Lo Stato di Israele dopo la guerra del 1948.

Israele Dalla nascita dello stato d’Israele alla guerra dei Sei giorni (1948-67)

La scelta di cercare una soluzione armata al problema palestinese si rivelò disastrosa per la Lega araba e per gli arabi di Palestina. Dopo aver dichiarato guerra allo stato ebraico all’indomani della sua proclamazione, il 15 maggio 1948, gli eserciti egiziano, transgiordano, siriano, libanese e iracheno vennero duramente sconfitti. La prima guerra arabo-israeliana, conclusasi con gli armistizi separati del 1949, permise il rafforzamento territoriale di Israele rispetto al precedente piano di spartizione previsto dall’ONU per la Palestina e, sul piano internazionale, portò al riconoscimento del paese da parte di molti altri stati e al suo ingresso nelle Nazioni Unite (marzo 1949). Le prime elezioni per il parlamento israeliano (knesset), svoltesi nel 1949, segnarono la vittoria del partito del primo ministro Ben Gurion, il Mapai (Partito dei lavoratori della terra di Israele), di ispirazione socialista. Il 16 febbraio 1949 fu eletto presidente della repubblica Chaim Weizmann. La negazione intransigente del diritto all’esistenza di Israele da parte della Lega araba, naturale punto di riferimento degli arabi di Palestina, determinò negli anni successivi l’accentuazione delle basi etnico-religiose dello stato ebraico, vanificando per molto tempo ogni progetto di soluzione della questione palestinese. A partire dal 1948 il flusso migratorio di ebrei nello stato d’Israele crebbe incessantemente, anche grazie a due leggi varate dalla knesset nel 1950 e nel 1952 (le cosiddette leggi del ritorno) volte, rispettivamente, a concedere la cittadinanza israeliana a tutti gli ebrei immigrati e limitarne fortemente la concessione ai non ebrei. La popolazione ebraica israeliana passò così dalle 700.000 unità del 1948 ai quasi 3 milioni della fine degli anni Sessanta. Particolarmente significativo fu, in questo contesto, il massiccio afflusso di ebrei sefarditi provenienti dai paesi arabi avvenuto fra il 1952 e il 1964, che mutò l’assetto sociale interno alla stessa componente ebraica israeliana, sino ad allora dominata dalla presenza degli ashkenaziti (originari dell’Europa orientale). Alla crescita della popolazione ebraica fece riscontro il forzato abbandono del territorio israeliano da parte di oltre 500.000 arabi espulsi alla fine del primo conflitto arabo-israeliano e rifugiatisi prevalentemente nel Libano meridionale e in Giordania. Pur nella complessità e precarietà della situazione, la coalizione governativa guidata da Ben Gurion riuscì, fino alla metà degli anni Cinquanta, a garantire il corretto funzionamento della vita parlamentare e a utilizzare parte dei capitali provenienti da alcuni paesi europei e dagli Stati Uniti per la creazione di notevoli infrastrutture e per l’ammodernamento del paese (nonostante il forte assorbimento di risorse da parte del settore militare). Ben Gurion si sforzò di isolare le due forze antitetiche dell’estrema destra e dell’estrema sinistra: la prima ebbe espressione nell’Herut, appoggiato dall’ortodossia religiosa e fautore di una politica “forte” nei confronti della Lega araba; la seconda invece si guadagnò l’appoggio della popolazione araba, per la quale richiese parità di diritti. Nel corso dei primi anni Cinquanta Israele si schierò nettamente con i paesi occidentali, parallelamente all’avvicinamento dei paesi arabi, e in particolare dell’Egitto di Nasser, all’URSS. Nel 1951 furono interrotti i rapporti diplomatici con l’URSS a causa del divieto imposto agli ebrei sovietici di emigrare in Israele e, contemporaneamente, lo stato ebraico si avvicinò a Francia e Gran Bretagna in chiave antiegiziana. Nel 1952 ebbe vasta eco l’accettazione, da parte della Germania federale, del pagamento a Israele dei danni di guerra per le persecuzioni antisemite scatenate dal nazismo. L’avvicinamento alla Francia e all’Inghilterra fu la premessa per il coinvolgimento israeliano in una politica intransigente e militarista verso il mondo arabo, che portò a un nuovo conflitto arabo-israeliano in occasione della crisi di Suez (1956). Nonostante l’opposizione degli Stati Uniti, preoccupati che un intervento militare potesse provocare un ulteriore avvicinamento dei paesi mediorientali all’URSS, fra la Francia, la Gran Bretagna e Israele si venne a saldare un’intesa per procedere all’intervento armato. Fra il 29 ottobre e il 5 novembre 1956 le truppe israeliane guidate da Moshe Dayan riuscirono a sconfiggere le truppe egiziane, occupando la penisola del Sinai e la striscia di Gaza. L’operazione non ebbe però l’esito sperato per la condanna statunitense e soprattutto sovietica: su pressione dell’URSS l’ONU costrinse le truppe israeliane al ritiro, che venne completato nel marzo 1957. Il secondo conflitto arabo-israeliano determinò quindi un temporaneo isolamento internazionale di Israele, e accelerò la costituzione di un movimento per la liberazione della Palestina, che si diede nel 1964 una propria specifica struttura con la nascita dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP). Dopo il 1957 gli incidenti lungo le frontiere furono continui, e agli attentati da parte araba Israele rispose sistematicamente con il metodo della rappresaglia. In questo clima fu deciso un forte incremento delle spese militari, mentre si fece sempre più aspra la competizione politica interna, culminata nel 1963 con le dimissioni del vecchio leader Ben Gurion. L’esecutivo fu allora affidato a Levi Eshkol, anch’egli membro del partito Mapai. Più flessibile e diplomatico nei rapporti con le forze politiche ebraiche, il nuovo primo ministro si trovò tuttavia a fronteggiare una fase di recessione economica, e soprattutto non riuscì a modificare lo stato di irrisolta conflittualità con gli arabi residenti in Israele e con i paesi vicini.