Partito socialista italiano

Formazione politica di sinistra, fondata a Genova nel 1892, col nome originario di Partito dei lavoratori italiani, trasformato in PSI nel 1895. Fin dalle origini fu un partito della classe operaia, ma a direzione borghese, che prese nettamente le distanze dall’anarchismo e dal radicalismo che avevano segnato le prime esperienze del socialismo in Italia nell’epoca della Prima Internazionale e in quella immediatamente successiva. I suoi primi dirigenti furono intellettuali di estrazione borghese come Filippo Turati e Antonio Labriola. Non ebbe carattere rivoluzionario come il Partito socialista anarchico rivoluzionario, né combattivo come il Partito operaio italiano: l’influenza di personalità come Enrico Bignami o di Osvaldo Gnocchi-Viani (fondatore a Milano della prima Camera del lavoro italiana) provocò la prevalenza nel PSI di una tendenza riformista e legalitaria. Al suo interno confluirono, però, anche gruppi e correnti più radicali, causando una forte dialettica interna tra riformisti e rivoluzionari, o, per usare una terminologia diffusa in quell’epoca, tra minimalisti e massimalisti. Il PSI fu il primo partito moderno italiano, per la chiarezza dell’ideologia e del programma (ispirati al marxismo, senza sostanziali mutamenti fino al 1919) e per la complessa struttura organizzativa, articolata, secondo il modello del Partito socialdemocratico tedesco. Il partito, cui si accedeva con regolari iscrizioni (dapprima collettive, dal 1895 individuali) si articolava in organi centrali come la segreteria e la direzione, elette periodicamente dal congresso nazionale, e in organi locali come le federazioni provinciali e le sezioni territoriali, con assemblee periodiche degli iscritti. Il PSI, la cui voce dal 1896 fu il giornale “Avanti!”, era fiancheggiato da organismi collaterali, come i sindacati, le Camere del lavoro e le cooperative, diretti quasi sempre da socialisti di corrente riformista. Fin dalla nascita si batté, in collaborazione con i partiti democratici della borghesia, contro l’autoritarismo crispino. Nel 1899 socialisti, radicali e repubblicani si trovarono uniti nella pratica dell’ostruzionismo parlamentare per bloccare il liberticida disegno di legge proposto da Pelloux. L’efficiente organizzazione del partito consentì subito buoni risultati elettorali, ma fu soprattutto il suffragio universale maschile (1912-18) a proporre il PSI come grande forza politica nazionale, con più di un milione di voti. La dialettica interna fu aspra nel nuovo secolo, quando, dopo il fallito tentativo giolittiano di coinvolgere il riformista Turati nel governo (1903), al congresso di Bologna prevalse la corrente di sinistra guidata da Enrico Ferri. La necessità di conservare la compattezza del partito, pur nella dialettica delle posizioni, causò l’espulsione delle correnti più lontane dalla linea di volta in volta dominante. Nel 1908, a Firenze, la vittoria congressuale dei riformisti portò all’espulsione dei sindacalisti rivoluzionari (Arturo Labriola), esaltatori della violenza e dello sciopero generale come strumenti privilegiati di lotta. Il trionfo massimalista (con Benito Mussolini che divenne direttore dell’“Avanti”) nel congresso di Reggio Emilia del 1912 provocò, invece, l’espulsione dei riformisti di destra (Leonida Bissolati, Ivanoe Bonomi), che, contro la linea del partito, avevano appoggiato la guerra di Libia e volevano che il partito entrasse nella coalizione governativa giolittiana. Bonomi e Bissolati fondarono il Partito socialista riformista, che dopo la guerra mondiale entrò nella maggioranza governativa, ma non ebbe carattere di massa e presto scomparve di scena. Nel 1914 il PSI diresse la “settimana rossa”. Durante la prima guerra mondiale, coerentemente con il proprio internazionalismo, fu neutralista, sostenendo la posizione di Costantino Lazzari, il quale aveva invitato a “non aderire, né sabotare”. Benito Mussolini, che si era convertito all’interventismo, fu espulso dal partito. Il dopoguerra vide una crescita impetuosa del movimento socialista, col superamento di 200.000 iscritti al partito, due milioni di soci alle cooperative rosse, più di due milioni di iscritti alla CGL e 156 deputati al parlamento. Nel “biennio rosso” (1919-20), quando raggiunsero il culmine gli scioperi, le agitazioni e le occupazioni di fabbriche e terre, il PSI fu, però, immobilizzato dalle divisioni interne e dal contrasto tra l’egemonia massimalista nel partito e quella riformista nel sindacato e nelle cooperative. Nel 1921, al congresso di Livorno, il gruppo torinese degli ordinovisti (Antonio Gramsci) e quello napoletano di Amadeo Bordiga si staccarono dal PSI, il cui massimalismo consideravano solamente verbale e non supportato da una coerente politica rivoluzionaria, e costituirono il Partito comunista d’Italia. Nel 1922, per opposizione alla linea massimalista di Giacinto Menotti Serrati, contraria alla collaborazione con i partiti borghesi nella lotta contro il fascismo, i riformisti (Turati, Treves, Matteotti, Modigliani) uscirono dal PSI e fondarono il Partito socialista unitario (poi Partito socialista dei lavoratori italiani). Nel 1923 fu la volta dei massimalisti fusionisti (Serrati, Di Vittorio, Li Causi), i quali volevano ricucire la scissione con i comunisti e conservare i contatti con la Terza Internazionale di Mosca, a essere espulsi dal PSI e a confluire nel PCd’I. Le divisioni della sinistra, che non si ricompattò nemmeno dopo il delitto Matteotti (1924), contribuirono all’affermazione incontrastata del fascismo in Italia. Il regime fascista costrinse le opposizioni all’esilio e fu a Parigi che nel 1927 i socialisti aderirono alla Concentrazione antifascista e che nel 1930 il PSI e il PSLI si riunificarono. Negli anni Trenta nel PSI confluirono anche numerosi trockijsti (Tresso) espulsi dal PCI, sempre più ligio alle direttive di Stalin. Essi contribuirono a riportare il partito su posizioni rivoluzionarie: il congresso parigino del 1937 affermò che la caduta del fascismo avrebbe dovuto portare l’Italia verso la “repubblica socialista”. Nel 1936 il PSI, che nel 1934 aveva firmato con il PCI un patto di unità di azione, partecipò alla guerra civile spagnola, insieme con comunisti, giellisti (Giustizia e Libertà) e repubblicani. I rapporti con i comunisti si inasprirono temporaneamente nel 1939, quando si venne a conoscenza del patto Ribbentrop-Molotov tra Stalin e il governo nazista, ma si riaggiustarono quando l’Unione Sovietica, aggredita dai tedeschi nel 1941, divenne una delle potenze determinanti nella guerra contro il regime di Hitler. In Italia il PSI si ricostituì nel 1942 e nel 1943 la fusione con i riformisti (Giuseppe Romita) e con il Movimento di unità proletaria di Lelio Basso diede vita al Partito socialista italiano di unità proletaria (PSIUP), sotto la segreteria di Pietro Nenni. Il PSIUP fece parte del CLN e contribuì alla resistenza partigiana con le “brigate Matteotti”. Dopo la caduta del fascismo, insieme con il PCI e con il Partito d’azione, partecipò al governo Bonomi, rinunciando alla pregiudiziale repubblicana in nome dell’unità nazionale nella lotta contro il nazifascismo. Finita la guerra, il PSIUP, che aveva 700.000 iscritti, nelle elezioni del 1946 risultò il primo partito della sinistra con quasi cinque milioni di voti, cioè il 20,7% dell’elettorato (contro il 19% del PCI). Nel partito, che rinnovò fino al 1956 il patto di unità d’azione con il PCI, pur conservando la propria autonomia, si svilupparono diverse correnti, come i fusionisti (Nenni, Basso, Morandi, disponibili alla riunificazione con i comunisti), “Iniziativa socialista” (Zagari, Vassalli, Libertini), “Critica sociale” (Mondolfo, Faravelli). La corrente di Giuseppe Saragat, contraria a continuare l’unità d’azione con il PCI, si staccò dal partito e nel 1947 fondò il Partito socialista dei lavoratori italiani, poi Partito socialista democratico italiano. Sempre nel 1947 confluì nel partito, che dopo la scissione saragattiana aveva ripreso l’antico nome di Partito socialista italiano, la maggioranza del disciolto Partito d’azione (Foa, Lombardi, De Martino). Alle politiche del 1948, contrassegnate da un’alta tensione ideologica, PSI e PCI si presentarono uniti nel Fronte popolare, che registrò una netta sconfitta: 31% dei voti, contro la somma del 40% raggiunta separatamente dai due partiti nel 1946. Nel 1949 la corrente romitiana abbandonò il PSI e, con alcuni fuoriusciti del PSLI, fondò il Partito socialista unitario, che nel 1952 si fuse con il PSLI dando vita al Partito socialista democratico italiano. Nel 1953 il PSI si batté, insieme con il PCI, contro la “legge truffa”, la quale prevedeva un premio di maggioranza per la lista che avesse conquistato la maggioranza assoluta dei voti. Nel 1956 gli eventi internazionali alterarono i rapporti tra PSI e PCI: la denuncia dei crimini di Stalin al XX congresso del PCUS e l’intervento armato dell’URSS in Ungheria convinsero i socialisti ad allontanarsi da ogni residuo di filosovietismo e ad allentare l’alleanza con il PCI, che stentava a sciogliere i propri legami con Mosca. Di conseguenza, il PSI cominciò a pensare a nuovi rapporti “storici” con i cattolici e con la Democrazia cristiana. Questa svolta consentì l’ingresso nel partito, nel 1957, di parte di Unità popolare (Partito repubblicano italiano) e, nel 1959, del Movimento di unità e autonomia socialista (Matteo Matteotti, Zagari, Faravelli), una frangia di sinistra uscita nello stesso anno dal PSDI. Negli anni Sessanta, quando nella DC maturò l’apertura a sinistra, si ebbe l’esperienza del centrosinistra, che il PSI aveva cercato nella speranza di imprimere una svolta riformistica agli immobilistici governi democristiani. L’ingresso dei socialisti nella “stanza dei bottoni”, però, salvo qualche riforma (nazionalizzazione dell’ENEL, istituzione della scuola media unica e obbligatoria), non produsse i risultati attesi. L’ingresso del PSI nell’area di governo provocò la scissione di una corrente di sinistra, che nel 1964 fondò il Partito socialista italiano di unità proletaria. La posizione sempre più moderata del partito consentì un riavvicinamento con il PSDI, fino alla fusione, avvenuta nel 1966, nel Partito socialista unificato, sotto la segreteria di Giacomo Mancini. Dopo la sconfitta elettorale del 1968 (14,5%, cioè all’incirca i voti che il PSI aveva ottenuto da solo nelle precedenti elezioni), i due partiti si separarono nuovamente (1969). Ciò non salvò il PSI da una crisi di identità ed elettorale (negli anni Settanta scese sotto il 10%), dovuta essenzialmente al fallimento del centrosinistra. Di questa crisi prese atto nel 1976 Bettino Craxi, il quale, nel Comitato Centrale tenutosi all’hotel Midas di Roma, propose un “nuovo corso”, che realizzò diventando segretario del partito al posto di Francesco De Martino. La svolta, un aspetto rilevante della quale fu il ricambio generazionale dei dirigenti (si affermarono infatti i “quarantenni”), cercò di fare del PSI la forza centrale di una sinistra italiana riformista e occidentale. A tal fine era essenziale riequilibrare anche elettoralmente i rapporti con il PCI, divaricatisi negli anni Settanta fino a un rapporto di 1 a 3 a vantaggio dei comunisti. Il “craxismo” si fondò sull’acuta percezione dei mutamenti sociali che la ristrutturazione economica stava producendo in Italia, sull’abbandono di ogni residuo di ideologia marxista-leninista in nome del riformismo occidentale e sull’uso sapiente dei mass media, che portò a una vera e propria spettacolarizzazione della politica. Nei contenuti, il nuovo corso socialista si fece portavoce di numerose battaglie per i diritti civili e per difendere il “garantismo” anche nei momenti di emergenza terroristica e, negli anni Ottanta, sostenne l’esigenza di garantire alla nazione la “governabilità” necessaria alla ripresa economica e sociale. Per questo Craxi, sconfitta la sinistra del partito, che voleva continuare la politica di solidarietà nazionale estesa al PCI, ripropose l’alleanza con la DC, nel quadro però di mutati rapporti di forza, consentiti dalla presenza di un influente “polo laico” a guida socialista. In direzione della formazione del polo laico, il PSI inaugurò nel 1980 un patto di reciproca consultazione con il PSDI di Pietro Longo. La strategia di Bettino Craxi culminò nella conquista nel 1983 della presidenza del consiglio di un governo di “pentapartito”, formula che allargava al PLI la vecchia maggioranza di centrosinistra. I due governi di Craxi (che come presidente del consiglio fu spesso accusato di “decisionismo” per aver rafforzato l’esecutivo a scapito del parlamento) si rivelarono capaci di garantire per alcuni anni (fino al 1987) la stabilità politica tanto richiesta dal paese, nonostante la rivalità spesso litigiosa tra PSI e DC, entrambi intenzionati a essere il perno della coalizione. Il PSI sfruttò abilmente la “rendita di posizione”, dovuta alla sua collocazione intermedia tra i due maggiori partiti italiani: la possibilità di allearsi con l’uno o con l’altro nelle amministrazioni locali e la minaccia di rivolgersi all’alternativa di sinistra a livello centrale, consentirono al partito di Craxi di avere un peso reale nella politica italiana notevolmente superiore a quello della sua effettiva rilevanza elettorale (che raggiunse il 15% alla fine degli anni Ottanta). Il riequilibrio elettorale a sinistra si attuò, anche a causa della crisi del PCI, senza però raggiungere la parità. Accanto a indubbi successi, il craxismo favorì anche un aumento dei fenomeni di corruzione e di clientelismo. L’inizio del processo contro Tangentopoli, nel 1992, che evidenziò le dimensioni del fenomeno della corruzione politica, travolse i partiti coinvolti e particolarmente il PSI di Craxi, ritenuto dall’opinione pubblica uno dei principali responsabili della degenerazione del costume politico nell’ultimo decennio. Personalmente coinvolto, Craxi dovette dimettersi dalla segreteria del partito. I segretari successivi, Giorgio Benvenuto e poi Ottaviano Del Turco, si trovarono di fronte al difficile compito di rilanciare l’immagine del partito (crollato nelle amministrative parziali del 1993) e di rinnovarne profondamente il programma e l’organizzazione interna, fortemente segnate dal periodo della gestione craxiana. Nel 1994, nelle prime elezioni politiche celebrate con il nuovo sistema elettorale semimaggioritario, il PSI si schierò con il fronte progressista, che fu sconfitto dalle liste dei partiti di centrodestra. Il PSI, che ottenne solo il 2% dei voti, fu escluso dal recupero proporzionale ed ebbe 15 eletti con il sistema uninominale, peraltro insufficienti per costituire un gruppo parlamentare (per il quale occorrono almeno 20 deputati). Nello stesso anno il partito si sciolse, dando inizio alla diaspora dei suoi affiliati, molti dei quali confluirono in Forza Italia e nei Democratici di Sinistra. Gli subentrarono successivamente formazioni politiche minori che tentarono di riprenderne e valorizzarne la grande eredità. Tra queste assunsero un certo ruolo i Socialisti democratici italiani (SDI) e il Nuovo PSI di Bobo Craxi. Nel 2007, su iniziativa di Enrico Boselli, leader dello SDI, si tenne una Costituente socialista con l’obiettivo di riunificare le forze laiche e democratiche di orientamento socialista che non si riconoscevano nel progetto politico del Partito democratico (PD). Nell’ottobre del 2009 il partito riprese la denominazione storica di Partito socialista italiano sotto la guida di Riccardo Nencini.