socialismo

  1. Significato del termine
  2. Le origini del socialismo
  3. La formazione del socialismo moderno nell’età della rivoluzione industriale e della Rivoluzione francese
  4. La teoria del “socialismo scientifico” di Marx ed Engels. L’anarchismo
  5. La Prima e la Seconda Internazionale
  6. La prima guerra mondiale, la Rivoluzione russa e la spaccatura del movimento operaio internazionale
  7. Il socialismo dal 1945 a oggi
  8. Il socialismo nei paesi arabi ed ex coloniali africani
1. Significato del termine

Per socialismo si intende un movimento insieme teorico e pratico che ha come scopo l’affermazione della solidarietà in campo etico e dell’equità sociale in campo economico. Quanto ai mezzi per conseguire le loro finalità, i socialisti si sono divisi da un lato in rivoluzionari e riformisti e dall’altro in fautori dell’abolizione della proprietà privata – considerata la base strutturale degli interessi particolaristici degli individui e delle singole classi, così da indurre a voler costituire un sistema generalizzato di proprietà collettiva, vista come presupposto dell’armonia tra gli uomini in una società senza classi – e in fautori della regolazione della proprietà privata e del mercato, da piegarsi alle esigenze della socialità mediante la legislazione. Nel quadro della teoria marxista, il socialismo rappresenta la prima fase della costruzione della società postcapitalistica (dove a tutti viene dato in base al loro lavoro), cui deve seguire il comunismo (in cui tutti ottengono a seconda dei loro bisogni). A partire dalla rivoluzione bolscevica, il socialismo ha costituito l’ala del movimento operaio internazionale che ha mantenuto la propria autonomia dal comunismo, su posizioni sia conflittuali sia di alleanza con esso.

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2. Le origini del socialismo

Sono da considerarsi comuni le origini del socialismo e del comunismo. Sia i socialisti sia i comunisti moderni, infatti, riconoscono le proprie radici nelle utopie sociali di Platone e del taoismo cinese, nel cristianesimo primitivo che esaltava la comunione dei beni, nei movimenti ereticali medievali che denunciavano i mali religiosi, etici e sociali prodotti dalla cupidigia e dalla ricerca individuale della ricchezza, nelle correnti estreme emerse durante la guerra dei contadini in Germania e nell’esperimento teocratico degli anabattisti di Münster, nelle “utopie” dottrinarie espresse nei testi di Thomas More (1516) e di Tommaso Campanella (1602), nelle comunità indigene costituite dai gesuiti nel Paraguay nel XVII secolo, negli zappatori che nel corso della rivoluzione inglese del XVII secolo rivendicarono il diritto di “zappare” in comune la terra, nelle critiche distruttive rivolte alla proprietà privata nel Settecento da Jean Meslier, Gabriel Bonnot de Mably e Morelly.

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3. La formazione del socialismo moderno nell’età della rivoluzione industriale e della Rivoluzione francese

Ciò che distingue il socialismo moderno da quello premoderno è il fatto che il primo si è sviluppato in stretto rapporto con i problemi posti dalla rivoluzione industriale e dalla formazione del proletariato di fabbrica per un verso e per l’altro dai conflitti politici e sociali generatisi nell’età aperta dalla Rivoluzione francese. I socialisti, divisi in varie correnti, si sono posti l’obiettivo di dare vita a forme di organizzazione sociale capaci di trasformare la condizione umana, politica ed economica delle masse. Alla “questione sociale” creata dall’industrializzazione, ai problemi posti dalla disoccupazione, dai salari insufficienti e dall’emarginazione, ha inteso rispondere il “socialismo”: un movimento nel cui ambito generale vanno comprese le scuole che in senso più specifico sono state definite come la socialista, l’anarchica e la comunista. Mentre François-Noël Babeuf (1760-97), teorico della rivoluzione del Quarto Stato e della dittatura dell’élite rivoluzionaria, i pensatori neomillenaristici Étienne Cabet (1788-1856) e Wilhelm Weitling (1808-71), il cospiratore Auguste Blanqui (1805-81) sono ascritti, per l’importanza in primo luogo attribuita all’elemento della mobilitazione rivoluzionaria, alla scuola comunistica, a quella più propriamente socialistica sono ricondotti, per l’accentuazione posta sulla progettualità riformatrice, Robert Owen, Claude-Henri de Rouvroy de Saint-Simon, Charles Fourier e Louis Blanc. L’inglese Robert Owen (1771-1858) può essere considerato il prototipo del riformatore socialista. Industriale di successo, cercò infaticabilmente di dare soluzioni socialistiche all’attività produttiva. Per lui il fondamento della nuova società poteva essere solo l’educazione allo spirito comunitario. Cercò di attuare le proprie idee sia nel proprio stabilimento di New Lanark sia negli Stati Uniti, dove fondò senza successo una colonia comunistica. Owen non fu solo un riformatore “utopista”, ma fu anche strettamente legato alle lotte e all’organizzazione della classe operaia inglese. Mentre Owen poté fare riferimento a una industria e a una classe operaia in pieno sviluppo come quelle inglesi, i francesi Saint-Simon (1760-1825) e Fourier (1772-1837) risposero ai problemi soprattutto politici e sociali della Francia rivoluzionaria e postrivoluzionaria. Il primo parlò in Nuovo cristianesimo (1825) e in altre opere di un risorgente spirito di fratellanza, che doveva unirsi con lo spirito scientifico, la tecnica e l’industria moderni. La classe dirigente della società dell’avvenire avrebbe dovuto essere composta, in luogo della vecchia aristocrazia, del clero, dei burocrati e dei militari, dai competenti così da valorizzare pienamente il lavoro produttivo dell’insieme degli strati attivi. Era giunta l’era degli “industriali” (da non confondersi con i padroni dell’industria). Altro tratto essenziale del pensiero di Saint-Simon fu il progetto dell’unione, in chiave federalistica, dei popoli europei, al fine di porre termine ai nazionalismi e alle guerre. Il sansimonismo diede vita a diverse scuole in Francia e in Europa, in parte essenziale svincolandosi dal socialismo e alimentando il positivismo. Fourier fu un tipico pensatore utopista, animato dall’idea della costruzione di una forma di società in grado di assicurare la piena armonia. Ne concepì lo strumento nei “falansteri”, ovvero in grandi complessi autosufficienti rispondenti ai principi della collaborazione, organizzazione e divisione del lavoro. Mentre i singoli pensatori e riformatori elaboravano i propri sistemi, in Inghilterra la nuova classe operaia prese a condurre negli anni Trenta e Quaranta del XIX secolo la sua lotta per la conquista della cittadinanza politica vista quale mezzo non solo per la democratizzazione della società, ma anche per le riforme sociali. La maggiore espressione di questo movimento di emancipazione fu il cartismo (così detto dalla “Carta del popolo” presentata nel 1838 al parlamento), che rivendicò il suffragio universale maschile. Il cartismo, che andò incontro alla sconfitta nel 1848, fu la prima grande testimonianza del movimento operaio organizzato in Europa. Dall’unione dei progetti di riforma sociale delle élites illuminate e dalla mobilitazione e organizzazione degli operai il socialismo trasse i suoi connotati costitutivi. Durante il regno di Luigi Filippo d’Orleans (1830-48), in Francia si ebbe un notevole sviluppo dell’industria e della classe operaia. I più significativi esponenti del socialismo di quel paese furono Blanqui, teso infaticabilmente a organizzare cospirazioni insurrezionali, regolarmente represse, il socialista riformista Louis Blanc (1811-82) e l’anarchico Pierre J. Proudhon (1809-65). Nella sua opera L’organizzazione del lavoro (1839), Blanc elaborò il primo testo del moderno riformismo socialista. In esso espose un progetto di riforma basato sulla collaborazione fra capitale e lavoro, sul ruolo centrale dello stato nelle funzioni produttive in qualità di “regolatore”, sul diritto al lavoro e sull’“autogoverno” dei produttori nella prospettiva di progressiva sostituzione del settore privato. Dopo la rivoluzione del 1848, Blanc cercò di attuare il suo programma organizzando, come ministro, delle fabbriche “nazionali” che non riuscirono però a decollare anche per l’opposizione delle forze conservatrici. Per contro l’anarchico Proudhon – autore del celebre pamphlet Che cos’è la proprietà? (1840) in cui aveva affermato che questa è un furto – convinto che lo stato proprietario sarebbe degenerato in un sistema burocratico e autoritario, si fece fautore del federalismo, del decentramento e della cooperazione libera e concorrenziale.

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4. La teoria del “socialismo scientifico” di Marx ed Engels. L’anarchismo

Fu in Germania, paese ancora notevolmente arretrato dal punto di vista economico ma centro della filosofia europea, che il socialismo moderno trovò la sua maggiore espressione teorica con Karl Marx (1818-83) e Friederich Engels (1820-1895), dando vita al marxismo, destinato ad avere un’influenza di portata mondiale. Nelle loro opere, fra cui spiccano il Manifesto del Partito comunista (1848), scritto in comune dai due, e Il Capitale (1867) di Marx, che divennero i testi più noti della corrente, furono affermate tre idee chiave. La prima era che non dai progetti utopici, tipici del socialismo precedente (definito appunto, con atteggiamento decisamente critico, “socialismo utopistico”), ma dallo sviluppo delle contraddizioni del capitalismo moderno e dalla lotta di classe fra borghesia e classe operaia fosse da attendersi l’attuazione prima del socialismo e poi del comunismo. La seconda idea era che il trapasso dalla vecchia alla nuova società avrebbe assunto la forma di una grande rivoluzione politico-sociale, compiuta non dai poveri e dagli oppressi in generale ma dalla classe operaia quando il capitalismo fosse giunto alla sua maturità e decadenza. Era compito dei comunisti guidare il proletariato organizzato in partiti rivoluzionari uniti a livello internazionale. Nel Capitale Marx espose le ragioni storiche che portavano il capitalismo verso una crisi generale, la quale avrebbe costituito la base materiale del necessario trapasso al socialismo. Il socialismo sarebbe stato quindi il frutto congiunto delle contraddizioni del capitalismo, della lotta proletaria contro di esso e dell’analisi scientifica. La terza idea era che la rivoluzione avrebbe posto fine a ogni sfruttamento dell’uomo sull’uomo e quindi anche allo stato in quanto strumento tradizionale del dominio di classe, segnando l’avvento della società senza classi, liberata dagli interessi particolaristici e di un tipo di uomo posto in grado di sviluppare pienamente la propria personalità non solo materiale ma anche spirituale. Ponendo fine alla miseria materiale, infatti, il socialismo avrebbe liberato l’uomo anche dalle sue miserie spirituali, fra cui anzitutto il bisogno di un sopramondo religioso. Marx elaborò la sua dottrina assimilando e sottoponendo a critica in primo luogo la concezione dialettica di Hegel, il pensiero economico di Smith e Ricardo, la filosofia materalistica di Feuerbach, le concezioni dei socialisti “utopisti”. A suo giudizio la società moderna aveva il proprio fondamento nella “struttura” economica, da cui dipendeva la tipologia dei rapporti sociali e delle classi e su cui si erigeva la “sovrastruttura” delle istituzioni giuridiche e politiche. Le correnti culturali e le tendenze ideologiche costituivano lo “specchio” dei contrasti sociali. Le grandi rivoluzioni segnavano lo spezzarsi degli equilibri fra struttura e sovrastruttura. Quella socialista e proletaria sarebbe stata l’ultima rivoluzione. Il suo compimento era storicamente inevitabile e necessario, in quanto prodotto delle irresolubili contraddizioni del modo capitalistico di produzione. La rivoluzione, ponendo fine alla proprietà privata, causa prima dei conflitti sociali, avrebbe determinato la formazione di una società egualitaria. Marx ed Engels ritenevano che la transizione dal capitalismo al comunismo si sarebbe compiuta passando attraverso quattro fasi: la rivoluzione della classe operaia, quando il capitalismo fosse giunto alla sua piena maturità con l’estrema concentrazione dell’industria, la scomparsa dei ceti medi e la generale proletarizzazione; la dittatura del proletariato, da conseguirsi con la violenza nei paesi non democratici, quale mezzo per attuare la socializzazione dei mezzi di produzione avente il suo centro di comando nello stato pianificatore; la realizzazione del socialismo, in cui ciascuno avrebbe goduto del frutto del proprio lavoro; l’avvento del comunismo, nel quale a tutti sarebbe stato dato secondo i propri bisogni in conseguenza di uno sviluppo della produzione tale da vanificare ogni conflitto per l’appropriazione dei beni, lo stato avrebbe perduto il suo ruolo di apparato di dominio di una classe sulle altre, la politica sarebbe scomparsa con il venire meno del potere di certi uomini su altri, il denaro non avrebbe avuto più scopo, la società si sarebbe autoregolata pacificamente, sarebbe scomparsa ogni differenza fra città e campagna, fra lavoro manuale e intellettuale, l’uomo sarebbe stato libero da ogni paura e perciò la religione avrebbe ceduto a un umanesimo fonte di libertà e creatività per tutti. La rivoluzione prima e il socialismo poi avrebbero avuto carattere mondiale, sulla base e per effetto della progressiva mondializzazione dello sviluppo capitalistico. Marx ed Engels ritenevano di aver impostato il loro socialismo su basi “scientifiche”, avendolo fondato non sulla progettazione utopistica ma sull’analisi, per l’appunto “scientifica”, delle tendenze necessarie della storia, basata su “leggi” governate in primo luogo dallo sviluppo economico. Dopo Proudhon, già avversario di Marx, una nuova sfida frontale al marxismo venne condotta dall’anarchico russo Mikhail A. Bakunin (1814-76). Questi contestò che la forza propulsiva della rivoluzione fosse il proletariato di fabbrica, che la lotta di partito e la dittatura potessero essere mezzi idonei per introdurre la società nuova, che lo stato dovesse impadronirsi dei mezzi di produzione. Spirito di partito e statalismo avrebbero portato a una nuova tirannia. Per contro le forze rivoluzionarie per eccellenza erano a suo giudizio da individuarsi nei veri derelitti della terra: non già gli operai, destinati a integrarsi sempre più nelle istituzioni economiche e politiche del capitalismo, bensì i sottoproletari, gli emarginati, i braccianti senza terra e i contadini poveri. In luogo del socialismo statalistico (statalistico poiché il marxismo postulava, prima dell’attuazione del comunismo, una fase socialista in cui lo stato diventasse unico proprietario), occorreva costruire una società anarchica fondata sulla federazione universale dei liberi comuni.

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5. La Prima e la Seconda Internazionale

A dare vigore storico al socialismo furono le lotte politiche e sociali del movimento operaio organizzato su scala nazionale e internazionale. Dopo il cartismo, che aveva rappresentato l’ingresso della classe operaia sulla scena politica nel paese cuore dell’industrialismo e si era esaurito nel 1848, il socialismo europeo si organizzò nella Prima Internazionale, sorta nel 1864 a Londra. In essa confluirono diverse componenti come le Trade Unions inglesi, i seguaci dei francesi Proudhon e Blanqui, dei tedeschi Marx ed Engels, del russo Bakunin, dell’italiano Mazzini. Nel marzo 1871, dopo la sconfitta di Napoleone III a opera della Prussia, si ebbe la costituzione della Comune di Parigi – un governo rivoluzionario, antiparlamentare, fondato sulla democrazia diretta e sull’eguaglianza retributiva, espressione di proudhoniani, blanquisti e altre forze socialiste rivoluzionarie – che venne sanguinosamente soffocata nel maggio. In quell’esperimento Marx vide la prima forma di governo socialista. La Prima Internazionale entrò in crisi nel 1872, a causa anzitutto dei contrasti fra Marx e Bakunin; e venne sciolta formalmente nel 1876. Si dovette attendere il 1889 prima che prendesse vita la Seconda Internazionale, da cui nel 1896 vennero esclusi gli anarchici, che trovarono la loro roccaforte in Spagna. Nel corso dell’ultimo trentennio del secolo da un lato si diffuse l’industrializzazione in nuovi paesi, dall’altro nell’Europa occidentale e centrale si allargarono gli spazi della partecipazione politica. Il rafforzamento della classe operaia fu alla base del sorgere di partiti operai e socialisti, che trovarono il loro comune legame nell’Internazionale. In Germania nel 1863 era sorta l’Associazione generale degli operai tedeschi, per iniziativa di Ferdinand Lassalle (1825-64), un brillante intellettuale socialista legato all’idea, combattuta da Marx, che lo stato avrebbe costituito il permanente fondamento anche della futura società. Nel 1875, dalla confluenza dei seguaci di Lassalle e di Marx, sorse il Partito socialdemocratico tedesco (SPD), che ebbe i suoi maggiori leader in Wilhelm Liebknecht (1826-1900) e in August Bebel (1840-1913) e vide il marxismo ottenere il sopravvento. La SPD, primo grande partito di massa moderno in Europa e modello degli altri partiti socialisti per la forza della sua organizzazione, aveva nel suo programma da un lato l’allargamento della democrazia politica e dei diritti sociali e dall’altro il superamento del capitalismo. Essa sopravvisse, rafforzandosi, al periodo delle leggi eccezionali volute da Bismarck per stroncarne lo sviluppo (1878-1890). In Austria il Partito socialdemocratico fu costituito nel 1888-89 sotto la leadership di Victor Adler (1852-1918). In Inghilterra, se il marxismo ebbe un’influenza marginale, il movimento operaio e socialista si diede una salda organizzazione. Nel 1884 fu fondata la “Società dei Fabiani” – in cui esercitarono un ruolo di spicco Sidney Webb (1859-1947), Beatrice Webb (1858-1943) e G. Bernard Shaw (1856-1950) – la quale auspicava l’avvento del socialismo per via gradualistica e senza violenze rivoluzionarie. Grazie all’impulso determinante dei sindacati, le Trade Unions, prese corpo nel 1906 il Partito laburista. In Francia, dopo che nel 1882 i socialisti si erano divisi in riformisti e antiriformisti, nel 1905 sorse un partito unificato guidato dal riformista Jean Jaurès (1859-1914). In Italia, dalla divisione tra socialisti e anarchici, nel 1892 a Genova fu costituito il Partito dei lavoratori italiani (dal 1895 Partito socialista italiano), per iniziativa di Filippo Turati (1857-1932) e del filosofo marxista Antonio Labriola (1843-1904). Ovunque i partiti socialisti stabilirono stretti rapporti con il movimento sindacale. Nell’impero zarista, le idealità socialistiche trovarono la loro prima espressione nel populismo, una corrente formata da intellettuali come Aleksandr Herzen, Nikolaj G. Cernysevskij, Petr L. Lavrov, Bakunin e da giovani studenti, la quale negli anni Settanta auspicò l’“andare al popolo” per solidarizzare con lui, educarlo e risvegliarlo, idealizzando il mondo contadino quale base di un socialismo agrario lontano dai mali prodotti dall’industrialismo occidentale. In conseguenza del fallimento della pacifica “andata al popolo”, mostratosi troppo arretrato e indifferente, dalle correnti estreme del movimento populista sorsero organizzazioni che presero a condurre la lotta contro lo zarismo con metodi terroristici. Da radici populistiche prese origine il Partito socialrivoluzionario, sorto nel 1901. In netto contrasto con l’antindustrialismo populistico e anarchico, sulla base dell’ideologia marxista e dunque della convinzione che come nell’Europa occidentale anche in Russia la classe operaia e il suo partito sarebbero state le forze propulsive della rivoluzione socialista, si costituì nel 1898 a Minsk il Partito operaio socialdemocratico russo. I padri del marxismo russo furono Pavel B. Aksel’rod (1850-1928) e Georgij V. Plechanov (1856-1918). Dalla scissione politica e ideologica del Partito socialdemocratico russo sarebbe sorto nel 1903, a opera di Vladimir Il’ic Lenin, il bolscevismo (che però solo nel 1912 diede vita a un partito di fatto autonomo). I partiti socialisti e i sindacati ad essi legati si rafforzarono costantemente in Europa, diventando protagonisti delle lotte per l’allargamento dei diritti politici e per la legislazione sociale. Se non che lo sviluppo dei paesi capitalistici più forti a cavallo fra Otto e Novecento portò influenti settori del socialismo europeo a ritenere che la grande crisi di sistema preconizzata da Marx e il salto rivoluzionario verso il socialismo fossero miti smentiti dai fatti e che occorresse svincolare il socialismo dal marxismo rivoluzionario. A farsi interprete di questi settori fu il socialista tedesco Eduard Bernstein (1850-1932). Ne I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia (1899) egli sostenne che i socialisti dovevano rinunciare ai mezzi e ai fini rivoluzionari e lottare per il socialismo seguendo una via gradualista, riformista e pienamente democratica. Questa tendenza fu detta revisionismo in quanto sottoponeva a revisione la dottrina marxista. Essa fu combattuta da Karl Kautsky (1854-1938), il maggiore teorico della socialdemocrazia tedesca, da Rosa Luxemburg (1871-1918), da Plechanov, Lenin e altri “ortodossi”. Il socialismo europeo si divise così fra revisionisti e rivoluzionari. Se i primi restarono minoritari nell’Europa continentale – in Inghilterra il marxismo, come si è detto, non aveva messo radici – di fatto, nonostante la persistente forza dell’ideologia marxista (che esprimeva ormai, più che un progetto rivoluzionario attivo il distacco delle masse da stati ostili), i partiti socialisti – salvo che in Russia – si avviarono sempre più, data la saldezza delle strutture capitalistiche, per la strada delle riforme e non della rivoluzione. A favorire in paesi come la Germania, la Francia, l’Austria-Ungheria, l’Italia le correnti rivoluzionarie furono i limiti dello sviluppo democratico, il militarismo, l’imperialismo. Il rivoluzionarismo trovò un’espressione estrema nel sorgere in Francia del sindacalismo rivoluzionario e dell’anarco-sindacalismo. I suoi teorici accusavano i partiti socialisti di essersi adattati al sistema borghese e di aver bloccato l’iniziativa rivoluzionaria di massa inserendo le proprie macchine di partito nei meccanismi della democrazia parlamentare. Esponenti di primo piano del sindacalismo, che vedeva in sindacati non opportunisti l’unica autentica espressione delle masse operaie, furono i francesi Ferdinand Pelloutier (1867-1901), Hubert Lagardelle (1874-1958) e George Sorel (1847-1922) – che pubblicò le Riflessioni sulla violenza (1908), teorizzandovi il mito liberatore della violenza proletaria – e gli italiani Enrico Leone (1875-1940) e Arturo Labriola (1873-1959). Un certa parentela con il sindacalismo rivoluzionario francese ebbe il Guild Socialism in Inghilterra, una tendenza sviluppatasi fra il 1906 e il primo dopoguerra, i cui maggiori esponenti furono Arthur J. Penty, Samuel G. Hobson e George D.H. Cole, secondo i quali le Trades Unions dovevano mirare al controllo democratico e alla gestione dell’industria. Negli Stati Uniti il socialismo ebbe uno sviluppo modesto. Nel 1900 sorse sotto la guida di Eugene Debs (1855-1926) il Partito socialista americano, che raggiunse l’apice della sua forza nelle elezioni del 1912, senza però riuscire a diventare mai un fattore primario sulla scena del paese. Un indirizzo rivoluzionario in senso sindacalista fu impresso da Daniel De Leon (1852-1914) all’organizzazione operaia Industrial Workers of the World (IWW), rimasta però fortemente minoritaria.

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6. La prima guerra mondiale, la Rivoluzione russa e la spaccatura del movimento operaio internazionale

Inseriti ormai nei meccanismi politici dei singoli stati, i partiti e i sindacati socialisti allo scoppio della prima guerra mondiale nel 1914 appoggiarono i loro governi, con la sola eccezione della socialdemocrazia russa. Il Partito socialista italiano, quando l’Italia entrò in guerra nel 1915, restò sì all’opposizione, ma in pratica non sabotò lo sforzo bellico del paese, assumendo un atteggiamento sostanzialmente passivo. Il conflitto provocò così la crisi dell’Internazionale socialista, che aveva teorizzato in caso di guerra la lotta comune dei partiti affiliati contro i loro governi. In questo quadro le frazioni estreme del socialismo europeo, e in prima fila i bolscevichi russi, denunciarono la “degenerazione” dell’Internazionale, accusando come “traditori” i partiti che appoggiavano lo sforzo bellico dei vari governi. E mentre Kautsky sostenne l’idea della sua ricostituzione a pace avvenuta, Lenin si fece paladino di un nuovo internazionalismo rivoluzionario. La rivoluzione dell’ottobre 1917 in Russia accelerò la frattura politico-ideologica tra le frazioni rivoluzionarie e i bolscevichi da un lato e i loro avversari dall’altro. Al termine della guerra tale frattura divenne anche organizzativa, con la rinascita dell’Internazionale socialista e con la formazione nel 1919 della Terza Internazionale, comunista. Nel 1918 Kautsky pubblicò un testo emblematico dell’opposizione dei socialdemocratici europei al comunismo, La dittatura del proletariato, nel quale si affermava che il socialismo poteva nascere solo da una lotta condotta nel quadro della democrazia politica e per mezzo delle istituzioni parlamentari, in opposizione a ogni dittatura di partito, e sulla base del capitalismo sviluppato (che non esisteva in Russia). Lenin rispose definendolo un “rinnegato”. Nella grande crisi del primo dopoguerra, i socialdemocratici e i socialisti antibolscevichi, che rappresentavano la maggioranza del proletariato, pur divisi in riformisti gradualisti e in rivoluzionari democratici – fra i quali ultimi il teorico dell’“austromarxismo” Otto Bauer (1881-1938) – assunsero in molti paesi responsabilità di governo, contribuendo a respingere le correnti rivoluzionarie che guardavano alla dittatura russa come a un modello. Fra i maggiori partiti socialisti, solo quello italiano si schierò a maggioranza per la Terza Internazionale; se non che la rivoluzione italiana rimase un progetto abortito sia per l’impotenza strategica dei socialisti, sia per le divisioni interne (nel 1921 nacque il Partito comunista d’Italia), sia per la forza della reazione, infine sfociata nel fascismo e nella presa del potere da parte di Mussolini nel 1922. La frattura tra socialdemocrazia e comunismo del primo dopoguerra si rinnovò in maniera drammatica quando la Terza Internazionale nel 1928, e ancor più in seguito allo scoppio della grande crisi economica del 1929, denunciò la prima come l’ostacolo principale sulla via della rivoluzione ormai matura, definendola “socialfascismo”, e cioè una componente dello stesso fronte reazionario di cui faceva parte il fascismo. Ma, caduta ancora una volta la speranza rivoluzionaria in seguito all’ascesa al potere del nazismo in Germania nel 1933, al consolidamento del fascismo italiano, all’avvento in Austria nel 1934 di un regime clericale di destra, al pericolo di cedimento della democrazia in Francia, la Terza Internazionale fu indotta a capovolgere la sua strategia fallimentare e a lanciare nel 1935 la linea del Fronte popolare, basata sull’alleanza fra comunisti, socialisti e democratici borghesi e diretta alla difesa delle istituzioni parlamentari, alla lotta contro il fascismo e alla salvaguardia della pace. Questa strategia nel 1936 portò al potere in Spagna e in Francia i Fronti popolari; ma nella prima attivò la vittoriosa controrivoluzione di Franco, nella seconda non poté evitare che il governo del socialista L. Blum, dopo un anno pur denso di riforme, facesse fallimento. Importanti contributi teorici vennero da esponenti socialdemocratici negli anni Venti e Trenta. Il tedesco Rudolf Hilferding (1877-1941), divenuto celebre come studioso del capitalismo finanziario già prima del 1914, sostenne che era ormai in pieno corso il “capitalismo organizzato”, il quale costituiva la base più favorevole per la pianificazione socialista; Kautsky analizzò il fenomeno del totalitarismo sovietico e fascista, aspramente condannato, sostenendo che solo la riconquista della democrazia poteva favorire il socialismo; il belga Hendrik de Man (1885-1953) si fece teorico del “planismo”, criticando il classismo marxista e affermando la necessità di costruire partiti popolari pluralistici e di affidare allo stato il compito di regolare l’economia “mista” (con elementi pubblici e privati) mediante “piani del lavoro”; Carlo Rosselli (1899-1937) in Socialismo liberale (1930), nel quadro di una radicale critica del marxismo e del suo determinismo economico, sottolineò l’importanza del volontarismo e del rapporto fra socialismo ed eredità liberale. Un contributo determinante al socialismo contemporaneo come forza riformatrice di governo venne dato dalle socialdemocrazie scandinave di Svezia, Norvegia e Danimarca e dal laburismo inglese. Fu soprattutto in Svezia che, in risposta agli effetti della crisi del 1929, la socialdemocrazia al governo avviò la politica del welfare state (stato del benessere) mirante a offrire a tutti i cittadini un sistema di protezione sociale generalizzata sostenuto dallo stato. Lo scoppio della seconda guerra mondiale nel settembre 1939 segnò il rinnovarsi del più duro contrasto fra socialismo e comunismo. I comunisti, essendo l’Unione Sovietica legata alla Germania da un patto di cooperazione stretto nell’agosto di quell’anno, attaccarono l’imperialismo di Francia e Inghilterra e l’appoggio dato dai partiti socialisti ai loro governi in guerra con la Germania nazista. Se non che l’attacco nazista all’Unione Sovietica nel giugno del 1941, portò la Terza Internazionale a rovesciare la sua linea e a ristabilire legami con i socialisti nella lotta comune contro l’espansionismo nazifascista.

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7. Il socialismo dal 1945 a oggi

A partire dalla fine della seconda guerra mondiale, il socialismo democratico europeo seguì due direttrici essenziali. La prima fu la politica sociale espressasi nell’estensione dello “stato del benessere”, che ebbe i suoi maggiori luoghi di applicazione in Gran Bretagna, dove tra il 1945 e il 1951 il governo laburista fece leva sulla politica fiscale e su ampie nazionalizzazioni; in Svezia, dove la socialdemocrazia ampliò la strategia già iniziata negli anni Trenta fino a prevedere, con il piano Meidner del 1975, la formazione di un’industria progressivamente socializzata attraverso lo strumento di fondi comuni; in Germania, dove fu messa in atto su vasta scala la “cogestione”. La seconda direttrice fu la lotta contro il comunismo totalitario in nome della democrazia politica. In Italia, dove era rimasto prima strettamente legato al Partito comunista, il Partito socialista, in conseguenza del trauma costituito dalla destalinizzazione e dalla rivoluzione ungherese, ruppe nel 1956 l’unità d’azione raggiungendo la frontiera ideologica e politica del socialismo democratico, aderendo anche all’Internazionale socialista e assumendo nel 1963 funzioni di governo. Poco dopo, nel 1959, la socialdemocrazia tedesca al congresso di Bad Godesberg recise definitivamente i suoi residui legami col marxismo, proclamandosi partito non più di classe ma popolare, teso non già a eliminare il mercato ma a controllare la concorrenza e i suoi effetti, facendo intervenire, se necessario, elementi di pianificazione. A partire dagli anni Settanta il socialismo europeo, che aveva visto i suoi partiti esercitare il potere in vari paesi, si trovò a dover fronteggiare una forte reazione in senso neoconservatore e neoliberista, che ebbe le sue roccheforti negli Stati Uniti di Reagan e nell’Inghilterra della signora Thatcher. I neoconservatori attaccarono le basi stesse dello stato del benessere, denunciandolo come fonte di eccessivo fiscalismo, di indebitamento, di rigidità sociale, come ostacolo all’innovazione imprenditoriale. In sede teorica, il socialismo democratico rispose ai problemi delle società complesse contemporanee intendendo il ruolo dello stato sempre più come regolatore dei processi sociali che come centro pianificatore teso a dilatare la sfera della proprietà pubblica; più come tutore dei diritti della “cittadinanza sociale” e strumento del loro allargamento che come motore dello sviluppo economico. Sicché il socialismo democratico europeo assunse via via un carattere “liberalsocialista”. Inoltre, i partiti socialisti si aprirono a mano a mano ai bisogni nuovi della tutela ambientale, ai problemi del rapporto fra nord e sud del mondo, alle politiche sociali volte ad affrontare la condizione umana degli immigrati provenienti sia dai paesi poco o sottosviluppati sia dai paesi ex comunisti. Il crollo del comunismo sovietico e la dissoluzione dei regimi comunisti in Europa portò poi alla nascita di nuovi partiti socialisti. In Italia, il Partito comunista si sciolse nel 1991, trasformandosi in Partito democratico della sinistra, divenuto nel 1992 membro dell’Internazionale socialista. All’inizio degli anni Novanta il socialismo, pur restando una delle grandi forze politiche internazionali, intraprese un processo di ridefinizione – peraltro tuttora in corso – della propria identità e delle sue strategie di governo di fronte a sviluppi sociali che avevano ormai messo in crisi sia la centralità della grande industria e del proletariato di fabbrica di origine ottocentesca sia l’idea dello stato come centro pianificatore e della proprietà pubblica quale base privilegiata delle politiche sociali. Uno sviluppo assai significativo del socialismo contemporaneo è stato rappresentato dal “neolaburismo” del leader britannico Tony Blair, divenuto primo ministro nel 1997, sulla base di un programma dichiaratamente volto a svincolare i principi e i programmi del welfare dallo statalismo e a ricercare una “terza via” tra individualismo e iniziativa economica privata da un lato e l’esigenza di nuove forme di solidarietà sociale dall’altro. Il modello neolaburista di Tony Blair influenzò in maniera non trascurabile il panorama socialista europeo dei primi anni Duemila, spingendo numerosi partiti, tra cui quello italiano, quello spagnolo e quello tedesco, a intraprendere un significativo processo di rinnovamento politico e ideologico. Al tempo stesso però, soprattutto all’indomani dell’emergere del movimento no-global, esso fu costantemente oggetto delle aspre critiche di quanti videro in tale evoluzione un ulteriore passo avanti in direzione dello svilimento completo della tradizione socialista e dei suoi principi fondamentali.

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8. Il socialismo nei paesi arabi ed ex coloniali africani

Il socialismo contemporaneo conobbe sviluppi significativi anche nei paesi arabi e africani. Qui esso fornì un’ideologia all’antimperialismo, all’esigenza di una modernizzazione economica e sociale controllata dallo stato, alla mobilitazione delle masse, al tentativo di opporre alle divisioni interne di carattere etnico, religioso e tribale un principio statale e politico unitario, in certi casi accesamente nazionalistico. Al socialismo, vuoi in chiave democratica e vuoi dittatoriale, vuoi filosovietica e vuoi filoccidentale, si richiamarono leader come l’egiziano Gemal Abd-al Nasser, il tunisino Habib Burghiba, il libico Mohammed Gheddafi, il senegalese Léopold Senghor, il tanzaniano Julius Nyerere, l’etiope Hailé M. Menghistu e altri. Caratteristica prevalente fu il richiamo ai valori comunitari e, specie nei paesi musulmani, ai vincoli tradizionali di natura religiosa. [Massimo L. Salvadori]

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