aristocrazia

Derivante dal greco aristos (il migliore) e kratos (potere), nel lessico storico-politico delle forme di governo il termine “aristocrazia” definiva originariamente il “governo dei migliori”. In questo senso le testimonianze sono antichissime. Secondo la narrazione di Erodoto (Le Storie, III), tre prìncipi persiani – Dario, Megabizo e Otane – furono gli autori della prima tripartizione politica tra monarchia, aristocrazia e democrazia (che, nell’antico greco, veniva chiamata piuttosto isonomia, ossia “eguaglianza di fronte alla legge”). Fra i tre, Megabizo era il difensore della forma aristocratica, mentre Dario sosteneva la monarchia e Otane la democrazia. L’argomentazione portata a sostegno della tesi aristocratica da Megabizo accentuava peraltro tanto l’aspetto della virtù dei migliori quanto il loro numero ridotto, approssimando quindi la definizione di aristocrazia a quella di oligarchia (il “governo dei pochi”), la quale ultima, viceversa, fu poi sempre intesa nel pensiero greco successivo come una forma degenerata dell’aristocrazia. Così nella Repubblica di Platone l’aristocrazia – nell’accezione del “governo dei migliori” – rappresenta l’unica forma retta di governo tra quelle indicate. Nel Politico, che invece riprendeva la tripartizione erodotea, l’aristocrazia è una delle tre forme relativamente pure. Lo stesso dicasi per la definizione elaborata da Aristotele nella Politica e ripresa più tardi da Polibio: in essa l’aristocrazia è intesa come la seconda forma pura di costituzione e l’oligarchia è ancora una volta la corrispondente forma corrotta. In sostanza, i “migliori” (il referente dell’aristocrazia) non necessariamente equivalevano ai “pochi” (il referente dell’oligarchia), ai “ricchi” o ai più “ambiziosi” (il referente della timocrazia) e nemmeno ai “nobili”, secondo un uso poi storicamente consolidato. Ciò che nel mondo greco conferiva la qualifica di “migliore” era il possesso dell’areté, la virtù, intesa non solo e non tanto come valore guerriero, ma soprattutto come virtù morale e intellettuale, ossia come saggezza. Così, ad esempio, in Platone e in Aristotele, anche se in definitiva i cittadini della polis greca (e più tardi di Roma), che potevano detenere tali qualità, finivano per essere i più ricchi e i membri della nobiltà. L’aristocrazia, intesa sempre più come ceto, come nobiltà di sangue, di censo o di toga, conobbe importanti sviluppi in età feudale, all’epoca dei comuni e delle repubbliche cittadine, dove il patriziato costituiva il ceto dirigente, e nelle società di antico regime. Tuttavia tale evoluzione, poi deperita e svuotata di significato col prevalere dell’assolutismo e del costituzionalismo nell’età moderna, non comportò la ripresa teorica dell’aristocrazia come autonoma “forma di governo”. Nei maggiori pensatori politici moderni che si occuparono di tale problematica, da Machiavelli a Montesquieu, l’aristocrazia non ebbe un’autonoma trattazione. A maggior ragione ciò accade col prevalere in epoca contemporanea dei regimi democratici e quindi con la relativa scomparsa dell’aristocrazia nobiliare come classe dominante. Nell’ultimo secolo si è imposta però – con importanti riflessi sul terreno della storia e della scienza politica – un’accezione non del tutto nuova di aristocrazia, che ricomprende in essa il complesso degli individui più qualificati in determinate branche del mondo socioeconomico e politico (aristocrazia del sapere, della produzione, ecc.). In questo senso alcuni teorici del socialismo e del marxismo parlarono tra Otto e Novecento anche di “aristocrazia operaia”, facendo riferimento allo strato più elevato e meglio retribuito della classe operaia, vicino alle classi medie e quindi disponibile a stringere alleanze politiche riformatrici con i ceti borghesi più aperti. Con questa definizione di aristocrazia in senso lato ha una parentela il termine élite, anche se per essa fa premio in definitiva la maggior affinità con la concezione dell’oligarchia. Sulle masse, giudicate incapaci di azioni razionali e di attività politica cosciente, si sovrappone una parte “scelta”, “eletta”, del popolo, sia essa un’aristocrazia o una “classe politica”. Basti qui ricordare un precursore, il francese F. Le Play (1806-1882), il quale teorizzò nell’opera intitolata Riforma sociale (1864) una costituzione incentrata sul concetto di gerarchia e gravitante intorno a una “classe eletta” saggia, sapiente, istruita, cui competeva un ruolo di direzione politica tesa ad assicurare armonia e felicità al corpo sociale.