imperialismo

  1. Definizione e premesse storiche
  2. Fasi dell’imperialismo
  3. Teorie dell’imperialismo
1. Definizione e premesse storiche

Il termine “imperialismo” indica in generale le tendenze all’espansione territoriale di un determinato stato a spese di altri stati o nazioni sui quali stabilire il proprio dominio e costruire in tal modo un impero. In un senso più specifico la nozione di “imperialismo” denota invece un complesso di dottrine, atteggiamenti e prassi politiche peculiari delle grandi potenze nell’agone della politica mondiale che prende forma e definizione solo negli ultimi trent’anni dell’Ottocento, dai quali inizia appunto nella storia contemporanea la cosiddetta “età dell’imperialismo”. In tal senso, il termine sembra essere stato adoperato per la prima volta dagli avversari dello statista britannico Disraeli, per indicare la politica da questi sviluppata negli anni Settanta (e proseguita poi con vigore da J. Chamberlain negli anni Novanta) che sfociò nella creazione del vasto impero coloniale britannico a partire dalla proclamazione nel 1876 della regina Vittoria imperatrice dell’India. Le premesse storiche di lungo periodo dell’età dell’imperialismo hanno le proprie radici nel colonialismo dei paesi europei (Portogallo, Spagna, Olanda, Francia e, infine, la stessa Inghilterra) a partire dal XVI secolo, con le giustificazioni, riprese e rielaborate poi nell’imperialismo contemporaneo, dell’apertura di nuove vie alla civilizzazione, ai traffici, ma con la funzione sostanziale di creare vasti domini finalizzati a fornire ricchezze in materie prime e metalli preziosi, a offrire un mercato ai prodotti della madrepatria e un luogo d’insediamento per le comunità di coloni a vario titolo espulsi da essa e a permettere il controllo di territori strategicamente rilevanti.

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2. Fasi dell’imperialismo

Nella seconda metà dell’Ottocento al rafforzamento delle ragioni socioeconomiche dell’imperialismo – tra le quali fu fondamentale lo sviluppo impetuoso del capitalismo che caratterizzò in varia misura, dopo la Gran Bretagna e la Francia, anche gli altri paesi europei pervenuti a unità nazionale, nonché gli Stati Uniti e il Giappone – s’aggiunse lo stimolo politicamente decisivo, della ragion di stato, l’idea cioè che l’espansione imperialista costituisse il necessario coronamento ai fini della sicurezza e della sovranità nazionali e uno status symbol irrinunciabile. Dopo la Gran Bretagna e la Francia, anche la Germania guglielmina e l’Italia si lanciarono in imprese di carattere imperialistico in Africa e in Asia; la Russia zarista si mosse in direzione della Siberia, dell’Afghanistan e dei Balcani; da ultimo, tra Otto e Novecento, anche gli USA (impegnati già da tempo in una colonizzazione interna dai tratti imperialisti delle terre indiane del Middle e del Far West) e il Giappone vi si cimentarono, gli uni in America Latina e nel Pacifico, l’altro nel Pacifico e nelle estreme propaggini orientali dell’Asia. Se tutte le potenze imperialistiche si trovarono d’accordo nella spartizione delle proprie zone d’influenza nel decrepito impero cinese, in Africa e nell’Asia mediorientale la loro competizione diede luogo invece ad aspre tensioni e a incidenti militari e diplomatici, la cui progressione portò, insieme ad altri fattori, all’aggravarsi della situazione internazionale e allo scoppio della prima guerra mondiale. Nonostante l’esito del conflitto avesse portato per reazione al concepimento di un’embrionale politica di superamento dei rapporti interimperialistici – sanzionata dall’istituzione della Società delle Nazioni – già negli anni Trenta si ebbe una ripresa in grande stile dell’imperialismo nello stesso continente europeo, condotta soprattutto dalle dittature nazifasciste e poggiante, per quel che riguarda il Terzo Reich, su un’ideologia razzista e pangermanista e sulla strategia della conquista dello “spazio vitale” e, per quanto riguarda invece il fascismo italiano, sul progetto di una velleitaria restaurazione dell’impero romano nell’area mediterranea e africana. L’estrema aggressività di tale orientamento fu tra le cause strutturali della seconda guerra mondiale. Nel secondo dopoguerra la creazione di organismi sovranazionali, come l’ONU, ha posto termine alle tradizionali tendenze imperialiste. Tuttavia, ciò non ha impedito il loro riemergere in forma nuova: da un lato, nei rapporti tra le due superpotenze (USA e URSS) e gli stati più o meno configurabili come loro satelliti; dall’altro, in connessione con il neocolonialismo nelle relazioni tra il Nord e il Sud del mondo, tra paesi sviluppati e paesi sottosviluppati o in via di sviluppo.

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3. Teorie dell’imperialismo

L’imperialismo è stato ed è oggetto di numerose interpretazioni, che ne hanno variamente sottolineato gli aspetti storici, economici, politici, sociali, psicologici e istituzionali. Tra le più importanti vi sono le teorie di autori liberali, marxisti e dei teorici novecenteschi della ragion di stato. Uno dei primi studiosi dell’imperialismo britannico fu J.R. Seeley. Fu tuttavia un altro inglese, il liberalradicale J.A. Hobson, a sviluppare sotto l’impressione della guerra anglo-boera le prime riflessioni elaborate sulla scorta di dati economici. Secondo Hobson alle radici dell’espansionismo imperialistico vi sarebbe la tendenza crescente degli stati dominanti europei (in particolare Gran Bretagna, Francia e Germania) agli investimenti finanziari in paesi per nulla o insufficientemente sviluppati dal punto di vista capitalistico: una propensione strettamente collegata alla scarsità della domanda d’investimento esistente all’interno per l’ineguaglianza della distribuzione del reddito. Tale interpretazione imperniata sulla “struttura” economica capitalista riscosse particolare fortuna presso i teorici marxisti della Seconda Internazionale, come Kautsky, Hilferding, Luxemburg e Lenin. Mentre Hilferding diede particolare rilievo al ruolo del capitale finanziario e Kautsky arrivò a ipotizzare una funzione oggettivamente progressiva dell’imperialismo, che preparerebbe una fase “ultraimperialista” caratterizzata dalla formazione di aggregazioni socioeconomiche sovranazionali e federali capaci di dare un impulso positivo alla marcia verso il socialismo, Luxemburg e Lenin, in modo distinto, denunciarono soprattutto la funzione economico-politica sfruttatrice dell’imperialismo a livello planetario. In particolare Lenin lo qualificò come “fase suprema del capitalismo”, alla quale avrebbe fatto seguito la rivoluzione proletaria. Pur non negando il peso dei fattori economici nelle dinamiche dell’imperialismo (ma differenziandolo, in ogni caso, dal capitalismo, la cui vera natura sarebbe a suo avviso pacifica e non militaristicamente aggressiva), Schumpeter riportò l’attenzione su fattori originari, culturali e psicologici, dell’imperialismo, radicati in valori e concezioni tradizionali e irrazionali (per esempio, il nazionalismo) di gruppi e ceti che precederebbero lo sviluppo pieno del capitalismo o sarebbero scarsamente rappresentati al suo interno (“l’imperialismo è un atavismo”). Per tutte le posizioni fin qui accennate l’imperialismo sarebbe generato da esigenze che affondano le loro radici nella politica interna degli stati. I teorici novecenteschi della ragion di stato, che presero le mosse dalla storiografia ottocentesca tedesca di L. von Ranke, posero viceversa l’accento sul ruolo decisivo della politica estera nella genesi della competizione imperialistica. Secondo tale teoria – ripresa variamente, tra gli altri, da M. Weber e da F. Meinecke e poi riformulata, in un quadro teorico federalista, da L. Einaudi, L. Dehio, L. Robbins, Lord Lothian, E. Rossi, A. Spinelli e M. Albertini – l’imperialismo sarebbe, in ultima analisi, l’espressione dell’anarchia vigente nel sistema degli stati-potenza europei, ossia nelle relazioni internazionali fra stati dotati di sovranità assoluta: un fenomeno, dunque, che potrà esser realmente superato solo con l’attenuazione delle sovranità statali e con l’affermarsi, a vari livelli, di organismi federali sovranazionali (federalismo). [Corrado Malandrino]

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