giacobinismo e neogiacobinismo

Il termine è da collegarsi ai rappresentanti del Terzo Stato che, all’inizio della Rivoluzione francese – già membri del club breton poi denominato “Società degli amici della Costituzione” – nel novembre del 1789 presero a riunirsi a Parigi nel convento dei domenicani (jacobins) e vennero perciò chiamati giacobini. Nel 1791 il club dei giacobini si scisse tra un’ala moderata e un’ala dichiaratamente repubblicana. L’indirizzo politico di questa seconda tendenza diede luogo al “giacobinismo” vero e proprio, che trovò la sua maturazione politico-ideologica tra il giugno del 1793 e il luglio del 1794, quando i giacobini esercitarono la dittatura, alla quale pose fine l’avvento dei termidoriani. I suoi massimi esponenti furono Maximilien Robespierre (1758-94) e Louis-Antoine de Saint-Just (1767-94). I giacobini si dotarono di una propria organizzazione, sorretta da una specifica ideologia; tanto che nel giacobinismo si può trovare, in forma embrionale, un prototipo del moderno partito politico. Il giacobinismo aveva un’ideologia democratica, espressa dalla costituzione varata nel 1793, che prevedeva il suffragio universale maschile e il voto diretto, ma la cui applicazione venne rinviata a guerra finita. Se non che esso si caratterizzò anzitutto non già per le aspirazioni democratiche, bensì per le pratiche autoritarie con cui affrontò le condizioni di eccezionalità create dalla lotta contro i nemici interni e quelli esterni, nel contesto dell’incombente minaccia controrivoluzionaria. I giacobini al potere agirono come una forza dittatoriale di minoranza, che, decisa a creare una “volontà unica” del popolo da essa interpretata, faceva leva sugli strumenti di un forte centralismo per mobilitare la propria base e combattere i nemici usando sistematicamente e su larga scala l’arma del Terrore. Il giacobinismo, su cui si faceva fortemente sentire l’influenza di Rousseau, era inteso a creare i presupposti di una repubblica fondata ideologicamente sui valori di un’austera “virtù repubblicana” e della religione civile, e, per quanto atteneva ai rapporti economico-sociali, sulla diffusione della proprietà fecondata dal lavoro e sull’eliminazione degli eccessi della ricchezza e della povertà. Se combatterono senza quartiere gli aristocratici, i profittatori, i controrivoluzionari, i nemici della repubblica e i suoi troppo tiepidi sostenitori, i giacobini repressero del pari violentemente le tendenze estremiste in campo sociale, come gli “arrabbiati” di Jacques Roux e gli “esagerati” di Jacques Hébert. Pur basandosi sull’appoggio determinante dei sanculotti, in cui erano vive le tendenze di radicalismo economico-sociale ostili alla proprietà, i giacobini non furono comunisti. Il soggetto-simbolo primario su cui essi fondavano la propria legittimazione non era la “nazione”, bensì il “popolo”. Per il giacobinismo l’implacabile guerra intrapresa all’interno contro la “cospirazione” aristocratica e controrivoluzionaria si saldava intimamente su scala internazionale con quella condotta all’esterno; così da legare in maniera indissolubile la lotta del popolo francese per la sua liberazione ed emancipazione a quella di tutti i popoli in una “fraternità” internazionalistica. Il giacobinismo storico ha finito per assumere nella cultura storiografica e politica un carattere paradigmatico; così da indurre a caratterizzare, nell’ambito delle correnti della sinistra, come “neogiacobinismo” un atteggiamento rivoluzionario intransigente dominato da una concezione elitaria e centralistica delle istituzioni e della direzione delle masse e finalizzato a un potere dittatoriale che non esita a far uso del terrore contro i propri nemici. Quali tipici neogiacobini furono ad esempio indicati i blanquisti, vale a dire i seguaci del rivoluzionario francese A. Blanqui. Il dibattito sul neogiacobinismo si sviluppò intensamente tra i marxisti russi in relazione alla genesi del bolscevismo nei primi anni del Novecento e nelle file del movimento operaio internazionale dopo la rivoluzione di ottobre (1917). Mentre V.I. Lenin tra il 1902 e il 1904 sostenne che il giacobinismo costituiva un modello rivoluzionario positivo, che i marxisti dovevano riprendere e sviluppare; Rosa Luxemburg e Trockij sostennero che esso, al contrario, era un modello rivoluzionario borghese da respingere in quanto autoritario. Dopo il 1917 diventò corrente il considerare i bolscevichi come dei neogiacobini, ancora una volta con opposte valenze. Emblematica fu la controversia del 1919-20 tra Trockij, convertitosi al bolscevismo e divenuto uno dei suoi massimi esponenti, e K. Kautsky sul giudizio da darsi sul terrore come arma della rivoluzione proletaria. Per il primo il terrore messo in atto dai giacobini rappresentava modello positivo, per il secondo era indice di una degenerazione inaccettabile. In Italia, il leader comunista A. Gramsci affermò nel 1921 che i comunisti erano i continuatori delle tradizioni dei giacobini. Dal canto suo uno dei maggiori storici della Rivoluzione francese, A. Mathiez nel 1920 stabilì in termini simpatetici un’esplicita analogia di ruolo storico tra giacobinismo e bolscevismo. Per contro A. Cochin nel 1921 vide nello “spirito del giacobinismo” la matrice dell’astrattismo ideologico rivoluzionario moderno e di una violenza che non conosce limiti. E J.L. Talmon nel 1952 affermò che nel giacobinismo, radicato nel pensiero di Rousseau, erano da individuarsi i presupposti della “democrazia totalitaria” e in particolare del totalitarismo comunista. [Massimo L. Salvadori]