decolonizzazione

Movimento di emancipazione e di liberazione nazionale dei popoli soggetti al dominio coloniale (colonialismo), sviluppatosi soprattutto durante la seconda metà del XX secolo. Le premesse della decolonizzazione furono poste già nel primo dopoguerra, a fronte della necessità di risolvere il problema dei possedimenti degli imperi centrali sconfitti in un contesto politico internazionale – già attraversato da tensioni emancipatrici sia nelle colonie delle potenze vincitrici sia negli stessi paesi europei in preda a moti rivoluzionari – che non avrebbe permesso in nessun caso la pura e semplice occupazione delle colonie altrui. La politica dei mandati fiduciari, messa in atto dalla Società delle Nazioni, fu pertanto finalizzata a una sistemazione delle ex colonie che fungesse da preparazione al loro inserimento in un quadro di stabile cooperazione col mondo occidentale, dominato pur sempre da Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti d’America. L’impulso fondamentale al processo di decolonizzazione, oltre che dal messaggio e dall’impegno internazionalista dell’Unione Sovietica (che mirava anche a disgregare in tal modo il mondo capitalistico già provato dalla grande crisi degli anni Venti), provenne tuttavia dalla seconda guerra mondiale, che distrusse di fatto più o meno definitivamente le relazioni coloniali esistenti in vaste aree asiatiche e africane (per esempio, quelle di Italia, Spagna e Giappone), portando a compimento il ridimensionamento di paesi prima egemoni, come la Gran Bretagna e la Francia, e dell’Europa nel suo complesso rispetto agli Stati Uniti, rimasti con l’Unione Sovietica la vera superpotenza del secondo dopoguerra. Tali trasformazioni si riverberarono sugli imperi coloniali dei paesi europei, portando a un livello insostenibile le loro contraddizioni interne ed esterne, con l’apporto interessato della propaganda indipendentista degli USA, che puntavano per parte loro a introdurre una forma di neocolonialismo poggiante su basi economiche (per esempio, già nel 1946 le Filippine proclamarono la loro indipendenza sotto l’egida americana). Se nel caso britannico la decolonizzazione fu sovente addirittura favorita dalla madrepatria, in armonia con l’impostazione data al Commonwealth of Nations, e condusse raramente a reazioni contrastanti (come avvenne, in collaborazione con la Francia, nell’impresa di Suez contro l’Egitto di Nasser nel 1956), diverso fu il caso di altri stati come la Francia, l’Olanda, il Portogallo e il Belgio, che lottarono aspramente per tutti gli anni Cinquanta e ancora negli anni Sessanta contro i movimenti di liberazione operanti in Indocina, Algeria, Indonesia, Africa equatoriale e australe, prima di ammettere la sconfitta e ritirarsi dai loro ex domini. Tra i maggiori stati, nel 1947 l’India divenne sovrana all’interno del Commonwealth. Nel 1949 fu fondata la Repubblica popolare cinese. Nello stesso anno l’Olanda fu estromessa dall’Indonesia. Nel 1962 l’Algeria, dopo la Tunisia e vari altri paesi africani (tra cui il Togo e il Camerun prima affidati al mandato francese), divenne indipendente e alla Francia non rimasero che le briciole di un immenso impero. Nel 1960 il Belgio accordò l’indipendenza al Congo, che affondò però fino al 1965 in una sanguinosa guerra civile. Nel 1962 fu la volta del Ruanda e dell’Urundi. In effetti, alla decolonizzazione fece seguito, specie nell’Africa francofona e proprio a causa delle resistenze imperialiste, il fenomeno noto come “balcanizzazione”, ossia lo spezzettamento (sul modello degli stati balcanici europei dopo la prima guerra mondiale) di vaste regioni continentali in numerosi staterelli privi di reale autonomia, pieni di rivalità e problemi tribali irrisolti, che divennero preda da un lato di inesauste lotte intestine e dall’altro del ricatto neocolonialista. La Gran Bretagna, viceversa, adottò in Medio ed Estremo Oriente e nell’Africa centro-australe una tattica più cauta e complessa, fondata sulla concessione dell’indipendenza (la prima a ottenerla fu la Costa d’Oro di Nkrumah, che divenne il Ghana libero nel 1957), possibilmente all’interno di organismi confederali più rispettosi dei movimenti e delle culture locali (per esempio, la Lega Araba, la Federazione della Malaysia, la Federazione dell’Africa centrale, ecc.) da essa influenzati direttamente o tramite il Commonwealth. Reagendo negativamente a tali finalità nel 1961 l’Africa del Sud si staccò dal Commonwealth, dando vita alla repubblica dell’apartheid e nel 1965 la Rhodesia meridionale, anch’essa in mano alla minoranza bianca, proclamò unilateralmente la sua indipendenza. Alla fine degli anni Sessanta la decolonizzazione era in gran parte compiuta. Vi fu un’altra fase importante tra il 1974 e il 1975 con la proclamazione dell’indipendenza delle colonie portoghesi (Angola e Mozambico). Con la creazione dello Zimbabwe (1980) e della Namibia (1989), in quanto stati diretti dalla maggioranza della popolazione di colore e affrancati dal regime sudafricano, e infine con la trasformazione interna di quest’ultimo – approdato nel 1993 alla cancellazione del sistema dell’apartheid e all’instaurazione di un regime di pari diritti per le etnie presenti nel paese – la decolonizzazione può dirsi, salvo rare eccezioni e a prescindere dalle problematiche sempre vive del neocolonialismo, definitivamente conclusa. [Corrado Malandrino]