brigantaggio

Attività di bande armate che, sotto la guida di un capo, attentano alle persone e alla proprietà. È un fenomeno diffuso fin dall’antichità, sia nel mondo occidentale (i “latrones” romani), sia in Oriente (le bande cinesi dei Sopraccigli Rossi nel I secolo d.C., e quelle dei Turbanti Gialli nel II), soprattutto in periodi di crisi economica e sociale, nelle zone depresse e in assenza di una forte e riconosciuta autorità statale. Contadini in miseria, feudatari declassati, soldati disertori e delinquenti comuni sono gli strati sociali di solito maggiormente coinvolti nelle periodiche ondate di brigantaggio che hanno accompagnato l’intero corso della storia. Spesso alle ragioni sociali si sovrappone la strumentalizzazione politica, come avvenne nel 1799 nell’Italia meridionale, quando il cardinale Ruffo utilizzò le principali bande di briganti (celebre quella di fra’ Diavolo) nella reazione antifrancese e contro la repubblica partenopea. Particolarmente importante nella storia nazionale italiana fu il brigantaggio che dal 1860 al 1865 imperversò nelle regioni continentali del meridione, in concomitanza con la nascita dello stato unitario. Causa sociale del fenomeno fu la delusione dei contadini meridionali per la mancata riforma agraria e quotizzazione dei latifondi, per la coscrizione obbligatoria (che sottraeva giovani braccia alla terra per un lungo periodo) e per il pesante carico fiscale imposto dal nuovo regno. La protesta, non guidata da un “partito sociale”, assente in Italia nonostante gli sforzi di democratici come Pisacane e Ferrari, assunse la forma prepolitica del brigantaggio e della vendetta contro i “galantuomini” (proprietari terrieri e borghesi liberali). Alla causa sociale si aggiunsero la strumentalizzazione politica e i finanziamenti del deposto re delle Due Sicilie Francesco II di Borbone e del clero reazionario, entrambi interessati alla destabilizzazione dello stato unitario. Il movimento scoppiò in Basilicata (dove agì la banda di Carmine Crocco), ma si diffuse in pochi mesi in tutto il meridione continentale, coinvolgendo decine di migliaia di contadini, delinquenti comuni, disertori e renitenti alla leva, spesso aiutati e sostenuti dalle popolazioni locali. La classe politica piemontese identificò la difesa dell’unità nazionale con la tutela dei grandi proprietari terrieri e trattò il brigantaggio esclusivamente come problema di ordine pubblico, nonostante un’inchiesta parlamentare condotta da Massari (1862-63) ne avesse evidenziato le ragioni sociali. Dopo un iniziale disorientamento, dovuto alla concentrazione a nord del grosso dell’esercito, dal 1863 circa la metà delle truppe italiane (120.000 soldati) fu impegnata in una vera e propria guerra civile contro i briganti, sotto la guida dei generali Cialdini e Pallavicino. La legge Pica, approvata nel 1863, affidò la repressione giudiziaria ai Consigli di guerra, autorizzati a fucilare sul posto i briganti e ad arrestare i sospetti. Solo nel 1865 il fenomeno fu militarmente debellato, al prezzo di più di 5000 briganti uccisi e di almeno altrettanti incarcerati e di migliaia di vittime anche nell’esercito. Le ragioni socioeconomiche del brigantaggio – parte della più ampia e complessa questione meridionale – rimasero altresì irrisolte. Sporadiche manifestazioni di brigantaggio, tra le quali si può considerare l’attività di Salvatore Giuliano, autore della strage di Portella della Ginestra (1° maggio 1947), si ripresentarono nella storia italiana successiva.