tirannia

  1. Premessa e definizione
  2. Evoluzione del concetto di tirannia
1. Premessa e definizione

Dal greco tyrannis (tirannide) indica, nell’accezione più semplice e corrente, il regime del “tiranno” (tyrannos). La figura del tiranno (e perciò la tirannia stessa) è stata sempre circondata da un alone di perversione, prepotenza e violenza per il modo di acquisto e/o di gestione del potere. Sotto il profilo storico-teorico occorre tuttavia differenziare l’istituto della tirannide nella storia della Grecia antica dalle forme definitorie assunte all’interno della teoria classica delle forme di governo e, infine, dall’evoluzione che tale categoria ebbe durante il medioevo e la prima età moderna, anche in connessione con lo sviluppo di ideologie sorte in contrasto con essa. Per Aristotele, la tirannia era la forma degenerata della monarchia, ossia “il dominio esercitato da uno solo sull’associazione civile a suo esclusivo vantaggio”. Nel concetto autentico di tirannia dovevano esser presenti due condizioni: la prima, che il tiranno fosse un usurpatore; la seconda, che esercitasse in modo corrotto e dispotico il potere, trattando i concittadini o i sudditi come se fossero tutti schiavi. Più analiticamente, Aristotele individuò tre tipi di monarchia tirannica: quella dispotica, che però proclamò tirannica solo in relazione all’esercizio del potere, sostenendone la legittimità della titolarità (pertanto, da un punto di vista tecnico, la tirannia non coincise mai completamente col dispotismo); il regime degli esimneti, una sorta di tirannia elettiva e vitalizia dell’antica Grecia; infine, la pambasilea, ovvero la monarchia assoluta.

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2. Evoluzione del concetto di tirannia

Tale tradizione di pensiero fu seguita dai classici greco-latini, da Polibio, da Cicerone, riversandosi poi nella cultura patristica e nei grandi pensatori politici medievali. A partire da Tommaso d’Aquino, da Bartolo da Sassoferrato e da Coluccio Salutati, la problematica della tirannia fu sottoposta a una particolare sistematizzazione politica e giuridica, derivante anche dalla sensibilità costituzionale e antitirannica presente in vasta parte della cultura umanistica italiana. La tirannia fu sempre più inquadrata nel regime principesco e monarchico pervertito in quanto carente della titolarità legittima (tyrannia ex defectu tituli) e/o contrassegnato dalla crudeltà e dal dispotismo nel governo (tyrannia ex parte exercitii). Accanto all’aspetto definitorio presero corpo le questioni rappresentate dall’esistenza o meno dell’obbligo d’obbedienza al tiranno e, di conseguenza, delle modalità dell’opposizione e della resistenza eventuali all’arbitrio, fino al tirannicidio. Problemi di non poco conto in un’epoca caratterizzata da lotte di potere continue, intense e violente che spesso si concludevano con la signoria dell’uno o dell’altro contendente sprovvisto quasi sempre di titoli legittimi. Nel contesto formativo dello stato moderno tra Cinque e Seicento, in connessione con l’esplodere delle guerre di religione e con l’affermazione dell’assolutismo, la tematica della tirannia e del tirannicidio ebbe una grande fortuna, collegandosi con il dibattito sollevato dai monarcomachi. Importanti trattatisti politici, come Althusius e Locke, inclusero nelle loro elaborazioni il capitolo della tirannide e della resistenza al tiranno, collegando la definizione classica all’idea secondo cui la tirannia rappresenterebbe un delitto contro il buongoverno della cosa pubblica. Con il Settecento e l’Illuminismo la discussione fu in un certo senso riportata al contesto della lotta all’assolutismo di antico regime e della trattazione dello stato dispotico. Successivamente, la tirannia perse sempre più la sua connotazione specifica, divenendo via via obsoleta come categoria scientifica e mantenendo un significato generico complementare ad altre definizioni quali dittatura, totalitarismo e autocrazia. [Corrado Malandrino]

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