oligarchia

Il termine “oligarchia” deriva dal greco (oligoi, pochi e archia, comando) e designa genericamente il “governo dei pochi”. Esso ha subìto in realtà un’importante evoluzione nel tempo, variando il suo significato rispetto all’uso antico. Attualmente costituisce una delle voci più importanti della scienza politica contemporanea. Nel pensiero politico greco l’oligarchia ebbe quasi sempre una connotazione valutativa eticamente negativa, in quanto più che al “governo di pochi” fu rapportata al governo di quei pochi interessati esclusivamente al proprio potere e non al bene comune. Fu insomma soprattutto un “governo dei ricchi” dediti al proprio interesse (assai simile pertanto alla plutocrazia e alla timocrazia). Nella tripartizione aristotelica delle forme di governo l’oligarchia rappresentava la forma corrotta dell’aristocrazia, che invece era la forma retta del “governo dei migliori”. In questa accezione il termine “oligarchia” fu ripreso in Polibio e nell’età moderna, quando vari pensatori politici – ad esempio Bodin (1530-96) – si dedicarono a una trattazione sistematica delle forme di governo. Solitamente il quadro istituzionale dell’oligarchia fu quello repubblicano (senza escludere però forme diverse, come la dittatura). Nelle epoche storiche sono esistite oligarchie di vario genere: di corte, nobiliari, ecclesiastiche, militari, plutocratiche, ecc. Esempi classici furono nell’antichità il regime del consiglio dei Quattrocento ad Atene (411 a.C.), nel medioevo e in età moderna il governo di Venezia o degli Stati Generali nelle Province Unite olandesi. A partire dalla seconda metà dell’Ottocento il concetto di oligarchia è stato via via riformulato. Nella scienza politica esso è stato collegato ad altri concetti scientificamente più neutri come quelli di “minoranza governante”, di “classe politica” (G. Mosca), di “classe eletta” e di “élite” (V. Pareto), finendo per acquisire così anche un significato descrittivo – e non valutativo – di determinati meccanismi dell’agire politico. Tuttavia, specie in relazione alla democrazia parlamentare e partitica, rispetto alla quale la teoria dell’élite si pose criticamente tra Otto e Novecento, un residuo di connotazione peggiorativa e degenerativa restò implicito nel termine “oligarchia”. Lo si riscontra in particolare in R. Michels, che enunciò la cosiddetta “legge ferrea dell’oligarchia” nella Sociologia del partito politico nella moderna democrazia (1911). Premesso che i partiti rappresentano una delle forme più importanti di democrazia negli stati contemporanei, Michels osservava che in essi coesistono tratti oligarchici e democratici. Il fatto non è casuale, ma dipende da esigenze insopprimibili dell’organizzazione che si fanno strada quando un partito si struttura e si organizza per un interesse concreto. In tale frangente emerge la “tendenza dei capi a organizzarsi e coalizzarsi”, forti della loro “indispensabilità tecnica”, ai fini della loro affermazione di fronte alla “generale passività spirituale delle masse”. Si crea così un’oligarchia con un interesse proprio e separato da quello della massa degli iscritti. Tale tendenza è un fenomeno organico, legato alle necessità dell’organizzazione, di tutte le forme della democrazia, per cui Michels concludeva: “Chi dice organizzazione, dice tendenza all’oligarchia”. Vicina nella sostanza la conclusione di Mosca e Pareto i quali, contro la tipologia classica delle forme di governo fondata sul numero dei governanti (l’uno, i pochi, i molti), ritenevano che ogni forma di governo – compresa quella democratica – avesse di fatto una natura strutturalmente e insuperabilmente oligarchica. Si parla oggi di regimi oligarchici anche a proposito delle tecnoburocrazie occidentali e delle élites al potere dei paesi ex coloniali.