Economia e commerci dell’Italia nei secoli XVI-XVIII

Italia L’Italia nell’età moderna

Nel corso del secolo XV andò consolidandosi nella penisola italiana un sistema di stati regionali fondato su cinque maggiori potenze: Venezia, Milano, Firenze, stato pontificio e Napoli. Nel 1454 Francesco Sforza e Venezia firmarono la pace di Lodi, che pose fine a un lungo periodo di lotte. Subito dopo prese vita una lega tra i maggiori stati italiani, che stabilì una “politica dell’equilibrio” durata un quarantennio. Il XV e il XVI furono secoli di incomparabile splendore per l’Italia, che, con il suo sviluppo economico e la cultura rinascimentale, diventò il centro della civiltà europea (Rinascimento e Umanesimo). Ma a tale splendore corrispondeva un’accentuata debolezza politica e militare di fronte alle potenti monarchie nazionali di Spagna e Francia. La politica di “equilibrio” che regolava i rapporti fra gli stati regionali crollò infatti di fronte all’azione espansionistica di queste monarchie. Nel 1494 Carlo VIII di Francia invase l’Italia, inaugurando un lungo periodo di guerre fra francesi e spagnoli per l’egemonia. Già nel 1495, tuttavia, il sovrano, contro cui si era levata una lega costituita da Austria, Spagna, Milano, Venezia e la Chiesa, dovette riguadagnare le Alpi. Fra il 1494 e il 1498 Firenze conobbe l’esperimento della “repubblica piagnona”, messo in atto da fra Gerolamo Savonarola, infine travolto dall’ostilità del papato e dalle opposizioni interne. Nel 1499 Luigi XII di Francia ripeté l’invasione e si impadronì di Milano. Ma la guerra che seguì con la Spagna diede a questa il possesso di Napoli. Divenuta mira delle brame di Austria, Francia, Spagna, del papa Giulio II e altri stati italiani, stretti nella lega di Cambrai, Venezia lottò con successo fra il 1508 e il 1510 per la propria esistenza. Nel 1511 Giulio II organizzò contro la Francia la Lega santa, con l’effetto di riportare al potere nel 1512 a Milano gli Sforza e a Firenze i Medici. Intanto fra il 1499 e il 1503 il duca Valentino, figlio del papa Alessandro VI, aveva tentato invano di costruire uno stato personale nell’Italia centrale. Machiavelli riconobbe in lui il tipo eccellente del “principe” rinascimentale. L’invasione francese venne ancora una volta rinnovata nel 1515 con Francesco I. Il trattato di Noyon (1516) sancì il dominio della Francia sul Milanese e della Spagna su Napoli, Sicilia e Sardegna. Lo scontro fra le due potenze per il controllo dell’Italia continuò opponendo Francesco a Carlo V, imperatore e re di Spagna. I francesi furono sconfitti presso Pavia nel 1525. Nel 1527 Roma venne saccheggiata dai lanzichenecchi di Carlo. Firenze, cacciati i Medici, si eresse a repubblica; ma nel 1530 vi fu la restaurazione; e subito dopo Cosimo I, nominato duca ereditario, consolidò l’ordine mediceo. La lotta fra francesi e spagnoli giunse a conclusione solo nel 1559 con la pace di Cateau-Cambrésis, stabilita da Enrico II di Francia e Filippo II di Spagna, in base alla quale l’Italia cadeva sotto la piena egemonia della Spagna, che estendeva il suo dominio su Milano, sullo stato dei presidi, su Napoli, sulla Sicilia e sulla Sardegna. I francesi mantennero forti posizioni in Piemonte. Grazie all’opera congiunta della chiesa e delle autorità politiche, l’Italia rimase estranea, salvo che in zone affatto marginali, all’influenza della Riforma protestante. Fu anzi il centro di irradiazione della Controriforma, che ebbe il suo momento cruciale nel concilio di Trento (1545-63), con cui la tradizione cattolica venne integralmente ribadita pur nel quadro di una vasta opera di rinnovamento, espressa significativamente dall’azione di nuovi ordini religiosi. Nella seconda metà del XVI secolo e in quello successivo, l’Italia, dominata dalla Spagna e dallo spirito controriformistico, andò incontro a un progressivo declino economico – cui concorse anche lo spostamento delle grandi correnti di traffico marittimo dal Mediterraneo all’Atlantico -, sociale e anche culturale (pur toccando ancora punte altissime con Giordano Bruno e Galileo Galilei). I commerci e le attività industriali cedettero in importanza alle attività agrarie. In particolare l’agricoltura meridionale prese a caratterizzarsi per la sua arretratezza. Politicamente indipendenti rimanevano solo Venezia, che nel corso di un aspro scontro con la chiesa tra il 1605 e il 1607 riaffermò l’autonomia dello stato dall’influenza ecclesiastica, e lo stato dei Savoia. Quest’ultimo, tuttavia, dopo che Emanuele Filiberto (1553-80) ebbe dato al potere una struttura assolutistica, cadde nel 1630, con Carlo Emanuele I, sotto l’influenza francese. Nel Mezzogiorno la dominazione spagnola dovette fronteggiare nel 1647-48 rivolte a Napoli, che vide emergere e cadere il capopopolo Masaniello, e a Palermo. Gli ultimi due decenni del Seicento e il primo del Settecento videro una prolungata azione del re di Francia Luigi XIV nel corso delle grandi guerre europee per affermare la sua influenza, in specie sul Piemonte retto da Vittorio Amedeo II. Questi, per salvaguardare l’indipendenza dello stato sabaudo, sottoposto a un’energica riorganizzazione assolutistica che ne accentuò il carattere militare e burocratico, attuò spregiudicati capovolgimenti di alleanze. In seguito alla guerra di Successione spagnola (1701-1713), la pace di Rastadt del 1714 sancì la fine dell’egemonia spagnola sulla penisola e l’inizio di quella austriaca. Milano, Mantova, lo stato dei presidi, Napoli e la Sardegna passarono sotto il dominio austriaco. Il ducato di Savoia si trasformò in regno, ottenendo la Sicilia, ceduta però nel 1720 all’Austria in cambio della Sardegna. Nel 1734 i Borbone di Spagna si impadronirono del regno di Napoli. Un riassetto, i cui effetti dovevano durare sino alla fine del secolo, si ebbe in conseguenza del trattato di Aquisgrana del 1748, seguito alla guerra di Successione austriaca (1740-48), per cui gli austriaci cedettero la Toscana, Parma, Piacenza e Guastalla ai Borbone e i Savoia annessero l’alto novarese, Voghera e Vigevano. Durante il Settecento, e specie nella seconda metà del secolo, l’Italia conobbe una ripresa economica, specie in campo agrario, e culturale, partecipando degli sviluppi dell’Illuminismo europeo. La cultura illuministica italiana ebbe fra i suoi più insigni rappresentanti Antonio Genovesi, Ferdinando Galiani, Gaetano Filangieri, i fratelli Alessandro e Pietro Verri e Cesare Beccaria. In campo politico, i governi illuminati aprirono un corso riformatore, a cui rimasero estranee solo Venezia e Genova, dominate da chiuse oligarchie. Genova, in particolare, andò declinando rapidamente; nel 1768 cedette alla Francia la Corsica, dopo una lunga rivolta. Nella Lombardia austriaca di Maria Teresa e Giuseppe II, dove il moto di riforma acquistò un carattere assai intenso, fu rammodernata la macchina amministrativa, fu creato un nuovo catasto, fu condotta una decisa azione contro i privilegi del clero, fu dato impulso alla laicizzazione della cultura. Imponente fu lo sforzo riformatore anche nella Toscana di Pietro Leopoldo. A Napoli, durante il regno di Carlo VII e di Ferdinando IV di Borbone, Bernardo Tanucci, appoggiato dagli esponenti della cultura illuministica, tentò un corso innovativo, che però conseguì successi limitati. Nel 1741 un concordato con la chiesa abolì alcuni privilegi ecclesiastici e si ebbe una parziale laicizzazione dell’istruzione; ma il potere feudale non venne sostanzialmente toccato, con grave impedimento allo sviluppo economico. A Parma, Guillaume-Lèon Du Tillot, deciso a introdurre riforme in campo giurisdizionale, fu protagonista di un durissimo scontro con la chiesa, che si concluse con il suo licenziamento nel 1771. Del tutto estraneo alle riforme rimase lo stato pontificio, in lotta aperta contro la cultura e il riformismo dell’Illuminismo e caratterizzato da una dominante clericalizzazione delle istituzioni.