mafia

Con il termine mafia si è a lungo identificata un’associazione malavitosa violenta organizzata per famiglie o clan, dedita per lo più ad attività di estorsione e radicata nel Mezzogiorno d’Italia e in particolar modo in Sicilia. Oggi, tuttavia, il termine si adatta a descrivere organizzazioni criminali complesse diffuse in numerosi paesi – dalla Turchia alla Russia, dal Giappone agli Stati Uniti d’America, alla Colombia – che tendono ad assumere sempre più carattere transnazionale.

  1. L’etimologia del termine
  2. Lo sviluppo della mafia nella storia d’Italia
  3. La struttura del potere mafioso
1. L’etimologia del termine

L’origine etimologica della parola mafia è incerta, ma l’ipotesi più accreditata rimane quella che essa derivi dall’arabo: da mahias (sfacciato, prepotente), o dall’espressione mu afah (assicurare protezione, tutelare), o da mahfil (adunanza, ritrovo), o ancora dal participio passato di marfud (ricusare, rifiutare); Ma afir, infine, era il nome della tribù islamica che dominò Palermo e mafie erano denominate le cave di tufo che, fin dai tempi dei saraceni, servivano da rifugio ai perseguitati. Il termine cominciò a entrare nel linguaggio comune nella seconda metà dell’Ottocento come sinonimo di baldanza e orgoglio; ma fu una commedia verista siciliana – I mafiusi di la Vicaria, di Giuseppe Rizzotto e Gaspare Mosca, del 1863 – a favorire la diffusione della moderna immagine del mafioso come “uomo di rispetto”, come individuo appartenente a una vera e propria associazione, con tanto di riti di iniziazione, fortemente connotata da una mentalità che coniuga arroganza, sentimenti di ribellione nei confronti del potere costituito e senso di appartenenza a una comunità in grado di fornire, se necessario, protezione e supporto. Due anni dopo, nel 1865, la parola venne impiegata per la prima volta in un documento ufficiale del prefetto di Palermo al ministero dell’Interno del nuovo stato italiano nel quale si denunciava la crescente audacia di una “associazione malandrinesca” denominata, appunto, mafia.

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2. Lo sviluppo della mafia nella storia d’Italia

Anche se non manca chi fa risalire le sue origini all’epoca dei Vespri siciliani del 1282 o del viceregno spagnolo di inizio Quattrocento, fu a partire dall’unificazione dello stato italiano (1861) che la mafia cominciò a essere percepita come fenomeno criminale diffuso e come questione di grande rilievo sociale. A fronte, tuttavia, di una pubblicistica che fin dagli anni Settanta del secolo scorso – in particolare con le Lettere meridionali di P. Villari e Le condizioni politiche e amministrative della Sicilia di L. Franchetti – stigmatizzava l’infiltrazione dei poteri mafiosi nella politica e nell’economia, la scelta dei governi unitari consistette a lungo, com’era accaduto già con il brigantaggio, nel ridurre la mafia a problema di ordine pubblico. In quest’ottica, l’operazione di Mori, nominato da Mussolini nel 1925 prefetto di Palermo, non rappresentò altro che una replica, seppure più efficace o meglio propagandata, di altre precedenti occupazioni militari di città e paesi siciliani. Eppure già ricca era, allora, la storia degli scandali che dimostravano la contiguità della mafia con gli ambiti della politica regionale e nazionale. Basti pensare all’assassinio nel 1893 di Emanuele Notarbartolo, ex sindaco di Palermo nonché ex direttore generale del Banco di Sicilia, che vide il coinvolgimento come mandante dell’onorevole Palizzolo e che sfiorò persino Francesco Crispi; oppure ai pesanti sospetti da cui fu circondata nel Meridione d’Italia la politica di Giovanni Giolitti, “il ministro della malavita”, secondo la celebre definizione di Salvemini. Dopo il ventennio fascista, durante il quale la mafia si accontentò in definitiva di riconoscere la supremazia del partito unico nella gestione delle risorse di violenza sul proprio territorio, l’organizzazione criminale mafiosa trasse una rinnovata legittimazione tanto dalla scelta delle forze d’occupazione angloamericane di far affidamento anche su “uomini di rispetto” per l’amministrazione dell’isola, quanto successivamente dal proprio diretto coinvolgimento nell’esperienza del movimento separatista siciliano. Nell’Italia repubblicana, infine, la mafia ha saputo avvantaggiarsi di una gestione assai spesso clientelare del potere politico accrescendo il proprio potere di controllo sulle istituzioni locali, arrivando a gestire in prima persona gli appalti pubblici e sfidando anche sul piano militare le istituzioni dello stato attraverso un uso sempre più spregiudicato della violenza armata. A partire dalla fine degli anni Settanta, quando fu ucciso il giudice Terranova, la mafia si è resa protagonista di una vera e propria strategia stragista che è proseguita negli anni Ottanta con l’assassinio dei magistrati Costa e Chinnici, di politici quali La Torre, di esponenti delle forze dell’ordine quali Giuliano, Russo e Basile, del prefetto di Palermo Dalla Chiesa; e che è culminata negli anni Novanta con l’uccisione dei magistrati Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e Paolo Borsellino e delle loro scorte (1992) e con gli attentati dinamitardi di Firenze e Milano (1993). Nonostante le inchieste condotte dalle Commissioni parlamentari antimafia a partire dai primi anni Sessanta e nonostante le risultanze delle indagini e le sentenze dei grandi processi del pool antimafia diretto dal giudice Antonino Caponnetto, di cui facevano parte anche Falcone e Borsellino, l’azione dei governi repubblicani si è per lungo tempo mostrata discontinua, subordinata com’era alla logica dell’emergenza determinata dalla pressione dell’opinione pubblica successiva ai crimini più efferati. Una parte rilevante della classe politica – alcuni importanti membri della quale sono stati coinvolti in prima persona nelle indagini della magistratura sulle associazioni mafiose – si è dimostrata di volta in volta pavida, reticente, addirittura complice. E la risposta più efficace al dilagare della prepotenza mafiosa fu tradizionalmente affidata da un lato alla magistratura, che, grazie alla riorganizzazione dell’apparato investigativo (DIA, Direzione Investigativa Antimafia) e all’impiego dei collaboratori di giustizia (i cosiddetti “pentiti”), riuscì a mettere a segno alcuni importanti successi nell’attività investigativa nel corso degli anni Novanta; dall’altro lato all’iniziativa spontanea della società civile, che diede vita ad associazioni di alto valore morale ed educativo in grado di operare attivamente per riconquistare alla democrazia i territori a sovranità mafiosa. All’indomani della stagione stragista, nel corso della quale essa attuò un violento attacco frontale nei confronti dello stato, e della successiva stagione dei processi, che assicurò alla giustizia la quasi totalità dei suoi vertici, con l’inizio del nuovo millennio la mafia intraprese una strategia di immersione con cui si rese meno visibile, ma non per questo meno pericolosa. Abbandonata la logica dello scontro aperto a favore di quella della mediazione e dell’infiltrazione, essa intraprese un radicale rinnovamento delle proprie modalità di arricchimento illecito anche alla luce dei più recenti processi di globalizzazione finanziaria e di innovazione tecnologica.

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3. La struttura del potere mafioso

L’ipotesi, a lungo prevalente, che la mafia non fosse altro che un fenomeno residuale, la sopravvivenza di forme arcaiche e semifeudali di potere la cui scomparsa sarebbe stata garantita dal procedere del processo di modernizzazione, oltre ad essere stata clamorosamente smentita dai fatti – ovvero dalla facilità con cui essa ha saputo adattarsi alle nuove esigenze di un capitalismo avanzato – risulta invalidata anche dalle ricerche più recenti. La mafia tende a presentarsi come un sistema di potere politico-militare illegale. Essa possiede un’organizzazione fortemente strutturata al suo interno secondo una gerarchia di comando di tipo piramidale: alla base, i “soldati” vengono inquadrati in decine, guidate da un capodecina e facenti capo a una famiglia; più famiglie confinanti, inoltre, possono dar vita a un mandamento e più mandamenti a una provincia. Talvolta a questa sorta di piramide decisionale può aggiungersi un ulteriore livello, quello della commissione regionale. La mafia, poi, è in grado di determinare la condotta di altri uomini facendo ricorso alla violenza, anche se non le manca una base di consenso “spontaneamente” indotto dalla sua capacità di distribuire prebende e di svolgere funzioni di intermediazione. Infine, il sistema mafioso è finalizzato alla produzione di proventi illeciti; e il fatto che tenda con sempre maggior frequenza a estendere la propria sfera di intervento in settori dell’economia legale non può naturalmente cancellare il dato fondamentale dell’origine illegale dei capitali investiti (criminalità organizzata). L’autorità mafiosa deriva la propria forza da un controllo capillare del territorio che le fornisce – ancora in un’epoca in cui gli affari delle cosche acquistano dimensione transnazionale – le fondamentali risorse di sostentamento, attraverso le attività di estorsione e di taglieggiamento, e il patrimonio di conoscenze che le sono necessarie per agire da intermediario nel mondo degli affari e della politica. L’apparato di norme e di valori di cui si circonda – il cosiddetto “codice d’onore”, che tanta falsa retorica ha alimentato nel tentativo, da ultimo, di accreditare l’esistenza di una mafia buona e innocua, “delle origini”, che sarebbe stata tradita dai nuovi mafiosi, attratti dai facili guadagni del traffico della droga – è riducibile all’unica legge dell’individualismo esasperato che giustifica l’uso del tutto strumentale e utilitaristico della violenza e dello stesso clan. L’intensità dei legami che la mafia è andata sviluppando con la politica sembra dimostrare che i rapporti tra i due sistemi debbano essere considerati strutturali, ben più che congiunturali. La crescita esponenziale dei poteri mafiosi non sarebbe infatti comprensibile se non ci si riferisse ai limiti evidenziati dal sistema politico italiano e ad alcuni importanti settori della sua classe politica i quali, attraverso collusioni più o meno ampie con il sistema mafioso, hanno potuto gestire consensi e voti nel Sud alimentando nel contempo le pratiche della lottizzazione negli ambiti di competenza della pubblica amministrazione. [Fabio Armao]

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