consociativismo

Il termine “consociativismo” o “democrazia consociativa”, è stato coniato alla fine degli anni Sessanta del XX secolo dal politologo Arend Lijphart per designare, in contrapposizione al modello maggioritario di democrazia che prevede il governo da parte della maggioranza semplice e l’esclusione dal potere della minoranza relegata al ruolo di opposizione, un modello basato sulla condivisione del potere tra tutti i maggiori partiti attraverso la formazione di ampie coalizioni. Alla base della distinzione sta la teoria secondo la quale il primo modello si rivelerebbe particolarmente adatto a società relativamente omogenee e in cui i partiti non sono politicamente molto distanti, mentre il secondo sarebbe più efficace in società plurali, divise cioè nettamente da fratture religiose, ideologiche, culturali, etniche o razziali, all’interno delle quali il modello maggioritario porterebbe alla dittatura della maggioranza e non alla democrazia. Esecutivi a carattere consociativo si sono avuti in Italia in momenti di crisi particolarmente gravi, come nel periodo 1943-47, per far fronte ai problemi posti dalla caduta del regime fascista prima e poi dalla ricostituzione del quadro democratico, e nel 1976-79 dinanzi alla sfida del terrorismo. Nel corso degli anni Novanta e con la crisi della cosiddetta “prima Repubblica”, il termine consociativismo ha assunto nella polemica politica italiana connotazioni negative. Esso è stato usato cioè per denunciare una prassi di governo caratterizzata da un patteggiamento sotterraneo, costante e compromissorio tra partiti di governo e partiti di opposizione, giudicato come una deviazione dei principi costituzionali e fonte di corruzione.