proprietà

  1. Definizioni
  2. Evoluzione storico-sociale dell’istituto della proprietà
1. Definizioni

Il termine “proprietà” deriva all’aggettivo latino proprius, che implica etimologicamente il concetto di “ciò che è proprio di uno specifico individuo o oggetto”, ovvero di ciò che appartiene in modo peculiare ed esclusivo a qualcosa o a qualcuno. Esso individua un istituto fondamentale per l’esistenza della società (specie per quella borghese dominante nella modernità), definibile in vario modo in funzione delle discipline che se ne occupano – in particolare il diritto, l’economia, la scienza politica, la sociologia e la storia – e che ha conosciuto, nel tempo, una profonda evoluzione. Se, infatti, secondo il diritto vigente nelle società liberaldemocratiche, a partire dalla codificazione postrivoluzionaria ottocentesca, la proprietà si può qualificare genericamente come il diritto individuale e sociale di godere e di disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo nell’osservanza dei limiti e dei vincoli imposti dalla legge, tale definizione non dice molto sia per ciò che riguarda le forme di proprietà che caratterizzarono civiltà ed epoche precedenti o differenti, sia per ciò che riguarda il nesso stretto e ineludibile che sempre si pose tra istituto della proprietà e modo di produzione dei beni nelle particolari formazioni socioeconomiche avvicendatesi nel corso dei secoli. Considerata sul piano dei soggetti proprietari, la proprietà può essere “individuale” o “collettiva” (e, nel caso, “familiare”, “sociale”, ecc.), “privata” o “pubblica”; sotto il profilo dell’oggetto posseduto, si ha la proprietà dei beni destinati al proprio consumo e la proprietà dei mezzi di produzione (e, quindi, “agricola”, “fondiaria”, “mobiliare” e “immobiliare”, “industriale”, “finanziaria”, ecc.); vista nel suo modo d’essere, inoltre, occorre citare almeno la proprietà “divisa” e quella “indivisa”.

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2. Evoluzione storico-sociale dell’istituto della proprietà

L’istituzione della proprietà segna il trapasso dall’era selvaggia a quella caratterizzata dall’appropriazione umana della natura tramite il lavoro. A prescindere dalle condanne o dalle valutazioni positive in termini morali, questo tratto fu messo adeguatamente in luce da pensatori come Locke, per il quale la proprietà valeva come giusta appropriazione individuale mediante la somministrazione di valore aggiunto alle cose inanimate grazie alla quota di lavoro personale necessaria alla loro trasformazione, o come Rousseau, che enfaticamente indicava nella prima recinzione di terre la nascita della proprietà e, con essa, della società civile e dell’ineguaglianza. Storicamente, la prima forma di proprietà – quella fondiaria – non fu individuale, ma comune e indivisa per tribù o città, tipica del modo di riproduzione delle antiche società gentilizie stanziate nelle regioni mesopotamiche (ma perpetuatasi ancora nell’evo cristiano, per esempio, fra i germani). Gli appezzamenti terrieri venivano soltanto affidati per rotazione annuale alle famiglie. I primi sviluppi in direzione della proprietà privata e individuale, si manifestarono embrionalmente nelle poleis greche e, con pienezza di elaborazione giuridica, nella civiltà romana. Qui si ebbero in successione cronologica, ma con significative sovrapposizioni, tre diverse specie di proprietà privata: a) la proprietà civile o “quiritaria”, enucleatasi tramite un processo di privatizzazione delle antiche terre romane possedute in comune (la proprietà fondiaria comprendeva anche quella degli animali, degli schiavi e degli attrezzi); b) la proprietà “provinciale” (ossia delle terre provinciali); la proprietà “pretoria”, istituita cioè dal pretore allo scopo di sancire avvenuti cambiamenti di proprietà e di garantire la liceità dei traffici. In epoca imperiale, sotto Giustiniano, tali distinzioni furono abolite e fu istituita un’unica forma di proprietà caratterizzante lo status del cittadino romano. Con la caduta dell’impero romano e il venir meno della sua codificazione civile, nell’epoca dei regni romano-barbarici e del feudalesimo s’impose una forma estremamente articolata e vincolante (per lo più non trasferibile) di “proprietà a più gradi” (essendo divenute marginali le proprietà terriere “allodiali”, esclusivamente individuali). Schematicamente, la proprietà feudale sulla terra era data in investitura a chi aveva il dominium eminens (e ne conservava le prerogative somme della giurisdizione e del comando politico-militare) e da questi ripartita con i propri vassalli che ne ricevevano, previo versamento di tributi e prestazione di servizi, il dominium utile. Da costoro poi era concessa ai contadini-servi che, restando legati a essa, la lavoravano godendone parte dei frutti e dando in cambio tributi in natura, decime, prestando corvées, ecc. L’eccessivo immobilismo del sistema feudale (nel quale permanevano ingenti porzioni di proprietà comuni con servitù collettive) fu scosso dall’emergere e dall’affermarsi, lungo un processo secolare di rivoluzione economica, sociale e politica, della proprietà “borghese” (ossia dei ceti cittadini, mercanti, artigiani, banchieri, contadini liberi, ecc.), che ripristinò giuridicamente e socialmente la concezione romanistica della proprietà privata nel contesto, però, di un modo di produzione nuovo, incentrato sull’attività imprenditoriale e sulla riproduzione allargata del capitale. Lo sviluppo completo della proprietà capitalistica poté avvenire grazie alla concentrazione dei mezzi di produzione mobiliari e immobiliari nelle mani di una ristretta classe di imprenditori a spese della spoliazione di masse crescenti di contadini e artigiani, con la creazione di un’immensa classe di proletari (possessori cioè della sola capacità di procreare), esercito industriale di riserva del tutto privo di mezzi di produzione e costretto a offrirsi come manodopera sul mercato del lavoro per ricavarne il reddito necessario alla sopravvivenza. Tali cambiamenti strutturali furono connessi, sul piano ideologico e politico-sociale, con movimenti di pensiero e di azione politica favorevoli al sistema (liberismo e liberalismo) o contestatori delle enormi ingiustizie sociali che esso comportava. Nell’Ottocento il socialismo denunciò la funzione immorale e conservatrice della proprietà privata individuale (Proudhon la stigmatizzò con la celebre frase: “La proprietà è un furto”), avanzando l’istanza della proprietà collettiva e pubblica dei mezzi di produzione. Nel primo Novecento, anche in concomitanza con la progressiva separazione tra proprietà e controllo manageriale nel quadro delle società industriali mature, prese piede attraverso municipalizzazioni e nazionalizzazioni una forma di proprietà pubblica che delegava allo stato funzioni crescenti nei settori produttivi di prevalente importanza sociale e strategica (energia, grandi infrastrutture, trasporti e comunicazioni, ecc.). Nei paesi a dominio comunista tale fenomeno assunse l’aspetto del collettivismo. La tendenza all’estensione della proprietà pubblica, presente in modo consistente anche nelle società occidentali liberaldemocratiche, complici gli esiti fallimentari spesso fatti registrare nel secondo Novecento dalla gestione pubblica, è stata via via sostituita da quella contraria finalizzata alla privatizzazione.

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