comunismo

  1. Significato del termine
  2. I diversi tipi di comunismo
  3. Il comunismo antico
  4. Cristianesimo e comunismo
  5. Il comunismo millenaristico e utopico nell’età moderna
  6. Socialismo e comunismo nell’età della prima industrializzazione
  7. Il comunismo marx-engelsiano
  8. Il bolscevismo dalla sua formazione al 1917
  9. Il comunismo al potere. La nascita dello stato bolscevico e la Terza Internazionale
  10. Totalitarismo e industrializzazione accelerata nell’URSS staliniana
  11. Dall’apogeo del comunismo staliniano alla “destalinizzazione” a opera di Kruscëv
  12. Il comunismo sovietico dalla “restaurazione” brezneviana alla perestrojka di Gorbacëv e al collasso dei regimi dell’Europa dell’est e dell’URSS
  13. Il comunismo cinese e la sua evoluzione
  14. Il comunismo nei paesi capitalistici
1. Significato del termine

Per comunismo si intende in generale un tipo di società basato sulla proprietà collettiva dei mezzi di produzione e dei beni prodotti e finalizzato alla soppressione dei conflitti economici, politici ed etici. Più specificamente, il termine indica sia un orientamento teorico sia l’insieme dei movimenti e dei partiti rivoluzionari che in età contemporanea hanno lottato per quel tipo di società, in opposizione, a partire dalla prima guerra mondiale, ai partiti socialdemocratici e socialisti accusati di “tradire” lo scopo rivoluzionario. Nella teoria marxista il comunismo rappresenta la fase che segue quella socialista (socialismo). Laddove in quest’ultima a ciascuno viene dato in corrispondenza al suo lavoro, nel comunismo ciascuno ottiene a seconda dei propri bisogni.

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2. I diversi tipi di comunismo

Le forme di comunismo vanno distinte in relazione ai mezzi per attuare la nuova società e ai “soggetti” giudicati in grado di attuare la grande trasformazione. Vi è un comunismo che punta sulla riforma etica o religiosa dell’uomo (il quale si è sviluppato prima della Rivoluzione francese e della rivoluzione industriale) e un comunismo politico e materialistico, il quale fa appello alla mobilitazione degli interessi materiali degli strati oppressi. Vi è un comunismo che affida a élites “coscienti” la guida delle masse; e un comunismo che si oppone alla guida autoritaria dall’alto. Prima della Rivoluzione francese e della trasformazione industrialistica, i comunisti concepivano la società esistente come una realtà contraria ai precetti della morale umana o della religione. I loro progetti si esprimevano in disegni “utopici” (utopia), rivolti sovente in primo luogo ai governanti e alle classi alte, esortati a rendersi sensibili ai loro doveri umani. La convinzione invece che il comunismo avesse le sue radici nella dinamica dello sviluppo socioeconomico e dei moderni conflitti di classe e il suo soggetto principale nel proletariato rivoluzionario è il tratto tipico del comunismo contemporaneo.

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3. Il comunismo antico

Il comunismo premoderno è dominato dal mito di una felicità perduta (l’“età dell’oro”) a cui si deve fare ritorno. In un testo classico dell’utopismo cinese antico, che comprende parti composte nel IV-III secolo a.C., le Memorie sui riti, si parla di un periodo in cui si lavorava “senza cercare un profitto privato”. Nella Spagna del XVI secolo, Cervantes accenna a un’epoca in cui si ignoravano “queste due parole: tuo e mio”. Il pensiero antico greco e cinese forniscono due diversi modelli di comunismo: uno gerarchico-organizzativo e l’altro democratico-spontaneistico. Il primo lo troviamo ne La Repubblica di Platone (427-347 a.C.) e il secondo fu proprio della scuola taoista (V-IV secolo). Platone delinea uno stato basato su diverse classi – governanti, guerrieri e produttori – aristocratico e gerarchico, finalizzato ad assicurare il predominio dei “migliori”. Poiché i governanti e i guerrieri devono restare liberi dall’influenza degli interessi privati, Platone teorizza per essi la proprietà collettiva dei beni e delle donne. Per contro nei testi taoisti si parla di “un solo corpo sociale” nel cui seno “non esistono capi e tutto si svolge in modo spontaneo”, senza divisioni fra governanti e governati. La setta ebraica degli esseni (II secolo a.C. – I secolo d.C.) era fautrice di una rigida organizzazione gerarchica dominata dalla casta sacerdotale e fondata sulla comunione dei beni.

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4. Cristianesimo e comunismo

Il cristianesimo delle origini presenta sul piano sociale un volto moderato e uno radicale. Per il primo, chi ha deve cedere ai poveri una parte dei propri beni; per il secondo, occorre stabilire la comunità dei beni. In un passo degli Atti degli Apostoli si dice che nella comunità dei credenti “tutto era comune”. Sant’Agostino (354-430) nel De civitate Dei afferma che la società originaria non aveva leggi né proprietà privata. Sant’Ambrogio (circa 340-397) definì la proprietà una “usurpazione”. Nel periodo tardo antico e nel medioevo movimenti di ribellione sociale, correnti ereticali e riformatrici, esponenti religiosi attaccarono la proprietà come un ostacolo alla rigenerazione dell’uomo. Vanno ricordati il movimento dei circoncellioni, braccianti cristiani che nel IV secolo si opposero ai grandi proprietari romani dell’Africa settentrionale, i movimenti millenaristici medievali (millenarismo), e specie quello dei taboriti; i patarini, i catari, i valdesi e le correnti estreme del movimento dei francescani. Tendenze comunistiche espressero Gioacchino da Fiore (circa 1130-1202), fra Dolcino (circa l250-1307), le correnti radicali dei seguaci dell’inglese John Wyclif (circa 1320-84) e del boemo Jan Hus (circa 1369-1415). I taboriti nella prima metà del XV secolo diedero vita in una località della Boemia settentrionale, da essi denominata Tabor (dal monte della Galilea), a una società teocratico-comunistica intesa a fondare una “nuova Gerusalemme”, che fu poi stroncata dalla repressione nel 1434.

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5. Il comunismo millenaristico e utopico nell’età moderna

Il comunismo moderno ha le sue origini da un lato nelle tendenze estremistiche comparse in Germania durante la guerra dei contadini (1524-26), nel corso della quale emerse Thomas Müntzer (circa 1490-1525), e nel movimento degli anabattisti di Münster; dall’altro nel pensiero dell’inglese Thomas More (1478-1535). In effetti durante la guerra dei contadini, che ebbe un carattere nettamente antifeudale, il tema della comunione evangelica dei beni emerse solo confusamente. Il comunismo si manifestò invece chiaramente nel movimento anabattista culminato nella fondazione nel 1534 di una repubblica teocratica nella città di Münster, dove i beni diventarono comuni. Nel saggio Utopia (1516) More caldeggia una società, che non sta ancora in nessun luogo, nella quale vige un “piano” generale atto a garantire la pubblica felicità e il godimento in comune delle ricchezze prodotte. Il calabrese Tommaso Campanella (1568-1639) ne La città del sole (1602) immaginò una teocrazia senza proprietà privata, retta da una élite sapiente. Nel XVII e XVIII secolo il comunismo conobbe tre principali espressioni: lo “stato comunistico” dei gesuiti del Paraguay; il pensiero delle correnti più radicali della prima rivoluzione inglese e della Rivoluzione francese; l’ideologia di alcuni intellettuali legati alla cultura dell’Illuminismo. Nel Paraguay, i gesuiti, animati dalla volontà di sottrarre gli indios alla schiavitù, fondarono nel XVII secolo comunità rette dal lavoro obbligatorio in cui i beni erano distribuiti in base ai bisogni delle famiglie e la proprietà individuale e il denaro erano vietati. Questa esperienza di “teocrazia sociale” venne travolta nel secolo seguente dalla soppressione dell’ordine dei gesuiti per volontà delle monarchie assolute. Durante le rivoluzioni inglese e francese, il comunismo assunse il carattere di critica della proprietà borghese, asserendo la necessità di mobilitare in senso rivoluzionario gli strati oppressi. In Inghilterra il comunismo intorno alla metà del XVII secolo animò il movimento degli zappatori (così definiti in quanto presero a zappare terreni pubblici in nome del lavoro libero e rivendicando la proprietà comune). Nella Francia settecentesca gli ideali comunistici trovarono la loro espressione nel pensiero di alcuni isolati intellettuali radicali. Il parroco Jean Meslier (1664-1729) nel suo Testamento sostiene che Dio non esiste e che la proprietà sta alla radice di tutte le ingiustizie. Morelly nel Codice della natura stabilisce l’equivalenza di natura, ragione, comunanza dei beni e felicità. Gabriel Bonnot de Mably (1709-85) denuncia la proprietà quale radice dell’oppressione e dell’ingiustizia. Il radicalismo teorico di questi pensatori si manifestò in termini più immediatamente politici, durante la Rivoluzione francese, nell’azione di François-Noël Babeuf, detto Gracco (1760-97). Questi, che restò ancora nell’alveo del comunismo preindustriale, mirava a introdurre il comunismo in relazione ai prodotti delle campagne e dell’industria artigiana. Dalla Rivoluzione francese i babuvisti trassero l’idea che la dinamica dei conflitti politici fosse radicata negli interessi di classe contrapposti e che per emanciparsi il Quarto Stato, formato da lavoratori subalterni, artigiani, contadini poveri, emarginati, dovesse compiere – come si diceva nel Manifesto degli eguali (1797) – “l’ultima rivoluzione”: quella comunista, consolidandola con una “dittatura” violenta. Babeuf venne ghigliottinato nel maggio del 1797, dopo il fallimento della congiura degli eguali.

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6. Socialismo e comunismo nell’età della prima industrializzazione

Dalla rivoluzione industriale il comunismo contemporaneo trasse tre elementi fondamentali: 1) la convinzione che il comunismo avrebbe avuto il suo fondamento materiale nell’inaudita ricchezza prodotta dall’industria moderna; 2) l’identificazione nel proletariato di fabbrica del “soggetto” rivoluzionario; 3) l’idea che la minoranza di coloro che erano “coscienti” delle leggi di sviluppo della società e della necessità storica del comunismo, stabilita dalla scienza, dovesse guidare il movimento volto a creare la società comunista. Il comunismo otto-novecentesco è andato evolvendosi in una stretta relazione col socialismo. L’uno era caratterizzato dal fine della comunione dei beni da ottenersi mediante un radicale sovvertimento sociale; l’altro faceva invece riferimento in senso lato ai nodi posti dalla questione sociale, avanzando vie e progetti anche qualitativamente diversi fra loro. Socialisti e comunisti si divisero in varie scuole. Accanto a socialisti gradualisti, come Claude-Henri de Rouvroy de Saint-Simon (1760-1825), Robert Owen (1771-1858), Charles Fourier (1772-1836) e Louis Blanc (1811-82), teorici e agitatori comunisti quali il francese Étienne Cabet (1788-1856) e il tedesco Wilhelm Weitling (1808-1871) propagandarono un neomillenarismo comunistico guidato da profeti e capi carismatici. Quanto alla questione se si rendesse o meno necessario il ricorso alla violenza, mentre Cabet lo respingeva, convinto della forza di persuasione esercitata dall’evangelismo comunista, Louis-Auguste Blanqui (1805-1881), ricollegandosi a Babeuf e al suo seguace Filippo Buonarroti (1761-1837), affermò la necessità di seguire la via della cospirazione sotto la guida di minoranze coscienti, ponendo l’obiettivo della “dittatura del proletariato”.

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7. Il comunismo marx-engelsiano

I maggiori teorici del comunismo contemporaneo sono stati i tedeschi Karl Marx (1818-83) e Friedrich Engels (1820-95), da cui ha avuto origine il marxismo (così chiamato in omaggio al ruolo preminente del primo). Per un verso, collegandosi alle utopie comunistiche, il marxismo teorizzò l’abolizione della proprietà privata; per l’altro dal materialismo settecentesco e dal pensiero di Ludwig Feuerbach esso riprese l’idea che non potesse darsi libertà spirituale senza liberazione dall’alienazione religiosa. Ma, figlio della rivoluzione industriale e delle moderne lotte politiche e sociali, il marxismo si distaccò dalle concezioni che definì utopiche, sostenendo che solo il capitalismo e non la predicazione ideologica poteva creare le basi del comunismo attraverso la maturazione del conflitto fra le due moderne classi sociali: la borghesia e il proletariato, chiamato a essere l’agente del superamento della formazione economico-sociale capitalistica. Esso affermava inoltre che, giunto al potere, il proletariato avrebbe stabilito la propria dittatura politica ponendo fine allo sfruttamento economico, così da assicurare il passaggio alla fase socialista – in cui ciascuno avrebbe ricevuto secondo il proprio lavoro; e sosteneva infine che, da ultimo, sarebbe stato realizzato il comunismo, sulla base di una mai vista disponibilità di beni – tanto da consentire a ciascuno di ricevere secondo i propri bisogni – e della fine dei conflitti sociali e del dominio dell’uomo sull’uomo (e quindi anche della politica e dello stato in quanto strumenti del potere delle classi dominanti). Nel Manifesto del Partito comunista (1848) Marx ed Engels sostennero che ai comunisti spettava di rappresentare l’“interesse del movimento complessivo” dei lavoratori e che la lotta rivoluzionaria avrebbe avuto un carattere internazionale. Accanto al Manifesto un posto preminente spetta a Il capitale (1867) di Marx, l’opera in cui questi analizzò il meccanismo dello sfruttamento capitalistico. L’idea del primato dell’economia nello sviluppo sociale caratterizza il marxismo come una concezione “materialistica” della storia; l’idea che il conflitto fra classi dagli interessi incompatibili costituisca il motore della rivoluzione ne fa poi una concezione dialettica. Marx ed Engels considerarono la dittatura del proletariato come mezzo inevitabile della trasformazione rivoluzionaria. La “forma politica” con cui “si poteva compiere l’emancipazione economica del lavoro” non era il parlamentarismo liberale, ma una dittatura del proletariato basata su istituti di democrazia di classe e diretta, tesa a spezzare lo stato burocratico e centralistico.

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8. Il bolscevismo dalla sua formazione al 1917

Contrariamente alle aspettative dei marxisti, lo spirito e la pratica rivoluzionari misero radici non nei paesi capitalisticamente sviluppati, bensì in quelli segnati da un insufficiente sviluppo dell’economia moderna e della democrazia politica. Il che si vide particolarmente in Russia. Qui nacque nel 1898 il Partito operaio socialdemocratico russo. Al suo secondo congresso nel 1903 si consumò la divisione fra menscevichi (minoritari) e bolscevichi (maggioritari). I primi, guidati da Julij O. Cederbaum, detto Martov (1873-1923), caldeggiavano un’organizzazione aperta non soltanto agli elementi direttamente impegnati nell’attività di partito ma anche ai simpatizzanti e osteggiavano il primato degli intellettuali vedendo nel proletariato il naturale protagonista del processo rivoluzionario. Per contro, i secondi, il cui leader era Vladimir Il’ic Ul’janov, detto Lenin (1870-1924), sostenevano che le masse tendevano spontaneamente all’adattamento alla società esistente; che esse potevano essere risvegliate alla coscienza socialista unicamente dagli intellettuali rivoluzionari e dagli organizzatori del partito (“rivoluzionari di professione”); e che quest’ultimo doveva restare chiuso agli elementi passivi e avere una forte disciplina e una struttura gerarchica. Tutto ciò Lenin espose soprattutto negli opuscoli Che fare? (1902) e Un passo avanti e due indietro (1904). Secondo Lenin, a causa della cronica debolezza della borghesia come classe, in Russia l’abbattimento dello zarismo non avrebbe portato a un regime liberalborghese, come ritenevano i menscevichi, bensì a una “dittatura democratica” guidata dai partiti rivoluzionari, fra cui la socialdemocrazia, con l’obiettivo di sviluppare il capitalismo. La dittatura democratica in Russia, quando fosse scoppiata la rivoluzione socialista in Occidente, si sarebbe trasformata in dittatura del proletariato, aprendo la via alla trasformazione socialista grazie all’aiuto economico dei nuovi stati socialisti. La Rivoluzione russa del 1905, seppure sconfitta, esercitò una decisiva influenza sulla maturazione del comunismo contemporaneo. Di grande importanza fu il sorgere dei soviet (consigli) degli operai e dei soldati a Pietroburgo, a Mosca e in altre località per iniziativa spontanea delle masse. Se non che mentre i menscevichi considerarono i soviet una prova inequivocabile della “coscienza” della masse, Lenin riaffermò il ruolo primario del partito. Un notevole arricchimento teorico fu dato da Aleksandr Helphand, detto Parvus (1867-1924), e Lev D. Bronstein, detto Trockij (1879-1940); i quali elaborarono la teoria della rivoluzione permanente, secondo cui era da considerarsi irrealizzabile la dittatura democratica teorizzata da Lenin. In tutta Europa era ormai aperta la fase delle rivoluzioni proletarie socialiste. La rivoluzione in Russia e in Europa avrebbe assunto il carattere di un processo “ininterrotto” e “permanente”. Parvus considerò i soviet quali nuclei espansivi della “democrazia proletaria” e diretta.

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9. Il comunismo al potere. La nascita dello stato bolscevico e la Terza Internazionale

Quando nel 1914 i partiti socialisti occidentali appoggiarono i governi di guerra, Lenin affermò che essi avevano tradito, che il capitalismo era giunto alla sua crisi definitiva e bisognava pensare a unire tutte le forze rivoluzionarie in una nuova Internazionale e trasformare la guerra imperialistica tra gli stati in guerra civile fra le classi. Egli teorizzò questo orientamento ne L’imperialismo, fase suprema del capitalismo (1916). Nel febbraio del 1917 (marzo in base al calendario occidentale) lo zarismo fu abbattuto in Russia; e in ottobre (novembre) i bolscevichi sotto la leadership di Lenin e di Trockij, divenuto bolscevico, presero il potere, forti del fatto di disporre di un partito fortemente disciplinato e gerarchizzato e di proprie forze militari. Nel gennaio 1918, avendo le elezioni per la prima Assemblea costituente avuto un esito complessivamente assai sfavorevole ai bolscevichi (175 seggi su 707) – che peraltro ottennero la maggioranza del consenso operaio – il governo sciolse l’Assemblea stessa. Lenin nel saggio Stato e rivoluzione (1917) aveva esaltato contro il parlamentarismo borghese la democrazia proletaria. Volendo sottolineare la rottura con i partiti socialdemocratici e socialisti – che condannavano il bolscevismo come antidemocratico – i bolscevichi nel marzo del 1918 assunsero il nome di Partito comunista. Nel marzo del 1919 diedero vita alla Terza Internazionale, destinata a organizzare i partiti comunisti del mondo. Tra il 1918 e il 1921 il bolscevismo russo consolidò il proprio potere nell’ex impero zarista, concludendo vittoriosamente la guerra civile (1918-20). La rivoluzione internazionale andò però incontro al fallimento. Del pari la democrazia diretta, fondata sui soviet, si rivelò un’utopia e si esaurì aprendo la strada alla dittatura del partito bolscevico. Il bolscevismo russo venne imposto come un modello obbligatorio a tutti i partiti comunisti; i quali nel 1920 al II congresso dell’Internazionale adottarono i 21 principi della “bolscevizzazione”. Nel marzo 1921, al X congresso, fu sanzionato il carattere monolitico del partito bolscevico russo, col divieto di qualsiasi corrente. La dittatura dei vertici aprì presto la via alla dittatura di un solo capo. L’uso della violenza fisica fu generalizzato. E Trockij se ne fece teorico in Terrorismo e comunismo (1920). All’inizio degli anni Venti, il regime russo si configurava come la prima delle dittature totalitarie contemporanee (totalitarismo).

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10. Totalitarismo e industrializzazione accelerata nell’URSS staliniana

Dopo la morte di Lenin nel 1924 scoppiò una violenta lotta per il potere che vide protagonisti Trockij e Josif Vissarionovic Dzugasvili, detto Stalin (1879-1953), eletto nel 1922 segretario generale del partito. Accanto a loro ruotarono G.E. Zinov’ev, L.B. Kamenev e N.I. Bucharin. Trockij riteneva che solo il rilancio della rivoluzione internazionale avrebbe potuto salvare il potere bolscevico dalla degenerazione, data l’arretratezza della Russia, e che all’interno fosse necessario il rilancio della democrazia nel partito al fine di combattere il crescente potere della burocrazia. All’opposto Stalin giudicava la rivoluzione internazionale congelata e indispensabile il ruolo della burocrazia nello stato socialista. I due si divisero anche in relazione alla strategia economica. Nel 1921 per impulso di Lenin era stata varata la NEP (nuova politica economica), la quale aveva liquidato il “comunismo di guerra”, un regime di violento accaparramento delle risorse agrarie nelle campagne e di distribuzione delle merci, che aveva determinato il collasso della produzione. L’iniziativa capitalistica era stata reintrodotta nelle campagne, nella piccola e media industria e nel commercio, lasciando però allo stato finanza, grande industria e commercio estero. Gli effetti erano stati assai positivi. Ma Trockij temeva un rafforzamento dei ceti capitalistici tale da minacciare il potere sovietico. Quindi egli chiedeva l’allargamento della base industriale e del proletariato come classe. Stalin e Bucharin difendevano la continuazione della NEP considerata la base dell’alleanza fra operai e contadini. Stalin attaccò Trockij sostenendo che le sue tesi minavano lo stato sovietico. Nei Principi del leninismo (1924) e nelle Questioni del leninismo (1926) egli definì il leninismo quale “il marxismo dell’epoca dell’imperialismo e della rivoluzione proletaria” e proclamò che l’URSS avrebbe potuto costruire il socialismo unicamente con le sue forze (teoria del “socialismo in una paese solo”). Trockij fu totalmente sconfitto ed esiliato. Ma alla fine degli anni Venti, acquisito il totale controllo del partito e dello stato, Stalin capovolse la sua politica interna, ponendo fine alla NEP e lanciando l’industrializzazione accelerata su vasta scala a spese dei contadini. Egli intendeva creare a ogni costo una robusta base industriale, allo scopo di formare un potente esercito in grado di far fronte a ogni pericolo di guerra. Bucharin, rimasto fautore della NEP, fu condannato quale deviazionista di destra. La nuova politica staliniana si delineò negli anni Trenta saldando economia, istituzioni e ideologia. Fu varata un’economia pianificata centralizzata e affidata alla gestione della burocrazia (nel 1928 si ebbe il primo piano quinquennale). La terra fu collettivizzata; e furono create fattorie cooperative (kolchoz) e statali (sovchoz). Nelle campagne si scatenò una terribile guerra civile contro i contadini agiati (i kulaki). Il risultato fu che lo stato ebbe il pieno controllo sulle risorse alimentari, necessario per nutrire i nuovi strati operai. Una repressione poliziesca terroristica e generalizzata fu scatenata per colpire gli oppositori, parte dei quali fu uccisa e parte inviata in campi di concentramento e di lavoro (sistema del gulag). L’industria fu finalizzata alla potenza militare dello stato, nel quadro di una accentuata esaltazione nazionalistica. Organizzazioni di partito, sindacali, culturali vennero mobilitate al fine del consenso. Tutto il potere si concentrò in Stalin, fatto oggetto di un culto sfrenato. Questo fu il volto dello “stalinismo”. Fu montata una serie di processi contro i “nemici del popolo”. Tutti i maggiori oppositori reali o immaginari furono eliminati nel corso delle “grandi purghe” del 1936-38. Nel 1936 fu varata una costituzione, che stabiliva il suffragio universale (naturalmente a favore del solo partito unico) – suffragio che dalle precedenti costituzioni del 1918 e 1924 era stato negato ai nemici di classe – e proclamava la realizzazione del socialismo nell’URSS. Trockij, in esilio, in quello stesso anno pubblicò La rivoluzione tradita, in cui definiva il regime staliniano un sistema di dominazione burocratica e chiamava il proletariato sovietico a una rivoluzione politica contro Stalin.

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11. Dall’apogeo del comunismo staliniano alla “destalinizzazione” a opera di Kruscëv

La vittoria dell’URSS sulla Germania nella seconda guerra mondiale portò all’espansione del comunismo nell’Europa orientale fra il 1945 e il 1948. Nel 1949 Mao Zedong prese il potere in Cina. In Francia e in Italia emersero forti partiti comunisti. Il che aprì una nuova fase nella storia del comunismo internazionale. I nuovi stati dominati dai comunisti furono definiti democrazie popolari (formula con cui si indicava la transizione verso il socialismo). Il periodo fra il 1945 e il 1953, anno in cui Stalin morì, segnò l’apogeo dello stalinismo. L’URSS era assurta a seconda potenza mondiale e si trovava a capo di un “campo” socialista immenso. Una sconfitta fu la secessione della Iugoslavia nel 1948, messa in atto dal leader comunista Josip Broz, detto Tito (1892-1980), che non aveva accettato di sacrificare l’indipendenza del proprio paese ai sovietici. Morto Stalin, Nikita S. Kruscëv (1894-1971) attuò una svolta clamorosa, avviando in politica interna la cosiddetta destalinizzazione. Pose fine al sistema del terrore generalizzato, che considerava tale da deprimere il paese; e in politica estera dichiarò di voler stabilire rapporti di “eguaglianza” tra il paese guida e gli altri stati socialisti e aprire l’era della “coesistenza pacifica” tra Oriente e Occidente. Disse anche che era possibile nei paesi capitalistici democratici arrivare al socialismo senza guerra civile. Al XX congresso del PCUS del febbraio 1956 Kruscëv denunciò il “culto” di Stalin e proclamò il “ritorno alla legalità leninista”. Al XXII congresso del 1962 promise che entro il 1980 l’URSS avrebbe superato economicamente gli Stati Uniti e definì lo stato sovietico non più una dittatura del proletariato ma uno “stato di tutto il popolo”. Il trionfalismo kruscëviano subì un grave fallimento. Nel 1956 in Polonia si aprì una gravissima crisi politica e in Ungheria scoppiò una rivoluzione anticomunista, sanguinosamente repressa dai sovietici. Già paladino della “direzione collegiale”, Kruscëv diventò a sua volta un capo senza rivali. Un successo fu la creazione a Cuba di un regime comunista sotto la leadership di Fidel Castro. Ma la gravissima frattura tra URSS e Cina, che considerava la coesistenza pacifica un cedimento all’imperialismo e la destalinizzazione una forma di “revisionismo”, le tensioni nell’est europeo, la crisi del 1962 con gli USA a causa di Cuba, portarono nell’ottobre del 1964 all’esautoramento di Kruscëv.

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12. Il comunismo sovietico dalla “restaurazione” brezneviana alla perestrojka di Gorbacëv e al collasso dei regimi dell’Europa dell’est e dell’URSS

Dopo un primo periodo di “direzione collegiale”, Leonid I. Breznev (1906-1982) concentrò nuovamente il potere nelle sue mani. La destalinizzazione venne bloccata. Nell’agosto del 1968 la primavera di Praga, ovvero il progetto del segretario comunista cecoslovacco Alexander Dubcek di costruire un “socialismo dal volto umano” aperto al pluralismo politico e sociale, fu stroncata dai sovietici. Breznev proclamò a giustificazione il principio della “sovranità limitata” di ciascun paese socialista, cui non era consentito di minacciare i fondamenti dell’ordine politico comunista. Il dissenso nell’URSS fu persino considerato come devianza mentale. La nuova costituzione del 1977 definì l’URSS come una “totale democrazia”. Grandi successi i sovietici conseguirono nel Terzo Mondo. Nel 1975 il Vietnam venne unificato sotto un regime comunista prosovietico e in tensione con la Cina; regimi filosovietici sorsero in Etiopia, Angola, Mozambico, e Nicaragua. Nel 1979 truppe sovietiche intervennero in Afghanistan a sostegno dei comunisti locali. D’altra parte l’economia sovietica era esaurita dalle esigenze militari, dalla bassa produttività e dalla disorganizzazione. In Polonia il regime si trovava in uno stato di continuo deterioramento. Dopo la morte di Breznev nel 1982, il potere passò nell’URSS nel giro di tre anni da Jurij Andropov a Konstantin Cernenko, rappresentanti di contrastanti tendenze. L’elezione nel 1985 a segretario generale del PCUS di Michail Gorbacëv espresse l’esigenza di una “rivoluzione dall’alto”, basata sulla perestrojka (ristrutturazione) e sulla glasnost (trasparenza). Se non che il tentativo del rinnovamento andò incontro a uno scacco crescente. La crisi economica acquistò un carattere catastrofico. Le riforme politiche, che smantellarono il sistema totalitario, introducendo il pluralismo partitico e ideologico e le istituzioni parlamentari, provocarono un’incontrollabile instabilità. Ne derivò la crisi strutturale dell’impero sovietico e dell’URSS. Nel 1989 ebbe inizio il collasso dell’“impero” sovietico nell’est europeo, con l’abbattimento dei vecchi regimi comunisti e il formarsi di nuovi regimi. L’URSS si sfaldò, in seguito all’acutizzarsi di conflitti nazionali ed etnici, alle secessioni da parte di varie repubbliche, fra cui quelle baltiche e l’Ucraina, alla formazione di un governo della repubblica russa guidato dall’ex dirigente comunista Boris Eltsin. Nell’agosto del 1991 un tentativo di restaurazione mediante un colpo di stato fallì, portando alle dimissioni di Gorbacëv, allo scioglimento del Partito comunista sovietico e alla definitiva dissoluzione della stessa Unione Sovietica.

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13. Il comunismo cinese e la sua evoluzione

La Cina, quando il Partito comunista, fondato nel 1921, andò al potere nel 1949, era un paese ancora più fortemente arretrato della Russia del 1917. Fra gli anni Venti e gli anni Settanta il comunismo cinese è stato interamente dominato dal suo capo carismatico, Mao Zedong (1893-1976). Mao fin dagli anni Venti affermò che in Cina la forza sociale rivoluzionaria era costituita dai contadini poveri. Un ventennio durò la lotta contro il Guomindang, il partito nazionalista, e contro gli invasori giapponesi. A conclusione poi della guerra civile infuriata tra il 1945 e il 1949, sconfitto il Guomindang, i comunisti proclamarono nell’ottobre 1949 una “repubblica popolare”. Per circa un decennio, il comunismo cinese seguì il modello sovietico, conseguendo risultati importanti nel campo industriale, assai insoddisfacenti invece in quello agricolo. Per porre rimedio, Mao promosse nel 1958 il “grande balzo in avanti”, con la collettivizzazione delle campagne e la formazione di “comuni” autonome di produzione su piccola scala, a scapito della pianificazione centralistico-burocratica e in polemica frontale con il meccanismo degli incentivi materiali individuali. Il “balzo” risultò un fallimento di proporzioni colossali, provocando una rottura profonda con i sovietici, i quali accusarono i dirigenti cinesi di “avventurismo” e irrazionalismo. La rottura si approfondì ulteriormente in relazione agli interessi di potenza dei due grandi stati comunisti, dopo che Kruscëv rifiutò di aiutare la Cina a fabbricare la bomba atomica, tanto più che Mao minimizzava i costi di uno scontro anche atomico con il mondo capitalistico, definito una “tigre di carta”. Il fallimento del “grande balzo” acuì i contrasti fra la “destra” e la “sinistra” del partito. Mao elevò Lin Biao, capo dell’esercito dal 1959, a proprio “primo compagno d’arme”, facendo dell’esercito uno strumento al servizio della sua linea. Fra il 1966 e il 1971 la Cina precipitò nel caos. Si trattò della rivoluzione culturale, così chiamata in quanto Mao affermò che il trionfo della rivoluzione richiedeva il totale mutamento dell’orientamento spirituale del partito e delle masse. Furono esaltati il “rivoluzionarismo volontaristico”, i cui agenti privilegiati dovevano essere le giovani “guardie rosse”, in specie studenti, e la totale contrapposizione al revisionismo sovietico e all’imperialismo guidato dagli Usa. Zhou Enlai (1898-1976) ebbe un ruolo decisivo nell’iniziare tra il 1971 e il 1973 la liquidazione della rivoluzione culturale e dell’estremismo di sinistra. Dopo la morte di Mao e di Zhou nel 1976, Deng Xiaoping, assestatosi al potere nel 1978, mise al centro la linea dell’ultimo Zhou delle “quattro modernizzazioni” (dell’agricoltura, dell’industria, della difesa nazionale, della scienza e della tecnica). Deng riabilitò la burocrazia, la competenza professionale, la politica degli incentivi individuali nella produzione. Inoltre, avviò una politica di “porta aperta” verso l’Occidente, favorita dalla normalizzazione nel 1979 dei rapporti fra la Cina e gli Usa, tesa a utilizzare il sapere e la tecnologia del mondo capitalistico. Nella primavera del 1989 a Pechino, con centro nella piazza Tienanmen, ebbero luogo prolungate agitazioni giovanili aventi la loro bandiera nella democratizzazione politica. Il regime procedette a una dura repressione militare, intesa a salvaguardare il monopolio politico del partito comunista. Accanto al comunismo cinese e vietnamita, sono da menzionare, per quanto riguarda l’Asia, il comunismo nordcoreano e quello cambogiano. Nella Corea del Nord, dove i comunisti salirono al potere nel 1948 in seguito all’occupazione sovietica, il regime andò evolvendosi nella direzione di una “monarchia” retta da Kim Il Sung, che distribuì il potere su base accentuatamente familiare. In Cambogia, dopo il loro avvento al potere nel 1975, i khmer rossi, guidati da Pol Pot stabilirono un regime terroristico antimodernista, il quale, introducendo una variante del tutto inedita nel comunismo, si mostrò apertamente ostile alla modernizzazione e alla civiltà urbana, considerate fonte di corruzione etica e politica, e favorevole a un ruralismo egualitario primitivo.

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14. Il comunismo nei paesi capitalistici

I partiti comunisti nei paesi occidentali, sorti nel primo dopoguerra per scissione dai partiti socialisti o socialdemocratici, si diedero una organizzazione comune nella Terza Internazionale, costituitasi nel marzo del 1919 a Mosca e diretta dai bolscevichi russi. Tutti si sottoposero alla “bolscevizzazione”, seguendo il modello russo. Nonostante gli acuti conflitti sociali del primo dopoguerra, nessun partito comunista occidentale giunse però al potere, salvo che in Ungheria nel 1919 per pochi mesi. In Germania l’ultimo tentativo rivoluzionario, compiuto nel 1923, fallì. In Italia, il biennio rosso (1919-20) aprì le porte al fascismo e il Partito comunista, sorto nel 1921, andò incontro alla disfatta. Lo scoppio nel 1929 della grande crisi economica indusse l’Internazionale comunista a ritenere finito il capitalismo mondiale e la socialdemocrazia l’ostacolo soggettivo maggiore alla rivoluzione e una forma di “socialfascismo”, in quanto ala moderata di uno schieramento controrivoluzionario di cui il fascismo costituiva l’ala estrema. Ma in Germania nel 1933 vinsero i nazisti e in vari paesi europei si ebbe l’avvento di regimi autoritari. La leadership del comunismo mondiale si trovò allora dominata dal timore di un’ulteriore espansione dei regimi fascisti o autoritari. Sicché nel 1935 il VII congresso dell’Internazionale lanciò la linea dei fronti popolari, impegnati nella lotta antifascista, nella salvaguardia della pace e nella difesa delle istituzioni “democratiche” parlamentari. I democratici borghesi e i socialdemocratici vennero ora considerati quali componenti del “popolo”. I “fronti” ottennero i successi maggiori nel 1936 in Francia e in Spagna, dove si formarono governi che ne furono l’emanazione. Ma in Spagna il Fronte fu travolto in seguito alla guerra civile conclusasi nel 1939 con la vittoria del franchismo; e in Francia perse il suo slancio nel giro di un anno. Nel periodo fra le due guerre mondiali il comunismo occidentale aveva espresso importanti figure di teorici, specie in Germania e in Italia. La maggiore personalità del comunismo tedesco, Rosa Luxemburg (1871-1919), era stata assassinata da controrivoluzionari a Berlino nel gennaio del 1919. Teorici come il tedesco Karl Korsch (1886-1961), l’olandese Anton Pannekoek (1873-1960) e l’italiano Antonio Gramsci (1891-1937) avevano elaborato strategie che facevano perno sui “consigli dei produttori” quali organi di una lotta radicata nelle fabbriche e tesa alla creazione dello stato proletario. Una simile prospettiva restò però sostanzialmente teorica. Mentre Korsch e Pannekoek finirono per respingere la bolscevizzazione dei partiti comunisti occidentali e il “modello” russo, Gramsci, uno dei fondatori del Partito comunista italiano, si convertì alla concezione “giacobino-bolscevica”, diventando nel 1924 il capo dei comunisti italiani. Nel 1926 tuttavia, pur appoggiando la strategia staliniana, denunciò la degenerazione dei metodi con cui Stalin conduceva la lotta per il potere, in contrasto con un altro dirigente di primo piano del partito italiano, Palmiro Togliatti (1893-1964). Arrestato nel 1926, in carcere Gramsci respinse come errata la linea del “socialfascismo”. Durante la prigionia, stese i Quaderni del carcere, in cui sostenne che il partito – da lui definito “moderno Principe” – e il proletariato rivoluzionari dovevano costruire un vasto e articolato schieramento di forze sociali volto a ottenere il consenso necessario per conquistare ed esercitare il potere in società complesse contro i nemici di classe. Era questo il nucleo della teoria gramsciana dell’“egemonia”. Lo scoppio della seconda guerra mondiale nel settembre 1939 trovò i partiti comunisti occidentali allineati alla politica dell’URSS, la quale in agosto aveva firmato un patto con la Germania nazista che aveva lasciato quest’ultima libera di attaccare la Polonia e le potenze occidentali, e in aperta lotta con i socialdemocratici e i socialisti. L’attacco nazista all’URSS nel 1941 comportò il ritorno alla linea dei fronti popolari antifascisti. I comunisti occidentali assunsero dopo di allora un ruolo di primo piano nella lotta a sostegno dell’URSS e per la liberazione nazionale. Nel maggio del 1943 Stalin sciolse l’Internazionale comunista, sia per fare cosa grata ai suoi alleati occidentali sia per la convinzione che dopo la vittoria di Stalingrado l’URSS fosse pienamente in grado di salvaguardare se stessa con le sue sole forze. Finita la guerra, in Francia e in Italia i forti partiti comunisti vissero nell’attesa della definitiva affermazione della superiorità degli stati retti dai comunisti, tale da favorire la loro ascesa al potere. In conseguenza del decisivo ruolo avuto durante la guerra, il PCF e il PCI entrarono in governi di coalizione, da cui però vennero esclusi nel 1947 in seguito all’inasprirsi della guerra fredda. Il PCI, se pure sconfitto alle elezioni nel 1948, diventò il partito più forte della sinistra italiana. Palmiro Togliatti, già influentissimo segretario dell’Internazionale comunista, al suo ritorno in Italia dall’esilio moscovita nel 1944, aveva conferito al partito il carattere di un’organizzazione per un verso aperta a tutti coloro che aderissero al suo programma e per l’altro sottoposta al controllo di “quadri” formati da “rivoluzionari di professione”. Egli diede un contributo fondamentale all’elaborazione della linea della “democrazia progressiva”, che prevedeva la presa del potere in un quadro istituzionale democratico-borghese. Ma le aspettative del comunismo occidentale cozzarono contro la forte ripresa del capitalismo grazie all’aiuto risolutivo degli Stati Uniti. La destalinizzazione e la rivoluzione ungherese determinarono una crisi che però venne largamente riassorbita. I partiti comunisti dell’Europa occidentale avversarono il processo di integrazione europea, da essi denunciato come la formazione di un nuovo polo imperialistico diretto contro l’URSS. Gli anni Sessanta e Settanta videro la crisi dell’unità del comunismo internazionale. La critica rivolta nel 1968 dai comunisti italiani e francesi all’invasione della Cecoslovacchia, considerata come un “errore”, segnò l’inizio di un progressivo, anche se non lineare, distacco dalla solidarietà di principio con ogni aspetto della politica sovietica. In questa azione critica un ruolo preminente ebbe il PCI. Fra il 1975 e il 1977 i partiti italiano, francese e spagnolo diedero vita a un orientamento i cui cardini erano l’ormai esplicita critica della realtà sovietica e la dichiarazione di voler procedere nei paesi capitalistici sviluppati alla costruzione del socialismo respingendo la dittatura del proletariato e accettando la democrazia politica. Questa tendenza fu detta eurocomunismo. L’ambizione dell’eurocomunismo, coltivata con particolare forza dal leader comunista italiano Enrico Berlinguer (1922-84), era quella di costruire una “terza via” fra il socialismo sovietico privo di democrazia e la socialdemocrazia, accusata di aver rinunciato al socialismo. L’eurocomunismo si rivelò una tendenza ideologica priva di prospettive concretamente politiche. I partiti comunisti spagnolo e francese si avvitarono in una crisi sempre più profonda. Il PCI riuscì a mantenere più salde radici, ma alla fine degli anni Ottanta, con il collasso dei regimi dell’Europa orientale, la crisi strutturale dello stesso regime sovietico, la perdita di significato dell’eurocomunismo, mise all’ordine del giorno la propria trasformazione in partito della sinistra europea occidentale e la propria cessazione in quanto partito comunista, avvenuta nel 1991, con la fondazione del Partito democratico della sinistra. [Massimo L. Salvadori].

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