Svizzera

Stato attuale dell’Europa centrale.

  1. Dalle origini fino alla formazione della Confederazione (XIII secolo)
  2. Dalla nascita della Confederazione alla Riforma
  3. La Riforma e l’antico regime
  4. Dalla Rivoluzione francese alla revisione della costituzione (1874)
  5. Dal 1874 ai giorni nostri
1. Dalle origini fino alla formazione della Confederazione (XIII secolo)

Le prime tracce di vita umana documentabili sul territorio dell’odierna Svizzera appartengono all’epoca interglaciale di Riss-Würm. Durante il paleolitico superiore e il mesolitico, il ritrarsi dei ghiacciai rese possibile l’antropizzazione dell’arco alpino. Con l’era neolitica migrazioni indoeuropee favorirono la diffusione di tecniche agricole e d’allevamento accompagnate da processi di sedentarizzazione e da insediamenti su palafitte. Nell’VIII secolo si affermò la civiltà di Hallstatt, primo nucleo riconosciuto delle genti celtiche, cui seguì quella di La Tène, nei pressi dell’odierna Neuchâtel. Dal V secolo a.C. si moltiplicarono gli insediamenti celtici: gli elvezi sull’altopiano centrale e i rauraci nel Giura fondarono villaggi e oppida e adottarono scrittura e moneta, mentre i reti delle Alpi orientali praticavano un’economia pastorale e un’agricoltura itinerante. A partire dal I secolo a.C. la romanizzazione segnò profondamente la Svizzera. Nel 58 a.C. gli elvezi, che, pressati dai germani, migravano verso le Gallie, furono sconfitti da Cesare nella battaglia di Bibracte e costretti a ritornare nei territori precedentemente occupati. All’inizio dell’era cristiana l’odierno territorio svizzero era ormai interamente sottomesso al dominio romano e suddiviso fra province diverse: Gallia Narbonense, Belgica (dall’85 d.C. Germania Superiore e Inferiore), Rezia e Alpi Graie e Pennine. Di importanza cruciale per i transiti, il territorio svizzero era solcato da una rete di strade, sui cui nodi furono creati insediamenti militari e città, fra cui Aventicum (Avenches) e Augusta rauricorum (Basilea). Lo sviluppo di un sistema stradale e l’urbanizzazione costituirono i due elementi essenziali dell’integrazione della Svizzera nell’impero romano. All’epoca della “pace imperiale” (fino al 260 d.C.), caratterizzata da uno sviluppo economico e sociale garantito dalla sicurezza dei confini, seguì un periodo di profonda crisi. L’arretramento a sud delle frontiere romane rese necessaria una riorganizzazione militare e amministrativa. Si imposero anche una serie di riforme, che però non valsero a ristabilire in modo duraturo l’ordine e la sicurezza nei territori elvetici. Nel 401, quando Stilicone ritirò le legioni romane dalla frontiera del Reno, ebbe fine l’epoca romana nell’odierna Svizzera. La grande migrazione dei popoli barbari costituì una svolta capitale nella storia elvetica. All’unificazione del periodo romano seguirono i particolarismi etnici, linguistici e territoriali che restarono poi alla base della Confederazione. La regione del lago Lemano e il Giura furono occupati dai burgundi, che assimilarono rapidamente la cultura romano-cristiana, mentre sul territorio dell’attuale Svizzera tedesca si stanziarono gli alemanni, che conservarono più a lungo le loro tradizioni pagane e germaniche e furono evangelizzati solo a partire dal VII secolo. Inglobato nel regno franco, il territorio svizzero fu di nuovo diviso dai trattati che smembrarono l’impero carolingio; dall’888 l’area occidentale fece parte del regno dell’Alta Borgogna, per cadere sotto l’influenza dell’impero germanico alla morte di Rodolfo III di Borgogna (1032). A quest’epoca iniziarono ad affermarsi diverse dinastie, fra cui le più importanti furono quella degli Zähringen, che fondarono le città di Friburgo (1178) e di Berna (1191), quella dei conti di Lenzburg in Argovia e quella dei conti di Kyburg in Turgovia. Queste casate si estinsero fra il XII e il XIII secolo senza aver creato strutture di potere stabili e lasciando quindi l’attuale territorio svizzero sotto la triplice sfera d’influenza dell’impero, degli Asburgo (che miravano a estendere i loro possedimenti verso occidente) e, in misura minore, dei conti di Savoia (che si affacciavano sulle rive del lago Lemano).

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2. Dalla nascita della Confederazione alla Riforma

Il mutamento della congiuntura europea nei secoli XII e XIII e la conseguente importanza assunta dalle aree di transito delle Alpi centrali fece convergere molteplici interessi sulle vallate alpine, fino a quel momento marginali nel gioco delle grandi forze politiche. In queste regioni, relativamente poco toccate dal fenomeno della signoria fondiaria, si erano formate comunità rurali dedite soprattutto all’allevamento, i Waldstätten, formalmente sottomesse agli Asburgo, ma organizzate in modo autonomo e rette in forma assembleare (le Landsgemeinden). Nel corso del XIII secolo, di fronte al tentativo di penetrazione amministrativa e di dominazione signorile, esse avevano cercato la protezione dell’impero e ottenuto la libertà imperiale (Uri nel 1231, Schwyz nel 1240). Questa strategia sembrò vanificata dall’ascesa al trono imperiale di Rodolfo I d’Asburgo (1273), che estese i suoi domini diretti e minacciò l’autonomia delle vallate, sottoposte alla rigida amministrazione dei balivi. Alla morte di Rodolfo, i cantoni di Uri, Schwyz e Unterwalden, richiamandosi a una precedente antiqua confoederatio, rafforzarono la loro unione con il patto del 1° agosto 1291, le cui clausole prevedevano l’assistenza reciproca in caso di attacco, il rifiuto di giudici stranieri e il riconoscimento di un arbitrato degli eventuali conflitti. In base a una tradizione posteriore, consolidatasi soprattutto nella seconda metà del XVIII secolo, quest’alleanza – associata nella leggenda al giuramento nella pianura di Rütli e alla lotta eroica di Guglielmo Tell contro i balivi austriaci – viene considerata l’atto di nascita della Confederazione elvetica. La lega dei tre cantoni finì per rinsaldarsi nella lotta contro gli Asburgo. L’assalto all’abbazia di Einsiedeln da parte di Schwyz provocò una spedizione punitiva del duca Leopoldo I d’Asburgo, che si concluse con la vittoria dei confederati a Morgarten (15 novembre 1315). Il 9 dicembre dello stesso anno essi rinnovarono la loro alleanza con il patto di Brunnen, che rafforzava la comune difesa contro gli attacchi esterni. Nel 1316 Ludovico IV il Bavaro riconfermò ai cantoni tutti i precedenti diritti e privilegi, che però rimasero esposti alle oscillazioni della politica imperiale. La situazione di incertezza indusse ad allargare la rete di alleanze e ai cantoni originari iniziarono a unirsi le città, già solidamente legate a essi dall’interdipendenza fra la pastorizia alpina, l’agricoltura dell’altopiano e i mercati urbani: Lucerna (1332), Zurigo (1351), Glarus e Zug (1352), e Berna (1353). La Confederazione degli otto cantoni, ancora lungi dall’assomigliare a uno stato federale, non implicava una scelta di campo definitiva né escludeva alleanze separate con i Savoia o con gli stessi duchi d’Austria. Solo negli ultimi decenni del secolo il contrasto di interessi con gli Asburgo sfociò in crisi aperta e si risolse con la pesante sconfitta asburgica nella battaglia di Sempach (9 luglio 1386), seguita da quella di Näfels (1388), che costrinse l’Austria a sottoscrivere il trattato di pace del 1389 (rinnovato per vent’anni nel 1394 e per cinquant’anni nel 1412). Nel corso del XV secolo si produsse una generale regressione degli elementi aristocratico-feudali, a causa dell’estinzione e dell’indebitamento delle famiglie nobili, mentre si affermava il dinamismo delle città, interessate a garantirsi la sicurezza militare e il controllo dei nodi viari e delle attività economiche. Al tempo stesso venne portato avanti il processo di unificazione territoriale, basato sull’eliminazione dei residui centri di potere asburgici e sull’acquisizione dei territori ancora interposti fra i cantoni, e furono estesi i confini della Confederazione, da un lato mediante la politica delle alleanze, dall’altro mediante l’acquisto dei diritti signorili o la conquista militare. Nel quadro dell’espansione verso il confine del Reno e del lago di Costanza furono stipulate le alleanze con Appenzell (1411), San Gallo (1451), Sciaffusa (1454), Mulhouse (1466), così come la conquista dell’Argovia e della Turgovia, sottratte all’Austria rispettivamente nel 1415 e nel 1460: accanto agli alleati questi due territori formarono una nuova categoria, i paesi soggetti o baliaggi, la cui popolazione conservava le antiche libertà e franchigie, ma diventava suddita di un cantone o di tutta la Confederazione. Quest’ultima era retta da un’assemblea regolare, la dieta, le cui decisioni venivano prese all’unanimità eccetto che nelle questioni riguardanti i baliati comuni, per le quali era sufficiente la maggioranza. Il processo di espansione fece emergere tensioni e anche seri conflitti dove si intersecavano le sfere di interesse. L’espansione verso il Milanese per il controllo dei valichi da parte di Uri, che ottenne fra il 1403 e il 1450 il dominio della Val Leventina, provocò una crisi con Berna, appianata per via diplomatica. La spartizione della contea di Toggenburg (1436), crocevia delle strade verso l’Austria e i colli grigionesi, causò un ben più grave conflitto fra Schwyz e Zurigo che, rifiutandosi di accettare il giudizio arbitrale della Confederazione in favore di Schwyz, decise di allearsi con l’Austria. Gli altri sette cantoni sconfissero dapprima Zurigo (1443) e poi l’esercito francese chiamato in aiuto dall’imperatore Federico III d’Asburgo (1444). L’esito del conflitto, che si appianò solo nel 1450, fu da un lato il fallimento definitivo della politica di restaurazione degli Asburgo, dall’altro l’ingresso della Confederazione nell’orbita francese e il suo coinvolgimento sempre maggiore nella lotta fra le grandi potenze europee. La conclusione nel 1474 della pace perpetua con l’Austria, che rinunciò definitivamente a tutti i suoi diritti sui confederati, fu la premessa per l’inclusione della Confederazione a opera della Francia nell’alleanza contro il potente duca di Borgogna Carlo il Temerario, che minacciava le stesse città alleate di Basilea e Mulhouse. Principali artefici della disfatta borgognona nelle battaglie di Grandson e di Morat (1476), gli svizzeri consolidarono agli occhi dell’Europa la fama di fanti abili e resistenti conquistata nelle campagne contro l’Austria. A questo periodo risalgono i primi contratti stipulati con la Francia per la fornitura di soldati. Il servizio mercenario, spesso unica prospettiva nelle regioni montane dove la pastorizia offriva ben scarso impiego, divenne una soluzione lucrativa alla sovrappopolazione e all’eccesso di manodopera, soprattutto per gli stati cantonali che firmavano i contratti (le “capitolazioni”) e per le famiglie dirigenti che si occupavano del reclutamento e fornivano i quadri. In base alle capitolazioni concluse fra il 1474 e il 1792, si stima che il numero totale di soldati forniti dalla Svizzera in questi tre secoli ammonti a circa un milione, di cui i due terzi al servizio del re di Francia, che assicurò ai cantoni, in compenso dei suoi debiti, privilegi commerciali. Se la civiltà montana e pastorale, con le sue tradizioni di libertà e il suo valore militare, era stata l’elemento trainante nella formazione della Confederazione e nella lotta contro l’Austria, alla fine del XV secolo la situazione iniziò a mutare. All’indomani delle guerre borgognone fu sul punto di scoppiare una nuova guerra civile fra i cantoni urbani e i Waldstätten, che, per timore di vedersi sottomessi agli interessi cittadini, osteggiavano l’ingresso di Friburgo e Solothurn nella Confederazione. Nella dieta di Stans (1481) la rottura fu evitata: Friburgo e Solothurn furono ammesse nella Confederazione, ma con l’obbligo di rimanere neutrali in caso di conflitto fra i cantoni. Il definitivo distacco della Confederazione dall’area tedesca, pur senza implicare ancora una separazione formale dal Sacro Romano Impero, fu la conseguenza della guerra di Svevia (1499-1500), che vide ancora una volta gli svizzeri – così avevano iniziato a definirsi gli stessi confederati, riprendendo l’antico peggiorativo di “Schweizer” diffusosi nella guerra di Zurigo – sconfiggere le truppe imperiali e le città tedesche della lega sveva. I territori a sud del Reno si volsero definitivamente verso la Confederazione, cui aderirono Basilea e Sciaffusa nel 1501 e Appenzell nel 1513; nuove alleanze furono concluse con Mulhouse nel 1513 e Rottweil nel 1519, anno in cui si interruppe per circa tre secoli il processo di inclusione di nuovi cantoni o alleati. Pochi anni prima una pesante sconfitta nelle guerre d’Italia aveva posto fine alle mire espansionistiche dei confederati. In cambio di alcuni territori ticinesi gli svizzeri avevano appoggiato Luigi XII contro Milano, ma poiché questi esitava a mantenere le promesse, i tredici cantoni aderirono alla lega antifrancese promossa dal papa Giulio II. Dopo aver ottenuto il protettorato su Milano e aver vinto la battaglia di Novara (1513), i confederati, divisi al loro interno e incapaci di conservarsi il favore degli alleati, furono infine sconfitti dall’esercito francese nella battaglia di Marignano (13 settembre 1515). L’anno seguente firmarono la pace perpetua con la Francia, che versava loro ingenti indennità di guerra e permetteva di conservare i baliati ticinesi eccetto la Val d’Ossola. Questa sconfitta segnò il ritiro della Svizzera dalla politica delle grandi potenze e la sua adesione pratica al principio del non intervento, oltreché il declino della civiltà alpestre e il conseguente rovesciamento degli equilibri interni in favore dei cantoni urbani.

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3. La Riforma e l’antico regime

Gli esiti della sconfitta di Marignano furono resi duraturi dalla Riforma che portò alla scissione religiosa della Confederazione, provocando una paralisi politica che si protrasse per circa tre secoli. In seguito alla predicazione di Zwingli, nel 1525 la città di Zurigo aderì alla Riforma, ben presto seguita da Berna (1528), Basilea e Sciaffusa (1529), mentre i Waldstätten, insieme a Lucerna, Zug e Friburgo, rimasero fedeli al cattolicesimo. Incerti fra le due confessioni furono invece Glarus, Appenzell e Solothurn. La propaganda missionaria dei protestanti suscitò l’ostilità dei cattolici, soprattutto in relazione ai baliaggi comuni, dove Zwingli premeva per ottenere la libertà di predicazione, favorevole di fatto ai soli riformati. Osteggiata dai cattolici e da Berna, una prima guerra fu evitata grazie alla pace di Kappel del 1529. Nel frattempo l’antico nucleo della Confederazione aveva stretto accordi difensivi con l’impero, mentre i protestanti videro fallire il tentativo di un’alleanza militare con i luterani tedeschi. Per piegare la resistenza dei Waldstätten, che osteggiavano la predicazione evangelica, Zurigo ricorse al blocco economico, che spinse i cattolici ad attaccare, schiacciando l’esercito zurighese nella battaglia di Kappel (11 ottobre 1531), dove lo stesso Zwingli trovò la morte. La pace che ne seguì bloccò l’espansione della Riforma in Svizzera e sancì il dualismo religioso nei territori elvetici. Meno ricchi e popolati dei cantoni protestanti, i sette cantoni cattolici (Uri, Schwyz, Unterwalden, Lucerna, Zug, Solothurn e Friburgo) detenevano però la maggioranza nella dieta federale e riuscirono a impedire per molto tempo l’ingresso di nuovi membri nella Confederazione. I cantoni protestanti allargarono la rete di alleanze nei paesi romandi, dove la predicazione di Pierre Viret e di Guillaume Farel aveva diffuso la Riforma. Nelle città l’adesione alla nuova fede (Neuchâtel 1530, Ginevra 1536) si saldò con la lotta per l’emancipazione dai principi territoriali e fu sostenuta dall’intervento militare di Berna, che strappò ai Savoia i possedimenti del Vaud, trasformato in baliato bernese e convertito al protestantesimo. Di particolare importanza fu l’arrivo a Ginevra di Calvino nel 1536, che, non senza opposizioni interne, fece approvare dalle autorità e dalla cittadinanza l’attuazione del suo modello di riforma. Dotata di una professione di fede, di un nuovo ordinamento ecclesiastico e di un’università, Ginevra divenne in breve tempo la capitale spirituale del protestantesimo. Poiché l’ingresso nella Confederazione le era precluso dal veto dei cantoni cattolici, la città di Calvino trovò una strategia difensiva nell’alleanza con Berna e Zurigo e riuscì a conservare la propria indipendenza: nel 1602 fallì l’ultimo tentativo da parte dei Savoia di riconquistare Ginevra con le armi. Nelle regioni orientali e meridionali della Svizzera si affermò invece la Controriforma cattolica grazie all’azione dell’arcivescovo San Carlo Borromeo e dei missionari formatisi al Collegio elvetico di Milano. Rimasta neutrale durante la guerra dei Trent’anni, nel 1647 la Svizzera decise di istituire una milizia per la difesa del territorio confederale e alla pace di Vestfalia (1648) ottenne il definitivo riconoscimento dell’indipendenza dall’impero. Gli squilibri di ricchezze e di potere fra cantoni cattolici e riformati spinsero questi ultimi a riaprire i conflitti religiosi. Battute di nuovo nel 1656 a Villmergen, le truppe protestanti riuscirono infine a sconfiggere quelle cattoliche nella seconda battaglia di Villmergen (25 luglio 1712) e con la successiva pace di Aarau fu stabilita la parità confessionale nei baliati comuni. Queste due brevi guerre non valsero ad alterare in modo significativo il quadro generale di pace che caratterizzò la storia elvetica dei secoli XVII e XVIII, un periodo di grande sviluppo economico e di profonde trasformazioni sociali. Nel settore agricolo l’allevamento e la produzione casearia tendevano a prevalere sulla cerealicoltura; il settore tessile e l’orologeria si avviavano verso la prima fase della rivoluzione industriale, mentre il commercio e la finanza, soprattutto nella seconda metà del Settecento, iniziarono ad acquistare una funzione di primo piano nell’economia elvetica grazie alla presenza sempre più fitta di banchieri svizzeri nelle principali piazze europee e in particolare a Parigi. La prosperità materiale fu accompagnata dalla vivacità intellettuale delle élites cittadine e nel secolo dei lumi la Svizzera manifestò chiaramente la sua funzione mediatrice fra le principali culture europee. Al dinamismo economico e culturale fece però riscontro una rigidità politica e istituzionale. Dalla fine del XVII secolo era stato chiuso ovunque l’accesso alla cittadinanza, privilegio al tempo stesso politico ed economico, con una conseguente gerarchizzazione della società. Nei cantoni rurali, dove si era conservata la tradizione delle assemblee popolari, le cariche politiche erano di fatto diventate monopolio delle famiglie più ricche. Nelle città, rette o da un sistema corporativo (Zurigo, Sciaffusa, Basilea) o da un’assemblea sovrana (Berna, Lucerna, Friburgo e Solothurn), si erano formate oligarchie ristrette che controllavano i consigli di governo e ne escludevano gran parte degli stessi cittadini privilegiati. Il resto della popolazione, che costituiva la maggioranza, era privo dei diritti politici e viveva come semplice “nativo” o “abitante” nelle città, o come suddito nei territori soggetti. I movimenti e le rivolte, spesso guidati da dissidenti dell’oligarchia e vincolati a un’ottica particolaristica e locale, furono facilmente repressi, come il tentativo del maggiore Davel di sollevare contro Berna il Vaud nel 1723 o la congiura di Henzi del 1744. Solo a Ginevra nel corso del XVIII secolo la lotta per una redistribuzione del potere trascese i confini locali e la rivendicazione dell’eguaglianza politica si estese ai nativi e agli abitanti, fino a provocare l’intervento della Francia, della Sardegna e di Berna, che imposero con la forza una costituzione aristocratica (1782).

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4. Dalla Rivoluzione francese alla revisione della costituzione (1874)

L’epoca apertasi con la Rivoluzione francese significò per la Svizzera la lenta trasformazione dell’intricato groviglio di repubbliche, alleati e territori soggetti in uno stato federale centralizzato. Inizialmente solo a Basilea, nei Grigioni e a Ginevra si imposero regimi rivoluzionari (1792), mentre ovunque i movimenti popolari furono repressi dai governi. L’appello all’intervento francese lanciato dai membri del club elvetico di Parigi e dai giacobini locali trovò ascolto quando la presenza sul territorio svizzero divenne cruciale per la strategia politica e militare del Direttorio, desideroso di controllare i passi alpini. Dopo l’annessione della Valtellina alla repubblica cisalpina (1797), nel gennaio 1798 le truppe francesi appoggiarono la rivolta del Vaud, che si estese agli altri territori soggetti (Argovia, Turgovia, basso Vallese). Il 5 marzo fu occupata Berna e fra aprile e maggio fu spezzata la resistenza anche nella Svizzera centrale e orientale. Nel frattempo il rivoluzionario di Basilea Peter Ochs preparava su incarico del Direttorio la nuova costituzione della repubblica elvetica, trasformata in uno stato centralizzato sul modello francese (12 aprile 1798). L’instabilità interna e l’insicurezza esterna della repubblica, divenuta campo di battaglia nella seconda guerra di coalizione, così come la strenua resistenza all’opera di centralizzazione, spinsero Napoleone a riconoscere la specificità della tradizione elvetica e a ristabilire la sovranità cantonale. Con l’Atto di mediazione del 19 febbraio 1803, la Svizzera tornò a essere una Confederazione, formata dai tredici cantoni originari, in parte ridimensionati, e di sei nuovi cantoni (San Gallo, Grigioni, Argovia, Turgovia, Ticino e Vaud). Nonostante il blocco continentale disastroso per l’industria tessile e l’obbligo di fornire in permanenza quattro reggimenti all’imperatore, il decennio della Mediazione fu un periodo di pace interna e, nel complesso, l’età napoleonica rappresentò per la Svizzera il primo tentativo di dar vita a un vero stato federale. Con la sconfitta di Napoleone nel 1813, cadde anche in Svizzera il regime da questo voluto. Nei cantoni furono ristabiliti i vecchi governi oligarchici e come base costituzionale della Confederazione fu elaborato il Patto federale, che prevedeva il ripristino dell’antica dieta, dotata però di maggiori poteri in politica estera e militare. Nel marzo del 1815 il Patto ricevette il suggello del congresso di Vienna e fu approvato dai rappresentanti dei cantoni il 7 agosto 1815. Grazie all’influenza degli alleati, e in particolare dello zar Alessandro di Russia educato da Frédéric César de La Harpe, gli antichi baliati non furono restaurati e venne conservata la sovranità ai cantoni creati nel 1803, cui se ne aggiunsero tre nuovi, il Vallese, Neuchâtel e Ginevra. Il secondo trattato di Parigi (26 settembre 1815) riconobbe la neutralità perenne della Svizzera e l’inviolabilità del suo territorio. L’epoca della Restaurazione (secondo l’espressione del bernese Karl Ludwig von Haller) sancì il ritorno agli antichi privilegi patrizi e corporativi, ma fu ben presto attraversata da fermenti liberali. Sull’onda della rivoluzione di luglio in Francia, fra il 1830 e il 1831 in vari cantoni (Argovia, Turgovia, Lucerna, Solothurn, Zurigo, San Gallo, Friburgo, Vaud, Berna e Sciaffusa) i regimi aristocratici furono sostituiti da governi liberali, che introdussero l’eguaglianza giuridica, i diritti individuali e un allargamento del suffragio. In altri cantoni, invece, le spinte liberali furono represse o portarono, come a Basilea, alla guerra civile e alla scissione del cantone in due parti (1833). L’accoglienza sul territorio elvetico di rifugiati politici stranieri, come Giuseppe Mazzini, non mancò di fornire alle potenze europee guidate dal Metternich il pretesto per condurre una guerra diplomatica contro la Svizzera, in difesa dell’ordine conservatore del 1815. Nel frattempo, la frammentazione delle monete, dei pesi e delle misure e del sistema doganale era sempre più di intralcio allo sviluppo commerciale e alla grande ondata di industrializzazione iniziata negli anni Trenta. Ma la spinta decisiva a modificare in senso unitario la costituzione provenne dallo scontro sulla questione dei rapporti fra stato e chiesa, che il Patto federale aveva lasciato irrisolti. Entrati in crisi alla fine degli anni Trenta, i regimi liberali furono scavalcati a sinistra dai radicali che, accesi sostenitori dell’unità nazionale e di un diritto ecclesiastico unificato nel quadro di una rigida subordinazione della chiesa allo stato, aprirono un’offensiva contro vescovati e monasteri. Ne seguì un aspro scontro fra protestanti e cattolici, in particolare fra Argovia e Lucerna, dove era sorto un partito cattolico di massa e il governo conservatore decise di aprire ai gesuiti le istituzioni scolastiche. Dopo due spedizioni di “corpi franchi” anticlericali contro il governo di Lucerna, nel dicembre del 1845 i sette cantoni cattolici si unirono militarmente nella lega del Sonderbund. Una nuova ondata di movimenti radicali e democratici a Ginevra e San Gallo permise di creare una maggioranza ostile al Sonderbund nella Dieta federale, che ne decretò lo scioglimento e, di fronte al rifiuto dei cantoni cattolici, dichiarò loro guerra. La guerra civile che ne seguì, detta appunto guerra del Sonderbund, durò solo un mese (novembre 1847) e portò alla sconfitta dei cantoni cattolici, aprendo la strada alla revisione costituzionale. La nuova costituzione, approvata dal popolo svizzero il 12 settembre 1848, trasformò definitivamente la Svizzera in uno stato federale, dotato di un potere centrale stabile con sede a Berna. L’equilibrio fra potere centrale e cantonale fu affidato a un sistema bicamerale sul modello statunitense: il potere legislativo fu attribuito a un Consiglio nazionale, rappresentante la popolazione (un deputato ogni ventimila abitanti), e a un Consiglio degli stati, rappresentante i cantoni (due deputati per cantone e uno per i mezzi cantoni). Le due camere riunite eleggevano il potere esecutivo, il Consiglio federale, composto di sette membri posti ciascuno a capo di un dipartimento. A turno, uno dei consiglieri presiedeva annualmente l’esecutivo con il titolo di presidente della Confederazione. Alle autorità federali furono demandate la politica estera e militare, le poste, la dogana, la moneta, le finanze federali e la garanzia dei diritti e delle libertà individuali, nonché l’approvazione delle costituzioni cantonali. Un’ulteriore revisione costituzionale del 1874 rafforzò le competenze federali in materie militari, economiche e di politica sociale, istituì un Tribunale federale permanente con sede a Losanna e perfezionò l’istituto referendario per l’approvazione delle leggi federali e delle revisioni della costituzione. Pur ampliata nei dettagli, la costituzione del 1874 è rimasta fino a oggi la legge fondamentale della Confederazione, con la sua combinazione peculiare di democrazia diretta e rappresentativa.

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5. Dal 1874 ai giorni nostri

Il sistema elettorale maggioritario a suffragio universale maschile permise al polo liberal-radicale di conservare la maggioranza nei consigli fino al 1919. I decenni di fine secolo furono dominati dalla politica interna e dalle questioni economiche, sotto il segno dello sviluppo industriale e della rapida costruzione delle ferrovie, le cui linee più importanti furono nazionalizzate nel 1898. Nel 1877 furono poste le basi per una legislazione sociale unitaria, con la riduzione dell’orario giornaliero a 11 ore e il divieto di lavorare in fabbrica ai minori di 14 anni; nel 1912 fu promulgata una legge sull’assicurazione per le malattie e gli infortuni. Nel frattempo vennero formandosi le organizzazioni sindacali e i partiti politici di massa (1888, Partito socialista svizzero; 1894, Partito radical-democratico svizzero e Partito popolare-cattolico). La crisi agraria di fine secolo sancì il definitivo passaggio della Svizzera al rango di paese industrializzato, specializzato nella produzione di alta qualità per l’esportazione; ai settori tradizionali si aggiunsero l’industria chimica e alimentare. La Svizzera si mantenne neutrale nella prima guerra mondiale, ma fu lacerata dal contrasto fra la popolazione tedesca e quella romanda. Furono assai preziosi i suoi contributi umanitari, in particolare l’intervento della Croce Rossa. Ai conflitti sociali, inaspriti dalla crisi economica e culminati con lo sciopero generale del novembre 1918, il governo liberale rispose con una politica di riforme, introducendo la settimana lavorativa di 48 ore e il sistema proporzionale nelle elezioni federali. Nel 1937 si giunse a uno storico accordo fra imprenditori e lavoratori dell’industria metallurgica e orologiera, che sancì l’obbligo del ricorso a un Tribunale arbitrale per la composizione dei conflitti e inaugurò l’era della “pace sociale”. Nel corso della guerra d’Etiopia, la Svizzera, sotto la guida di Giuseppe Motta, prese le distanze dalla Società delle Nazioni, cui aveva aderito nel 1920 con la clausola di partecipare solo alle sanzioni economiche, e nel 1938 decise di ritornare alla piena neutralità di fronte ai segnali del conflitto imminente. Dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale, crebbe il timore di un’invasione da parte delle potenze dell’Asse e mentre il generale Henri Guisan divenne il simbolo della resistenza a oltranza, il presidente Marcel Pilet-Golaz sembrò favorevole al nazionalsocialismo. Nonostante l’autarchia alimentare raggiunta con il piano ideato da Friedrich Traugott Wahlen, la Svizzera dipendeva dalla Germania per il rifornimento di materie prime; in cambio le sue industrie lavoravano per le potenze dell’Asse, le sue linee ferroviarie alpine servivano al trasporto di materiali fra Germania e Italia e le sue banche accoglievano i depositi nazisti. La neutralità svizzera fu favorevole agli alleati solo indirettamente, tramite le organizzazioni di soccorso e l’accoglienza di rifugiati militari o civili, ridotta drasticamente nel 1944-45. Nel secondo dopoguerra la politica estera svizzera, sotto la direzione di Max Petitpierre, fu condotta all’insegna della formula “neutralità e solidarietà”, che precluse l’ingresso nell’ONU, compensato dall’adesione alle organizzazioni di cooperazione umanitaria e commerciale, come la FAO (1946), l’OECE (1948), l’UNESCO (1949), l’EFTA (1960) e il GATT (1958). Uscita indenne dal periodo bellico, l’economia svizzera conobbe una crescita senza precedenti, incentrata sullo sviluppo tecnologico, sull’espansione del settore bancario e assicurativo grazie al massiccio afflusso di capitali internazionali e sull’impiego di manodopera straniera. Tale crescita fu favorita dalla compattezza e dalla stabilità delle forze politiche, che a partire dal 1959 diedero vita a un governo di coalizione, ripartendo i seggi governativi in base al principio di proporzionalità: 2 ai radicali, 2 ai socialisti, 2 ai democratico-cristiani e 1 all’Unione del centro (partito agrario). Al di là delle crisi congiunturali, come quella degli anni Settanta, la stessa intensità del ritmo produttivo non mancò di destare preoccupazioni per l’ampiezza degli effetti indotti, fra i quali l’elevata presenza straniera in termini di capitali, di acquisto di terre, soprattutto nelle località turistiche, e di immigrazione, che nel 1970 portò il numero di residenti stranieri al 15,9% della popolazione globale. Non si fece attendere la reazione xenofoba, culminata nel giugno dello stesso anno nel referendum Schwarzenbach, che spinse il governo a prendere misure restrittive, le quali peraltro non valsero a ridimensionare il problema: dopo una leggera flessione negli anni Ottanta, la percentuale di stranieri è salita al 17,1% nel 1991, mentre due referendum, rispettivamente del 1982 e del 1987, hanno respinto la legge per il miglioramento delle condizioni dei lavoratori stranieri e limitato il diritto di asilo. Solo nel 1971 è passato il referendum per l’estensione del diritto di voto alle donne nelle elezioni federali, dopo che negli anni precedenti era stato introdotto in diversi cantoni. Nel 1978 è stato fondato il 23° cantone, quello del Giura, separatosi da Berna. Mentre la crisi economica degli anni Novanta ha portato la disoccupazione al 3% della popolazione attiva e ha rimesso in discussione la pace sociale e l’assistenza pubblica, due sono sostanzialmente i problemi della Svizzera attuale: la democrazia interna e l’integrazione europea. Nonostante gli scandali, dal caso Elisabeth Kopp all’Irangate, e le polemiche sul riciclaggio del denaro sporco, la corruzione e il traffico d’armi, nessun correttivo sufficiente è stato introdotto per limitare l’intreccio fra affari e politica e la possibilità di cumulare cariche politiche e finanziarie, mentre cresce il disagio giovanile e la disaffezione verso le istituzioni. Il timore di un definitivo svuotamento della sovranità popolare e della democrazia diretta concorre a spiegare la persistente difesa da parte degli svizzeri dell’autonomia nazionale, anche contro le indicazioni dei partiti di governo. Dopo che nel 1986 era stato respinto l’ingresso nell’ONU, l’adesione al Fondo Monetario Internazionale e alla Banca mondiale nel maggio 1992 sembrò segnare una svolta, subito ridimensionata dal rifiuto dello spazio economico europeo nel dicembre dello stesso anno. Un’ulteriore ipoteca all’ingresso nell’Unione europea, fortemente voluto dal governo, è stata posta dal referendum del febbraio 1994, che, facendo convergere un raggruppamento eterogeneo di ambientalisti, forze di sinistra, conservatori e antieuropeisti, ha accolto l’“iniziativa delle Alpi”, vietando, a partire dal 2005, il traffico su strada per il trasporto di merci da confine a confine. Se non che nel 1998 tra il governo svizzero e l’UE venne definito un accordo che, soggetto alla ratifica di un referendum popolare nel 2001, prevedeva una forte intensificazione dei rapporti reciproci. Dopo una inchiesta durata due anni, nel 1998 le maggiori banche svizzere convennero di pagare 1 miliardo e 200 milioni di dollari a risarcimento dei fondi depositati dagli ebrei durante la seconda guerra mondiale e non riscossi. Nel 1999 la socialista Ruth Dreyfuss diventò la prima presidente donna della Confederazione. Con un referendum tenutosi nel marzo del 2002 gli elettori approvarono l’adesione della Svizzera alle Nazioni Unite e nel 2005 l’adesione al Trattato di Schengen.
Negli anni seguenti la scena politica interna, perlopiù dominata dal partito dell’Unione democratica di centro (SVP), orientato su posizioni conservatrici, continuò a essere animato dallo scontro tra i sostenitori dell’integrazione europea e i suoi oppositori. Nelle ultime elezioni generali del 2011, con la riduzione dei consensi tradizionalmente goduti dall’SVP e la concomitante affermazione dei verdi liberali e dei centristi, si registrò un sensibile spostamento dell’elettorato verso posizioni più moderate.

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