendersi in senso verticale come la ristrutturazione delle gerarchie, dei gruppi e delle classi sociali, e in senso orizzontale come un’area in progressivo allargamento seppure contenuta entro determinati limiti geografici. I due processi della modernizzazione economica e della modernizzazione politica – destinati a convergere e intrecciarsi indissolubilmente, sebbene i tempi di maturazione nei vari paesi non abbiano affatto coinciso meccanicamente – hanno preso il loro avvio cronologicamente in parallelo (negli ultimi decenni del Settecento), vale a dire con una propria autonomia. Solo in Inghilterra essi sono risultati fin dall’origine sovrapposti. Mentre, dunque, l’industrializzazione – che ha portato con sé l’avvento del capitalismo industriale e finanziario, la creazione delle grandi fabbriche, la formazione di nuovi strati borghesi, della classe operaia e di nuovi ceti impiegatizi – ha trovato la sua prima solida base in un’area ristretta come l’Inghilterra; la modernizzazione politica tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento si è variamente espressa in Gran Bretagna, nel Nordamerica e in Francia. Lo sviluppo del liberalismo in Inghilterra ha consolidato il primato politico del parlamento; la rivoluzione americana ha portato alla nascita di un sistema costituzionale liberale e federale, fondato sull’equilibrio dei poteri fra presidente, congresso, potere giudiziario e fra federazione e stati suoi componenti; la Rivoluzione francese e l’impero napoleonico, che hanno posto fine all’assolutismo di antico regime, hanno immesso nella storia politica europea in rapida successione una serie di modelli politico-costituzionali che, nel quadro di un persistente centralismo istituzionale, si sono espressi nel costituzionalismo liberale, nella dittatura giacobina e nel moderno cesarismo. Il sovvertimento dell’assolutismo e lo stabilimento delle assemblee elettive hanno anche comportato la formazione di organizzazioni di partecipazione e mobilitazione politica, sfociate nella costituzione dei primi partiti politici, divenuti nel corso del loro successivo sviluppo nel corso dell’Ottocento il veicolo dell’immissione di masse sempre più larghe sulla scena politica. Dalle lotte politiche e sociali è inoltre derivata successivamente la formazione dei sindacati dei lavoratori, divenuti via via una componente decisiva della società industriale (sindacalismo).

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5. Il ruolo dello stato

L’età contemporanea è stata caratterizzata da un progressivo accrescimento del ruolo dello stato. Nella prima metà dell’Ottocento le tendenze prevalenti nella borghesia liberale, anzitutto inglese, erano animate da una forte ostilità verso la dilatazione delle funzioni dello stato, vista come un impedimento alla libertà del mercato interno e internazionale e all’iniziativa delle forze spontanee della società civile e degli individui. Ciò che esse chiedevano, secondo un’ispirazione liberistica (liberismo), era uno “stato minimo”, che si limitasse a garantire l’ordine pubblico, proteggere la proprietà, assicurare le regole della convivenza civile, reprimere i movimenti ostili all’ordine costituito e agli interessi delle classi dominanti. Se non che fu proprio lo sviluppo della società industriale a far sì che lo stato allargasse progressivamente i propri compiti di intervento, in primo luogo assumendosi in larga misura, direttamente o indirettamente, gli oneri principali della costruzione delle infrastrutture e dei servizi (ferrovie, strade, canali, apparati amministrativi, ecc.), necessari a questo stesso sviluppo. Nella seconda metà del secolo, particolarmente nell’Europa continentale, il peso dello stato divenne sempre più incombente. Un fattore determinante fu che le borghesie dei paesi a industrializzazione ritardata, come gli Stati Uniti, la Germania, l’Italia e la Russia, chiesero allo stato di proteggerle mediante la legislazione doganale (protezionismo) dalla concorrenza dei paesi più avanzati. Nell’età dell’imperialismo, il connubio fra stato, industria e finanza diventò quanto mai stretto e organico, anche per motivi militari. Le commesse militari alla grande industria costituirono un elemento decisivo dello sviluppo economico. La prima guerra mondiale (1914-18) rappresentò un grande salto di qualità in tale processo, provocando un’enorme crescita dei poteri di intervento a tutti i livelli dello stato, che sottopose gli apparati produttivi alle sue esigenze e la società a un controllo politico e burocratico senza precedenti. Il dopoguerra vide una reazione a tali tendenze. Ma la grande crisi economica del 1929, che investì tutti i paesi industrializzati, determinò una nuova gigantesca inversione di tendenza. Il culmine del dirigismo statalistico venne raggiunto nei paesi autoritari e totalitari (totalitarismo). Nell’Unione Sovietica si realizzò la piena fusione del potere politico ed economico. Nell’Italia fascista lo stato assunse su vasta scala la proprietà o il controllo diretto di importanti settori produttivi e finanziari. Nella Germania nazista lo stato, se non pose limiti alla proprietà privata, sottopose però l’intera economia al proprio comando. Un’ulteriore articolazione e un nuovo sviluppo dell’interventismo statale – che ebbe il suo punto di avvio negli anni Trenta e Quaranta, assumendo un carattere particolarmente accentuato nei paesi scandinavi e in Gran Bretagna a opera dei governi socialdemocratici e laburisti – fu la costruzione delle istituzioni dello “stato sociale” volto a tutelare il benessere anzitutto delle masse lavoratrici e dei ceti sociali più deboli. L’interventismo dello stato nel campo economico e sociale, che ha determinato un onere crescente sulle finanze pubbliche, è stato messo in discussione e quindi respinto negli anni Settanta e Ottanta in nome di un ritorno ai principi del liberismo e della libertà del mercato dai governi conservatori anzitutto in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, così da dare origine a una tendenza poi estesasi in campo internazionale.

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6. Capitalismo, anticapitalismo, questione sociale

Il processo di industrializzazione si è compiuto in ondate successive. Dopo aver avuto il suo motore iniziale in Inghilterra a partire dagli ultimi decenni del Settecento, nella prima metà del secolo XIX si estese principalmente alla Francia, al Belgio e al nord degli Stati Uniti e nel sessantennio successivo alla Germania, all’Italia settentrionale e a zone dell’Europa centro-orientale e della Russia, al Giappone. Mentre in Inghilterra, negli Stati Uniti e nell’Europa occidentale più progredita l’affermazione del capitalismo fu in misura prevalente il risultato dell’iniziativa della borghesia, nei paesi di industrializzazione ritardata (come in particolare l’impero zarista, il Giappone e, in un grado significativo, anche l’Italia) essa fu dovuta in maniera decisiva all’intervento a vari livelli dello stato. Il diffondersi del capitalismo industriale, che ebbe nella grande fabbrica il suo luogo privilegiato e il suo simbolo, per un verso pose le basi di un incremento delle forze produttive straordinario, tale da creare le basi per un miglioramento senza precedenti delle condizioni di vita della società nel suo insieme; per altro verso generò forti e aspre contraddizioni. Era tipico dello sviluppo capitalistico in primo luogo di alternare a fasi di crescita fasi di depressione e di crisi che creavano diffuse sacche di miseria e di disoccupazione, in secondo luogo di alimentare la lotta dei lavoratori e delle loro organizzazioni contro i loro datori di lavoro, accusati di sfruttamento. Questa lotta fu la più clamorosa espressione della questione sociale prodotta dalla trasformazione capitalistica. L’opposizione dei lavoratori al capitalismo espresse due tendenze fondamentali, le quali alla fine dell’Ottocento finirono per contrapporsi: quella riformistica e quella rivoluzionaria. L’una, che aveva i suoi maggiori interpreti nei sindacati e nelle correnti e nei partiti moderati del socialismo, mirava anzitutto a ottenere miglioramenti graduali nelle condizioni di lavoro e più in generale di vita; l’altra, sostenuta principalmente dai partiti e dalle correnti di indirizzo marxista rivoluzionario, sosteneva che le riforme non potevano superare certi limiti organici e che il benessere dei lavoratori e della società nel suo insieme avrebbe potuto essere assicurato unicamente dalla rivoluzione e dall’abolizione della proprietà privata, vale a dire dalla fine del sistema capitalistico, considerato la causa della miseria, delle crisi economiche, della diseguaglianza, delle guerre e dei conflitti politici e sociali. Scopi dei rivoluzionari erano l’abolizione del mercato, la proprietà collettiva dei mezzi di produzione, la pianificazione generalizzata, l’autogoverno della società, la costituzione di un ordine socialista universale. Il socialismo e il comunismo costituirono l’espressione del grande attacco internazionale al capitalismo. Questo attacco nelle previsioni dei rivoluzionari avrebbe dovuto farsi sempre più forte nei paesi a più intenso sviluppo industriale in un contesto di crisi organica del capitalismo. Se non che, sin dalla fine del XIX secolo, apparve chiaro che le tendenze andavano in diversa direzione, poiché il capitalismo nelle zone avanzate era lungi dall’andare verso la crisi definitiva del sistema, rafforzando così i movimenti riformistici e non quelli rivoluzionari. L’attacco contro il capitalismo ebbe invece successo nel corso del XX secolo nelle zone a debole o debolissimo sviluppo capitalistico, come la Russia zarista e la Cina. Dopo la vittoriosa rivoluzione bolscevica del 1917 in Russia ebbe inizio l’esperimento comunista, estesosi successivamente in quello che venne chiamato “mondo socialista”. Questo esperimento fu contrassegnato dalla volontà di perseguire la modernizzazione industrialistica con sistemi non capitalistici, sulla base della dittatura del partito comunista, della collettivizzazione della proprietà e della pianificazione statalistica, fino a superare il livello produttivo dei paesi capitalistici più avanzati. L’Unione Sovietica conseguì sì importanti traguardi nell’industrializzazione, al punto da costituire tra la seconda guerra mondiale e gli anni Ottanta una delle due superpotenze, ma il sistema sovietico è infine crollato (1991), con la conseguenza di determinare anche il fallimento del grande attacco anticapitalistico. Per parte sua l’altro grande stato socialista, la Cina, è sopravvissuto al crollo sovietico e ha intrapreso nell’ultimo decennio del XX secolo la strada di un forte sviluppo economico, ma nel quadro di un netto cedimento alle esigenze di quel mercato interno e internazionale che i comunisti avrebbero voluto distruggere. La questione sociale, che ha dominato l’età contemporanea, non è stata certo oggetto della considerazione e dell’azione soltanto del socialismo e del comunismo nelle loro varie correnti riformistiche e rivoluzionarie, ma anche del cristianesimo sociale, del liberalismo di sinistra e di certe correnti conservatrici, tanto che a partire dagli ultimi decenni del XIX secolo tutte le grandi forze politiche hanno fornito loro specifiche risposte alla questione a seconda dei propri orientamenti ideologici e interessi. Se già a partire dalla seconda metà dell’Ottocento – si pensi in particolare alle misure messe in atto da Bismarck in Germania all’inizio degli anni Ottanta – avevano avuto inizio organiche politiche di legislazione sociale, è stato soprattutto in relazione agli effetti devastanti della grande crisi economica del 1929, che nei maggiori paesi capitalistici lo stato, a partire da Svezia e Gran Bretagna, ha preso a elaborare strategie più o meno organiche di intervento volte a costruire le istituzioni di uno “stato del benessere” ispirato ai principi e ai diritti di “cittadinanza sociale”. Alle sinistre sia liberali sia socialiste e comuniste sia cristiane, tese ad allargare le frontiere dell’equità e della solidarietà ricorrendo in maniera determinante alla spesa pubblica, si sono tradizionalmente contrapposte le forze conservatrici e moderate orientate verso il liberismo e l’individualismo e decise a restringere anche drasticamente quelle stesse frontiere. Significative anche le politiche sociali messe in atto nell’Italia fascista e nella Germania nazista con l’intento di legare le masse ai regimi totalitari. I regimi comunisti, sorti dopo la rivoluzione bolscevica in Russia nel 1917, che pure avevano posto a giustificazione della loro esistenza il problema dell’elevamento delle masse lavoratrici e la soluzione definitiva della questione sociale, hanno raggiunto risultati in concreto non solo del tutto al di sotto delle aspettative, ma molto inferiori a quelli ottenuti nei paesi capitalistici più avanzati grazie alle politiche messe in atto anzitutto, ma non solo, dai governi socialdemocratici in Europa e dalle amministrazioni democratiche negli Stati Uniti a partire dal New Deal rooseveltiano.

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7. La “massificazione” della politica. Liberalismo, democrazia, totalitarismo

Come la modernizzazione economica ha progressivamente alterato il rapporto tra “città” e “campagna” a favore della prima, così quella politica ha drasticamente modificato il rapporto tra élites e masse per quanto riguarda la partecipazione politica. L’età contemporanea è il periodo storico in cui le masse hanno fatto la loro irruzione sulla scena politica, con un processo la cui gradualità trova un indicatore essenziale nei tempi e nei modi dell’allargamento del suffragio, estesosi prima in alcuni paesi e poi in altri, prima agli uomini e poi alle donne fino al raggiungimento del diritto di tutti al voto. Il parlamentarismo liberale inglese, la rivoluzione americana e la Rivoluzione francese, dando vita ai moderni sistemi rappresentativi, hanno per ciò stesso avviato le lotte per la dilatazione delle basi elettive degli istituti rappresentativi. Posta con forza all’ordine del giorno nel corso della Rivoluzione francese, la democrazia, fondata sul suffragio universale, è diventata, nel quadro del confronto-scontro tra regimi di matrice liberale e regimi variamente autoritari, una delle idee-forza delle lotte politiche e sociali dell’Ottocento e ha trovato la sua definitiva affermazione nel Novecento. La democrazia non è certo stato il solo fattore che abbia dato impulso alla massificazione della politica. Questa non è infatti unicamente riconducibile alla forza crescente con cui si sono affermati i diritti di libertà, eguaglianza, partecipazione, ma anche alle esigenze oggettive della modernizzazione economico-sociale; la quale sempre più ha reso necessario per le classi dirigenti di immettere le masse nella vita dello stato a fini di integrazione, controllo e direzione. Tanto che la massificazione della politica ha caratterizzato sia i regimi liberaldemocratici, nei quali le masse sono state libere di scegliere tra partiti e organizzazioni, sia quelli autoritari e soprattutto totalitari di destra e di sinistra nei quali le masse sono state immesse, sebbene attraverso l’inquadramento dall’alto, nel sistema politico, a differenza di quanto avveniva nei regimi autoritari di tipo tradizionale, in cui esse, nella grandissima maggioranza legate alla terra, restavano in una posizione di estraneità. I regimi totalitari novecenteschi – costituitisi nell’Unione Sovietica e in Italia negli anni Venti e in Germania negli anni Trenta e basati sulla distruzione di ogni forma di democrazia, sul monopolio politico del partito al potere, sulla repressione generalizzata e violenta nei confronti delle opposizioni – al pari dei regimi liberaldemocratici hanno costituito dunque tipiche espressioni della massificazione della politica, che, grazie a giganteschi apparati di mobilitazione e di propaganda, hanno portato all’estremo. Se in presenza di un suffragio ancora fortemente ristretto i partiti avevano avuto il carattere di unioni di persone e di gruppi influenti per censo e cultura (partiti di notabili), il progressivo allargamento del suffragio ha portato i partiti – inizialmente negli Stati Uniti a partire dagli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento e poi negli ultimi decenni di quello stesso secolo in Europa – a trasformarsi in organizzazioni di massa, strutturate in maniera gerarchica, controllate da politici di professione e diffuse nel territorio. In Europa i primi partiti a darsi negli ultimi decenni del XIX secolo un’organizzazione di questo tipo sono stati i partiti socialisti, a iniziare dal Partito socialdemocratico tedesco. Sicché la democrazia ha assunto il volto di una “democrazia dei partiti” divenuta il fondamento dei regimi rappresentativi. L’idea della “democrazia diretta”, esercitata cioè direttamente dal popolo – che è stata promossa dalle tendenze antiparlamentari del socialismo e del comunismo e ha trovato le sue più significative espressioni nella Comune di Parigi del 1871 e nelle rivoluzioni russe del 1905 e del 1917 – mentre ha rappresentato un potente mito politico, non ha trovato alcuna durevole attuazione istituzionale. Accanto ai partiti l’altro grande veicolo di organizzazione delle masse sono stati i sindacati, protagonisti delle lotte economico-sociali, aventi in molti casi anche rilevanti risvolti politici.

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8. Nazionalismo, imperialismo, internazionalismo

L’età contemporanea è stata segnata in maniera profonda dal nazionalismo e dai suoi volti contraddittori. Per un verso esso ha costituito l’espressione della lotta delle nazionalità oppresse per la salvaguardia della loro identità culturale e la conquista della loro autonomia politica (si pensi solo al Risorgimento italiano, al nazionalismo irlandese, ai movimenti nazionalistici nell’impero austroungarico e zarista, al nazionalismo indiano, ecc.). Questi nazionalismi avevano come scopo di collocare le nazionalità in stato di inferiorità nel seno della comunità internazionale con parità di diritti; e perciò potevano ben collegarsi alla democrazia e allo spirito di cooperazione e persino di fratellanza internazionale. Esemplare a proposito fu il nazionalismo democratico e internazionalista di Mazzini. Per altro verso l’età contemporanea ha visto svilupparsi anche un altro nazionalismo: quello non già delle nazionalità oppresse, bensì delle nazionalità dominanti volte ad affermare la supremazia propria nei confronti delle popolazioni dipendenti e degli altri stati, così da diventare il nucleo ideologico-politico delle tendenze imperialistiche, colonialistiche, militaristiche, in molti casi autoritarie all’interno dei singoli stati e in generale espansionistiche. Tale nazionalismo, dopo aver trovato una sua prima forte espressione nell’impero napoleonico e nell’idea della supremazia francese, ha dominato la politica delle grandi e anche delle minori potenze nel periodo tra l’unificazione dell’Italia (1861) e della Germania (1871) e la seconda guerra mondiale (1939-45), alimentando la politica della forza e tendenze non solo dirette contro il liberalismo, la democrazia, il socialismo, ma anche razzistiche. È stato quello il periodo in cui l’imperialismo dei grandi stati europei, promosso dalle classi dominanti e sorretto da settori particolarmente aggressivi del capitalismo finanziario e industriale, ha avuto come fine sia il dominio coloniale sia il sovvertimento degli equilibri internazionali. Il processo di decolonizzazione, sviluppatosi a partire dalla prima guerra mondiale e ancor più dopo lo scoppio della seconda, ha riportato in auge il nazionalismo dei popoli oppressi contro quello degli oppressori. Il fenomeno nazionalistico ha trovato inoltre importanti espressioni nella seconda metà del XX secolo nella lotta condotta dalle nazionalità soggette contro la dominazione della Russia sovietica. La dissoluzione dell’Unione Sovietica e quella della Federazione iugoslava a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta hanno provocato l’erompere di movimenti nazionalistici a base etnica nei quali alle spinte all’autonomia e all’indipendenza si sono mescolati violenti spiriti razzistici reciprocamente prevaricatori. All’imperialismo e al colonialismo negli ultimi due secoli si sono opposti i movimenti pacifisti e internazionalisti tesi a favorire l’integrazione internazionale. Nella borghesia liberale dei primi decenni dell’Ottocento presero un certo vigore correnti le quali ritenevano che soprattutto il libero commercio avrebbe spontaneamente aperto la strada a una crescente integrazione dei popoli, così da favorire la pace in luogo delle guerre. Ma esse vennero smentite dal prevalere dell’imperialismo e del militarismo. Un internazionalismo di tipo diverso fu espresso dal movimento operaio anzitutto europeo e dai partiti ad esso legati, sotto la crescente influenza del marxismo. Questi partiti a partire dal 1864 formarono delle organizzazioni internazionali – dette appunto Internazionali – le quali furono rivolte a costituire delle unioni mondiali di partiti. Esse consideravano il nazionalismo, l’imperialismo, il colonialismo e le guerre quali prodotti della società capitalistica e intendevano attivare la solidarietà delle classi e dei popoli oppressi contro le classi privilegiate e gli stati da esse dominati, così da arrivare alla pace perpetua mediante la costruzione del socialismo in tutto il mondo. Se non che l’internazionalismo socialista, diviso tra rivoluzionari e riformisti, fallì in primo luogo nell’obiettivo di impedire le grandi guerre del secolo XX. Inoltre, la Terza Internazionale, formata dai partiti comunisti nel 1919, mutò di funzione nel senso che diventò lo strumento diretto dello stato sovietico e dei suoi interessi di potenza.

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9. L’emancipazione dei servi e degli schiavi e le lotte contro le discriminazioni di razza e di sesso

La fine dell’età moderna aveva lasciato irrisolti i problemi della schiavitù, del servaggio dei contadini, del dominio di razza, della soggezione della donna all’uomo, dell’antisemitismo. A partire dagli ultimi decenni del Settecento ebbe inizio in Europa e in America un grande processo di emancipazione, che, seppure non ancora concluso in ampia parte del mondo, certo ha mutato drasticamente la mappa dei diritti umani. La messa al bando del commercio degli schiavi da parte della Gran Bretagna nel 1807 segnò l’inizio di un movimento che trovò la sua tappa decisiva nell’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti per effetto della guerra civile (1861-65). Così l’abolizione del servaggio contadino ebbe luogo in Europa tra la Rivoluzione francese nel 1789 e la riforma di Alessandro II in Russia nel 1861 (servitù della gleba). Il razzismo ha segnato molta parte delle società del mondo contemporaneo, trovando alimento in numerosi filoni di matrice sia religiosa sia scientistica e, ancora nel Novecento, una sanzione istituzionale codificata in particolare nella Germania nazionalsocialista e nel Sud Africa dominato dalla minoranza bianca. Esso è stato solennemente condannato dalle Nazioni Unite. L’antisemitismo ha costituito e continua a essere un altro dei grandi mali contemporanei. L’emancipazione degli ebrei – iniziata negli ultimi decenni del Settecento e proseguita nella prima metà dell’Ottocento nell’Europa centro-occidentale, mentre continuava a persistere un massiccio e violento antisemitismo in quella orientale e in Russia – andò incontro a un drammatico rovesciamento, culminato nella Germania nazista, che portò allo sterminio in massa degli ebrei. La lotta all’antisemitismo, il quale dopo la seconda guerra mondiale ha trovato il suo epicentro nei paesi arabi in relazione ai problemi posti dalla nascita nel 1948 dello stato di Israele, è diventata una delle maggiori bandiere dell’affermazione dei diritti umani e dell’eguaglianza o quanto meno tolleranza tra diverse culture e religioni. Nel mondo contemporaneo è potentemente esplosa anche la battaglia delle donne, che ha avuto la sua avanguardia nel movimento femminista per la parità tra i sessi (femminismo). A partire dalle prime rivendicazioni in Inghilterra, Stati Uniti e Francia nell’età delle rivoluzioni di fine Settecento, il movimento di emancipazione femminile (la sua prima organica espressione comparve nel 1848 negli USA), andò sempre più diffondendosi in America e in Europa, fino a che la conquista del suffragio nel primo dopoguerra in paesi come la Gran Bretagna e gli USA segnò una svolta decisiva (in Italia le donne votarono per la prima volta nel 1946). L’emancipazione femminile – da intendersi nel senso sia di conquista della piena parità con l’uomo sia di riconoscimento dei diritti derivanti dalla specificità della donna – ha ricevuto un rinnovato, forte impulso a partire dagli anni Sessanta del XX secolo, ottenendo un riconoscimento sempre più ampio nella legislazione dei singoli stati e degli organismi internazionali. Un ostacolo però molto grave è costituito dalla resistenze opposte nel mondo attuale in primo luogo dal fondamentalismo islamico e più in generale dal persistere dei tradizionalismi religiosi e culturali. L’emancipazione della donna ha rappresentato il capitolo di un più ampio movimento nel corso della seconda metà del Novecento che ha avuto le sue manifestazioni più significative nelle lotte per la tutela dei diritti vuoi dei dissidenti nei regimi autoritari vuoi delle minoranze religiose vuoi degli omosessuali soggetti a discriminazioni etiche e sociali vuoi persino degli animali sottoposti a “disumane” violenze.

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10. I volti della “grande violenza”

L’età contemporanea è stata sì quella in cui antichi diritti sono stati consolidati e nuovi diritti sono stati conquistati e in cui sono stati raggiunti prima insperati traguardi di benessere materiale e di elevamento civile e culturale. Essa però è stata anche un’età che ha visto la violenza militare, politica e razziale provocare tragedie di un’ampiezza senza precedenti nella storia. La violenza è una costante della vita umana; se non che, in conseguenza della potenza raggiunta dagli apparati statali e dai mezzi forniti agli eserciti dalla scienza e dalla tecnologia, in particolare nel Novecento essa ha potuto scatenarsi con effetti terrificanti principalmente a opera degli stati in lotta tra loro, di regimi rivolti a distruggere le opposizioni sociali e politiche e gruppi razziali considerati nemici, delle guerre e dell’oppressione coloniali. Le guerre mondiali in primo luogo, ma non solo queste, hanno portato allo sterminio di intere generazioni, alla distruzione di città e di grandi territori, a inenarrabili sofferenze patite dalle masse dei soldati e dalle popolazioni. I massacri nelle trincee e i bombardamenti terroristici contro popolazioni inermi, culminati nel lancio di due bombe atomiche sul Giappone, hanno costituito i punti estremi della “grande violenza” prodotta dalla guerra. Per quanto riguarda la violenza politica e razziale, essa ha trovato le sue manifestazioni più cupe nei regimi totalitari della Germania nazionalsocialista e nell’Unione Sovietica staliniana, dove la repressione contro i nemici ha assunto il carattere di un vero proprio terrorismo di stato. Un numero enorme di oppositori è stato incarcerato e avviato in campi di concentramento, dove moltissimi hanno trovato la morte. La violenza terroristica dello stato nazista si è dapprima rivolta contro gli oppositori politici e poi durante la seconda guerra mondiale anche e soprattutto nei confronti degli ebrei tedeschi ed europei – oggetto di un progetto di eliminazione totale (la “soluzione finale”), in gran parte eseguito nei campi di sterminio con la morte di circa 6 milioni di ebrei, allo scopo di mettere in atto una definitiva “purificazione” razziale -, di altre minoranze etniche e di milioni di prigionieri di guerra in primo luogo russi. La violenza del comunismo sovietico – che ha poi fatto scuola agli altri regimi comunisti – si è abbattuta particolarmente contro gli oppositori sociali e politici ma anche contro minoranze etniche giudicate ostili al regime. Anche in questo caso le vittime si contarono a molti milioni. L’asse centrale della repressione sovietica fu l’“universo concentrazionario” (il gulag) basato sul lavoro forzato e sull’eliminazione nei campi di concentramento.

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11. Secolarizzazione, laicismo, ateismo militante, integralismi religiosi

L’avvento della modernizzazione aveva coinciso con il diffondersi in Europa e in America dapprima nelle élites colte e poi in strati sociali via via più larghi, a opera dell’Illuminismo, del positivismo, del socialismo e comunismo, di etiche e ideologie fondate sulla critica e sul rifiuto delle religioni positive. Concezioni laicistiche della vita e delle relazioni tra stato e chiesa, scientismo antireligioso, ateismo militante – divenuto una componente importante del socialismo e del comunismo (ma non solo), neopaganesimo (come quello nazista), indifferentismo – hanno così segnato un tratto dominante del mondo contemporaneo (secolarizzazione). È da aggiungere che, negli ultimi decenni del Novecento, si è assistito a una forte e diffusa reazione nel senso di una vera e propria “riconquista religiosa” sia nel mondo cristiano (favorita dalla crisi del comunismo) sia in quelli ebraico e musulmano (in quest’ultimo una componente importante è la resistenza all’“occidentalizzazione”), con il comparire di forti correnti di integralismo o fondamentalismo, vale a dire di intransigente tradizionalismo volto a recuperare il valore della lettera della Bibbia e del Corano e a farne il fondamento anche della legislazione dello stato, in uno spirito di diffusa intolleranza.

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12. Dalla società industriale alla società postindustriale

La rivoluzione industriale ha affermato un modello di società fondata sull’applicazione su scala sempre maggiore delle macchine mosse da energia non umana, dalla concentrazione delle macchine stesse e degli operai nelle fabbriche, da una continua evoluzione tecnologica prodotta da centri di ricerca scientifica divenuti a mano a mano una componente fondamentale della modernizzazione industrialistica. Per circa due secoli, a partire dalla fine del Settecento, questo modello per un verso si è evoluto mediante un processo di intensificazione interna, per l’altro, attraverso ondate successive, si è esteso dall’Inghilterra al resto dell’Europa e dell’America e da queste zone al resto del mondo. Un cambiamento qualitativo si è prodotto negli ultimi decenni del XX secolo, così da far parlare dell’avvento della società postindustriale. Questa trae i suoi elementi caratterizzanti dal fatto che la maggior parte della mano d’opera, in conseguenza dei processi di automazione, ha cessato di essere occupata nell’industria, trasferendosi nel cosiddetto “terziario” ovvero nel settore dei servizi, dove viene prodotta una quota crescente e persino maggioritaria del reddito. La società industriale e quella postindustriale hanno reso possibile una produzione di beni in precedenza impensabile e aperto la strada a un innalzamento dei consumi tale da inaugurare nei paesi sviluppati, a partire dal secondo dopoguerra, l’era del “consumismo”, che sta a indicare non solo abbondanza di beni, ma anche ricerca e piacere del superfluo, tradizionalmente riservati alle classi alte, per gli strati medi e parte di quelli inferiori.

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13. Una rivoluzione tecnico-scientifica ininterrotta

La prima rivoluzione industriale fondata sulle macchine non sarebbe stata possibile senza una organica interrelazione tra tecnologia e scienza. L’Ottocento ha visto il succedersi di una serie di scoperte scientifiche che hanno di continuo rivoluzionato l’insieme della vita produttiva, sociale e culturale. A partire dagli anni Trenta e Quaranta del Novecento questa relazione si è intensificata così da fare sempre più della ricerca scientifica la principale risorsa dello sviluppo produttivo e della potenza degli stati e il fondamento della società postindustriale. Si è avuto il rapido succedersi della scoperta dell’energia atomica, della conquista dello spazio esterno ai confini della Terra, dell’esplodere della cibernetica, dell’elettronica, della robotica, della telematica, della rivoluzione biologica destinata ad alterare i presupposti stessi della vita dell’uomo, della flora e della fauna. Le possibilità di manipolazione da parte della scienza si presentano al di là dell’immaginazione, suscitando però interrogativi quanto mai inquietanti sulle capacità dell’uomo di prevederne e controllarne gli effetti sconvolgenti. In particolare, l’ingegneria genetica ha aperto un dibattito di natura etica lacerante. Una dimensione importante è inoltre costituita dai continui progressi della medicina, che ha dato luogo a una industria e a organizzazioni sanitarie di enorme importanza economica e scientifica. Il miglioramento dello standard sanitario delle popolazioni, accentuatosi negli ultimi decenni del Novecento naturalmente in misura assai maggiori nei paesi più ricchi, ha provocato il drastico abbassamento della mortalità infantile e l’invecchiamento medio della popolazione mondiale in rapidissima crescita, con rilevantissimi effetti socioeconomici.

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14. Luci e ombre del progresso. Questione ecologica ed esplosione demografica

La cultura industrialistica ottocentesca di matrice positivistica aveva elaborato un’esaltante e quanto mai tranquillizzante idea del progresso indefinito, secondo la quale si era aperta con la rivoluzione industriale un’era pacificatrice all’interno delle società e tra gli stati, fondata su una crescente abbondanza dei beni, che alla fine avrebbe soddisfatto tutti. La natura appariva all’uomo come un campo da sfruttare senza limiti e riguardi, in assenza di una coscienza degli effetti indotti dalla manipolazione da parte dell’uomo. Orbene, proprio il trionfo dell’industria, della tecnologia, della scienza, l’immensa dilatazione della produzione di beni e dei consumi, nel contesto di un inarrestabile boom demografico, hanno messo di fronte alla scoperta che l’ambiente naturale, andato incontro a un profondissimo degrado, sempre meno sopporta la manipolazione di cui è oggetto, al punto da far gravare pesanti minacce in relazione alla qualità della vita umana. Il che ha portato al sorgere di una nuova “coscienza ecologica” e a movimenti anche politici – i movimenti detti ambientalistici o verdi – che nei paesi sviluppati si sono posti il compito di mobilitare le collettività e di spingerle ad affrontare la questione della salvaguardia dell’ambiente (questione ecologica). Si tratta di una questione assai complessa, perché le strategie ambientalistiche da un lato richiedono il riorientamento della ricerca scientifica e delle tecnologie e la riconversione di interi cicli produttivi, con costi giganteschi, e dall’altro lato implicano accordi vincolanti tra gli stati che, per essere efficaci, limitano e persino pongono in discussione per aspetti sostanziali la tradizionale sovranità di ciascuno di essi. Infine, vi sono le resistenze opposte nei paesi ricchi dalle imprese che si oppongono al rialzo dei prezzi determinati dalle tecnologie più rispettose della salvaguardia ambientale e nei paesi poveri dai governi intenzionati a perseguire lo sviluppo seguendo la linea dei costi minori, la quale è spesso proprio quella antiecologica. Il deterioramento dell’ambiente naturale è terribilmente aggravato dall’esplosione demografica. La popolazione mondiale che nel primo Novecento si aggirava intorno a 1 miliardo e 500 milioni dovrebbe superare di gran lunga i 6 miliardi nel XXI secolo. Orbene, mentre nei paesi più ricchi il tasso di crescita, in relazione al controllo delle nascite e all’esigenza di salvaguardia del tenore di vita, appare sotto controllo, nei paesi del Terzo e Quarto mondo si ha una situazione del tutto rovesciata, così che il reperimento di risorse scarse o scarsissime si salda in essi con uno sfruttamento indiscriminato della natura dalle prospettive drammatiche.

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15. Verso un “villaggio globale” dalle molte divisioni

L’inizio dell’età moderna è stato caratterizzato dall’allargamento delle frontiere del mondo in seguito alle grandi scoperte geografiche, alla dilatazione dei traffici commerciali e all’estensione della comunicazione culturale prodotta dalla stampa. Nel corso dell’età contemporanea le comunicazioni materiali e culturali hanno subito una tale intensificazione – in relazione alla produzione di massa, alla rivoluzione dei trasporti compiutasi con la comparsa della nave a vapore, della ferrovia, dell’aeroplano, la radio, gli sviluppi della stampa, la televisione, la conquista dello spazio, la telematica, ecc. – per cui l’intero globo ha visto infittirsi in maniera crescente la rete che lo avvolge consentendo lo scambio massiccio di merci, uomini, informazioni culturali tra gli individui e i gruppi sociali, i vari stati, i continenti. Il mondo tende perciò rapidamente a trasformarsi in un “villaggio globale”; in cui i consumi e i gusti vanno omologandosi, si indeboliscono le differenze tra i popoli e le civiltà, i costumi vanno modificandosi radicalmente, stabilendo su scala gigantesca l’egemonia delle città nei confronti delle campagne del globo. E sono proprio queste prevalenti tendenze che provocano le resistenze e la reazione di tradizionalismi (ne è un tipico esempio quello islamico, ma non solo) che, sentendo minacciate le proprie radici, reagiscono contro l’“occidentalismo” in nome della salvaguardia della loro identità. Mentre dunque l’internazionalizzazione e l’intensificazione dei rapporti tra gli stati, i popoli e le diverse civiltà ci portano verso il “villaggio globale”, questo stesso villaggio resta più che mai segnato da profondissimi divari interni, come in primo luogo quelli tra paesi ricchi e paesi poveri e tra modi altamente conflittuali di concepire i valori della vita e le sue forme di organizzazione sociale e politica.

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16. La decolonizzazione e la crisi della centralità europea

L’età contemporanea è stata del pari l’età in cui ha avuto fine il colonialismo. I sistemi coloniali, che erano stati un prodotto delle scoperte geografiche, della centralità dell’Europa e della sua spinta espansionistica, avevano subito una profonda riorganizzazione nel quadro del moderno imperialismo ottocentesco. Fu la prima guerra mondiale a scuotere le basi del colonialismo in relazione alla crisi della centralità europea. La seconda guerra mondiale – con la perdita dello status di potenze mondiali da parte di Gran Bretagna e Francia e il primato degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica – ha determinato il crollo della centralità del vecchio continente e posto le premesse della liberazione dei paesi coloniali. Questa, definitivamente acceleratasi negli anni Sessanta e arrivata a compimento negli anni Settanta, è avvenuta in modo prevalentemente pacifico per quanto riguarda i possedimenti della Gran Bretagna, mentre Francia, Belgio, Olanda e Portogallo hanno ceduto i loro imperi solo dopo guerre sanguinose. La decolonizzazione ha portato alla formazione di un gran numero di nuovi stati formalmente sovrani; ma essa in generale non ha raggiunto lo scopo di fare della libertà politica di tali paesi il presupposto del loro sviluppo economico e civile; per cui gran parte dei paesi ex coloniali restano nel “Terzo” e nel “Quarto mondo” ovvero nella grande area della miseria, contraddistinta dalla impossibilità e incapacità di impadronirsi delle chiavi istituzionali, sociali ed economiche dello sviluppo. Nel quadro di una simile arretratezza, la democrazia presenta basi quanto mai precarie e il suo avvento si trova di continuo minacciato dal potere autoritario o dittatoriale di ristrette oligarchie o di singoli capi.

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17. Il mondo tra conflitti e integrazione internazionale

Lo sviluppo dell’industrialismo, della scienza e della tecnologia non poteva che dare alla guerra nell’età contemporanea mezzi nuovi di sconvolgente potenza. Tanto che potenza militare, potenza industriale e capacità tecnologica hanno teso a mano a mano a coincidere. Se nel corso del XIX secolo la Russia zarista poteva ancora essere una delle maggiori potenze militari nonostante la sua arretratezza economico-sociale, nel secolo seguente ciò non fu più possibile. Il primo grande conflitto ad avere messo in piena evidenza il nesso tra potenza industriale e potenza militare è stato la guerra civile americana (1861-65), che vide il prevalere del nord industriale sul sud agrario. Prove ancora più evidenti hanno offerto le due guerre mondiali del 1914-18 e 1939-45. La stessa mondializzazione delle due maggiori guerre del XX secolo costituisce una testimonianza della più generale internazionalizzazione dei rapporti tra gli stati e le diverse società. I mezzi di trasporto che nei tempi di pace trasferiscono da un punto all’altro della terra uomini e merci, trasferiscono anche gli strumenti della guerra con una velocità e su una scala che prima della rivoluzione industriale non erano nemmeno concepibili. L’internazionalizzazione sempre più accelerata dei rapporti tra gli stati e i popoli ha assunto espressioni diverse: mentre l’industrialismo si è dimostrato una forza universale che dai paesi sviluppati è andata trasferendosi a quelli meno sviluppati, la gestione politica e istituzionale delle relazioni internazionali nel mondo contemporaneo ha oscillato tra due tendenze che non hanno trovato finora un equilibrio: da un lato quella delle maggiori potenze a mantenere o creare proprie sfere di egemonia o di diretto dominio (come i grandi imperi coloniali, gli imperi multinazionali europei, i blocchi post-1945), da cui sono derivati i conflitti interimperialistici sfociati in azioni di conquista e guerre; dall’altro quella diretta a tentare – il che è avvenuto soprattutto, dopo il crollo dell’impero napoleonico, la prima e la seconda guerra mondiale – di costituire organismi atti a stabilire e preservare l’ordine internazionale sulla base delle intese tra le maggiori potenze e dei loro prevalenti interessi. Organismi di questo tipo sono stati, ad esempio, la Santa Alleanza costituita nel 1815, la Società delle Nazioni sorta nel 1919, l’Organizzazione delle Nazioni Unite nata nel 1945. Il principale compito che queste istituzioni internazionali si sono poste è stata la salvaguardia della pace nel quadro dell’ordine confacente agli stati maggiori. Solo le Nazioni Unite hanno potuto conseguirlo, ma in maniera assai ambigua; poiché, se dopo il 1945 non si sono più avuti conflitti armati tra le maggiori potenze, ciò è avvenuto grazie all’incubo della distruzione nucleare, nel quadro però di un’incessante crescita degli armamenti. È stato l’“equilibrio del terrore” ad agire come maggiore deterrente. Un aspetto di grande importanza della tendenza all’integrazione internazionale è stato inoltre costituito nel Novecento dal formarsi di grandi aggregati politici e/o economici quali in primo luogo l’Unione Sovietica (1922); il Commonwealth britannico (1931), formato dalla Gran Bretagna e dai suoi dominions bianchi; il Comecon (1956), stabilito da numerosi paesi a regime comunista a fini di cooperazione economica; il Mercato comune europeo (1957), poi trasformatosi nel 1992 in Unione europea; il Mercosur (1991) che ha dato vita a un mercato comune tra Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay; la CSI (1991), che, dopo il crollo dell’URSS, ha raggruppato la maggior parte delle ex repubbliche sovietiche; il Nafta (1993), che ha creato una zona di libero scambio tra Stati Uniti, Canada e Messico. Occorre infine sottolineare che fattori come la globalizzazione dell’economia, l’esplosione demografica, il deterioramento via via più grave dell’ambiente naturale, il permanente divario tra paesi ricchi e paesi poveri hanno avuto come effetto di far sorgere una nuova consapevolezza dell’interdipendenza internazionale, così da far sorgere l’esigenza, che non ha ancora trovato una sua soluzione, di un “governo mondiale” del pianeta. L’idea, che ha dominato per secoli, della piena e assoluta sovranità dei singoli stati viene così messa in crisi dal fatto che scelte compiute all’interno di ciascuno di essi hanno conseguenze cruciali sulla vita degli altri stati e che nessuno stato è più in grado di far fronte a problemi la cui mancata soluzione tocca la vita di tutti determinandone la qualità. Al principio del XXI secolo, il mondo si trova così a dover fronteggiare nuove grandi sfide quali, per esempio, la distribuzione dello sviluppo fra paesi ricchi e poveri, la difesa dell’ambiente naturale, il progressivo esaurimento delle risorse energetiche, il mantenimento di un “ordine internazionale” che, dopo la disgregazione negli anni Ottanta di quello che era stato l’“impero sovietico”, non è più minacciato dall’immane conflitto armato tra le due superpotenze che hanno dominato la politica mondiale dopo il 1945, ma è pericolosamente scosso dallo spettro del terrorismo globale, dalla proliferazione delle armi di distruzione di massa e infine da innumerevoli conflitti diffusi i quali, per quanto a carattere regionale, costituiscono un motivo di perturbamento generale.

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18. La redistribuzione del potere mondiale

L’età moderna presentava una mappa del potere mondiale distribuito prevalentemente tra i grandi stati europei con i loro imperi coloniali, gli imperi zarista, ottomano, cinese e il Giappone. L’età contemporanea ha a mano a mano introdotto mutamenti qualitativi in quella mappa, in crescente dipendenza dalla forza industriale di ciascun aggregato. Per circa un secolo l’Europa ha ancora conservato globalmente il proprio primato nei confronti del resto del mondo. Ma nel corso dell’Ottocento i pesi sono andati distribuendosi diversamente. Alla fine del secolo la Germania unificata era diventata il primo paese industriale del vecchio continente, con un’energia tale da avviare la grande sfida nei confronti di Inghilterra e Francia per l’egemonia continentale: sfida i cui effetti, in seguito alla prima guerra mondiale, hanno provocato la crisi della centralità dell’Europa sempre più a favore degli Stati Uniti, divenuti fin dagli inizi del secolo la maggiore potenza economica. Fra le due guerre mondiali, la geografia del potere si è disegnata secondo i seguenti poli: l’Unione Sovietica impegnata in un gigantesco sforzo di industrializzazione; la Germania nazionalsocialista, diretta a rilanciare la sua sfida non solo all’Inghilterra e alla Francia ma anche all’URSS e infine agli stessi USA; gli Stati Uniti ormai incontrastati nel loro primato economico; il Giappone imperiale, volto al dominio sull’Asia sudorientale. L’esito della seconda guerra mondiale ha sancito la divisione della Germania e dell’Europa – nella parte occidentale soggette all’egemonia statunitense e in quella orientale alla diretta dominazione sovietica -, l’annientamento dell’impero nipponico e l’avvento del “bipolarismo” a livello mondiale, durato fino al crollo dell’“impero” sovietico alla fine degli anni Ottanta. Grandi mutamenti sono stati anche l’emergere della Cina comunista e dell’India indipendente e la rinascita, a partire dagli anni Cinquanta, del Giappone che da allora ha iniziato una straordinaria ascesa economica. Lo sviluppo scientifico-tecnologico, divenuto sempre più il fattore principale della potenza economica e militare, ha infine determinato un nuovo riassetto degli equilibri complessivi di potenza. L’URSS e i regimi comunisti europei hanno dimostrato di non possedere sistemi economici e istituzionali idonei a far fronte alle esigenze poste dall’avvento della società tecnico-scientifica postindustriale; il che ha contribuito in maniera decisiva a determinarne il crollo. E tuttora la Russia resta alle prese con una grave crisi sociale ed economica. I centri detentori del potere mondiale al principio del XXI secolo sono in primo luogo i grandi aggregati – come l’Europa comunitaria e gli Stati Uniti – mentre, al posto di Giappone sempre più in difficoltà, un peso rilevante stanno assumendo paesi emergenti come l’India, il Brasile e soprattutto la Cina comunista, che a partire dagli anni Ottanta e Novanta, grazie a riforme strutturali in grado di attivare il mercato interno e di intensificare i suoi rapporti con il mercato internazionale, ha intrapreso uno sviluppo economico dai ritmi elevatissimi che le consente di candidarsi, in prospettiva, al ruolo di superpotenza globale. [Massimo L. Salvadori]

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