Israele

Stato attuale dell’Asia sudoccidentale.

  1. Le origini
  2. La Palestina sotto il dominio egizio nella tarda età del bronzo
  3. Le origini di Israele, l’egemonia dell’antico regno di Israele sulla Palestina
  4. La nuova frammentazione della Palestina: il regno di Israele e quello di Giuda
  5. Il regno di Giuda fino alla conquista babilonese (587 a.C.)
  6. Dalla dominazione persiana alla distruzione del tempio (VI secolo a.C. – 70 d.C.)
  7. Dopo la distruzione del tempio: la dominazione araba e ottomana
  8. Dalla crisi dell’impero ottomano alla proclamazione dello stato di Israele
  9. Dalla nascita dello stato d’Israele alla guerra dei Sei giorni (1948-67)
  10. Dalla “guerra dei Sei giorni” alla sconfitta laburista (1967-77)
  11. Il governo della destra (1977-1984) e la pace con l’Egitto (1979)
  12. Il governo di avvicendamento, l’Intifada, il processo di pace e la seconda intifada
1. Le origini

Le prime testimonianze della presenza dell’uomo nell’area palestinese attualmente controllata dallo stato di Israele risalgono al paleolitico medio e si riferiscono all’“uomo di Galilea”, i cui resti furono rinvenuti a nord-est del lago di Tiberiade. Fu però dalle prime fasi del neolitico che la Palestina acquistò una posizione importante nel Vicino Oriente. Fra il 10.000 e il 7500 a.C. si sviluppò la cultura natufiana (dal sito di Wadi Natuf), caratterizzata da un’industria litica specializzata nella caccia, a cui seguì una fase (dal 7500) il cui esempio più significativo è rappresentato dal sito di Gerico. Scarsamente toccata dalla prima urbanizzazione che trovò piena espressione nella bassa Mesopotamia fra il 3500 e il 3200, la Palestina conobbe invece una grande diffusione della civiltà urbana nel III millennio: si affermarono allora i centri di Bet Yerah sul Lago di Tiberiade, di Megiddo all’estremità settentrionale della valle dell’Iron, e di Gerico nell’oasi omonima a nord del Mar Morto. Proprio in questa fase la regione cominciò a essere oggetto di interesse da parte degli egizi, che però si limitarono a sporadici interventi armati per difendere la sicurezza dei loro commerci contro gli attacchi dei nomadi. Alla fine del III millennio il sistema urbano palestinese entrò temporaneamente in crisi per il dilagare degli amorrei, popolo di lingua semitica con struttura tribale, per poi riaffermarsi nel corso del XIX secolo, quando si costituirono una serie di città stato cananee rette da sovrani locali. Fra il 1750 e il 1600 la cultura materiale palestinese raggiunse il massimo splendore e si diffuse anche nella zona del delta del Nilo, in concomitanza con una fase di crisi del potere centrale in Egitto. È possibile che nel XVIII secolo sia anche da collocare la prima immigrazione israelitica in Palestina avvenuta, secondo il racconto del Genesi, sotto la guida di Abramo a partire dalla città di Carran (nell’alta Mesopotamia).

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2. La Palestina sotto il dominio egizio nella tarda età del bronzo

Politicamente divisa nei piccoli regni cittadini cananei, la Palestina fu conquistata dagli egizi fin dall’epoca dei primi faraoni della XVIII dinastia: già Thutmosi I intraprese una campagna vittoriosa in quest’area che poi, nella prima metà del XV secolo, Thutmosi III organizzò definitivamente nella provincia di Canaan. Capoluogo era la città di Gaza, sede del governatore del faraone. Continuarono comunque a sussistere in parecchie città re locali, che divennero vassalli del faraone, al quale dovevano versare tributi e fornire aiuto militare. Sul piano economico-sociale nella tarda età del bronzo si registrò una riduzione dell’area degli insediamenti (soprattutto a destra del Giordano), cui corrispose un aumento del nomadismo: nel complesso comunque la zona fu scarsamente abitata e il numero degli abitanti, soprattutto dalla metà del XIV secolo, continuò a diminuire. Molteplici furono le cause del fenomeno: le campagne militari egiziane con le loro distruzioni e deportazioni da un lato e dall’altro l’eccessivo onere fiscale e di lavoro cui furono sottoposti i contadini dalla classe dirigente locale. Ciò comportò il progressivo indebitamento e la perdita della libertà per molte persone, oltre a fenomeni generalizzati di fuga e di abbandono dei villaggi. Nello stesso periodo, tuttavia, si registrarono una notevole fioritura dei palazzi, l’apogeo della classe dirigente urbana, lo sviluppo di un artigianato altamente apprezzato dagli stessi dominatori (soprattutto tessuti di lana, attrezzi e armi di bronzo, vetri e gioielli) e l’affermazione di una cultura piuttosto raffinata. Quest’ultima assorbì alcuni elementi babilonesi e si espresse in accadico a livello ufficiale (mentre il cananaico era l’idioma parlato) con una scrittura di tipo alfabetico. Nella seconda metà del XIII secolo, quando tutto il settore del Mediterraneo orientale divenne teatro di grandi sommovimenti e migrazioni di popoli, alcuni gruppi di filistei entrarono probabilmente al servizio dei sovrani egizi e assunsero per conto di essi il controllo della zona siro-palestinese. Solo all’inizio del XII secolo si ebbe la cosiddetta “invasione” dei “popoli del mare”, di cui facevano parte gli stessi filistei. È anche probabile che in questa fase, forse per sfuggire alla carestia e approfittando delle difficoltà egiziane, alcuni gruppi di israeliti stanziati nella Palestina meridionale si siano spinti verso il delta del Nilo e abbiano ottenuto più o meno ufficialmente la possibilità di stabilirsi entro i confini del regno. A seguito dell’invasione dei popoli del mare la Palestina si affrancò dal controllo egiziano e sul suo territorio si insediarono definitivamente i filistei, che occuparono la zona costiera meridionale – la cosiddetta Pentapoli, costituita dalle città di Gaza, Ashdod, Ascalona, Gat, Akkaron – tra il confine egiziano e Gerusalemme. Di qui tentarono anche di espandersi verso l’interno, approfittando della debolezza militare delle altre popolazioni.

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3. Le origini di Israele, l’egemonia dell’antico regno di Israele sulla Palestina

Secondo la narrazione biblica fra il XIII e l’XI secolo si formò l’entità etnico-politica di Israele. In questa fase vi sarebbero stati una prima cattività in Egitto (probabilmente durante il regno di Ramesse II), poi l’esodo sotto la guida di Mosè (avvenuto forse durante il regno del successore di Ramesse II, Merenptah) e il ritorno in Palestina, che sarebbe stata conquistata dal popolo d’Israele, ormai stretto in una lega di tribù guidata da Giosuè. Alla distruzione delle città cananee da parte israelitica sarebbe poi seguita l’età dei Giudici, ultima tappa prima dell’instaurazione di una monarchia unitaria. Al di là della ricostruzione biblica – che risale in gran parte all’epoca dell’esilio babilonese (VI-V secolo a.C.) – sembra probabile che nel XII secolo abbia avuto inizio in Palestina il processo di formazione dello stato nazionale israelita. Nell’area più interna della Transgiordania, si formarono, in questo stesso periodo, i regni etnici degli ammoniti, dei moabiti e degli edomiti. Probabilmente furono però le tribù israelitiche della zona centrale della Cisgiordania le prime a raggiungere una certa consapevolezza della propria unità nazionale, anche perché esse dovevano fronteggiare popolazioni diverse (i filistei a ovest, e nell’area transgiordana gli ammoniti a nord, i moabiti a est, gli edomiti a sud). L’“età dei Giudici” di cui parla l’Antico Testamento sarebbe quindi identificabile con la fase di consolidamento del popolo di Israele in Palestina (XII-XI secolo) a danno delle città cananee e degli stessi filistei. In questa fase il popolo di Israele era ancora caratterizzato dalla tradizionale struttura gentilizia tipica dei gruppi nomadi e pastorali ed era suddiviso in dodici tribù: i giudici erano infatti dei magistrati tribali che venivano generalmente acclamati dal popolo, su indicazione di un profeta, in occasione di gravi pericoli esterni. Intorno al 1000 a.C., in concomitanza con l’aggravarsi della minaccia esterna, soprattutto filistea, il popolo d’Israele iniziò a darsi una forma di governo monarchica, nella quale il sovrano rappresentava la massima autorità giuridica e militare e il garante dell’unione del popolo. Primo re d’Israele fu, secondo il racconto biblico, Saul. Dopo la sconfitta finale contro i filistei e la morte dello stesso Saul nella battaglia di Gelboe, Davide (1000-960 ca.) fu riconosciuto re, dapprima dalla tribù di Giuda, poi anche dalle tribù settentrionali: si scongiurò così una nuova divisione del popolo d’Israele e si posero le basi per l’avvio di una politica espansionistica che portò all’unificazione della Palestina. I filistei vennero sconfitti da Davide e le loro città stato nella Pentapoli furono ridotte al rango di tributarie; le ultime città stato cananee furono invece direttamente incorporate nello stato d’Israele e la città di Gerusalemme, strappata ai gebusei, divenne la nuova capitale unitaria. Esteso su tutta la Palestina, lo stato davidico si espanse poi verso oriente, nella Transgiordania centrale e meridionale, sconfiggendo il regno di Ammon (che fu annesso al regno d’Israele attraverso l’unione personale delle due corone), quello di Moab (ridotto al rango di vassallo) e quello di Edom (che divenne un possedimento personale di Davide). Anche la Transgiordania settentrionale e la Siria, sede di una federazione di stati autonomi aramaici fra i quali spiccava quello di Damasco, furono sottomesse all’autorità di Israele e sottoposte a tributo. Sotto il regno del figlio di Davide Salomone (961-22 circa) fiorirono invece le attività economiche e soprattutto mercantili (importanti le imprese commerciali a lungo raggio avviate in società con i fenici), i cui proventi permisero di dare impulso a una grande attività edilizia, concentrata soprattutto a Gerusalemme. Nella capitale vennero costruiti il palazzo reale e il tempio di Jahweh. Sotto il regno di Davide e Salomone questo vasto organismo politico raggiunse la sua fase più matura. L’attività diplomatica e commerciale si sostituì progressivamente alle imprese militari. Israele toccò allora il suo apogeo e la memoria di questa condizione diede poi sostanza alle successive pretese egemoniche israelitiche nella regione siro-palestinese. Nonostante gli sforzi compiuti dai due sovrani per creare una classe di funzionari statali sul modello egiziano, un esercito coeso (meno legato alle strutture tribali e basato invece sull’utilizzo di forze mercenarie) e un sistema fiscale più razionale, il regno israelitico risultò pur sempre un’entità scarsamente unitaria. Il contrasto fra israeliti e cananei, ma soprattutto l’ostilità fra gli stessi israeliti della tribù di Giuda e quelli delle tribù settentrionali, il malcontento suscitato dalla pressione fiscale della corte e l’intransigenza religiosa di alcuni gruppi, portarono presto a una nuova divisione.

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4. La nuova frammentazione della Palestina: il regno di Israele e quello di Giuda

Alla morte di Salomone le tribù israelitiche settentrionali si ribellarono al suo successore Roboamo e sotto la guida di Geroboamo fondarono nella Palestina settentrionale il regno di Israele, contrapposto a quello meridionale di Giuda. Capitale del primo fu dapprima Sichem (poi Penuel e Samaria). La capitale di Giuda rimase sempre Gerusalemme. Accanto a questi due regni riacquisirono la piena indipendenza anche la Pentapoli filistea, il regno di Ammon, quello di Moab e di Edom, determinando così una nuova fase di profonda frammentazione della Palestina e della Transgiordania, che durò fino alla conquista assira (metà dell’VIII secolo). Particolarmente conflittuali furono i rapporti fra il regno di Israele e quello di Giuda, per questioni territoriali e di carattere religioso. Entrambi i regni, ma soprattutto quello di Giuda, ricevettero un duro colpo dalla campagna condotta dal faraone Sheshonk I, che intorno al 925 riuscì a imporre pesanti tributi a Gerusalemme. Dopo la divisione fu comunque il regno di Giuda, alleato di Damasco, ad assumere una posizione di superiorità rispetto a quello di Israele, dove intorno all’890 la difficile situazione interna portò a una vera e propria guerra civile. Solo con l’affermazione, intorno all’885, di Omri, e poi con il figlio Achab il regno d’Israele conobbe nuovamente una fase di normalizzazione interna e di relativa prosperità. Di fronte al profilarsi del nuovo e più grave pericolo assiro, nell’856 Achab aderì alla grande coalizione antiassira promossa da Damasco, che tre anni dopo venne però sconfitta da Salmanassar III presso Qarqar. In questa fase l’accettazione da parte della corte di alcuni culti stranieri (in particolare quello del dio di Tiro, Baal) suscitarono la dura reazione di una parte del popolo e di alcuni profeti quali Elia ed Eliseo. Alla morte di Achab il regno di Israele entrò in una fase di decadenza (che coincise peraltro con la crisi del regno di Giuda). Durante il regno di Joram, figlio di Achab, gli ambienti più conservatori e vicini ai profeti incitarono alla ribellione contro i discendenti di Omri, che vennero eliminati. Nel periodo successivo, quello della dinastia di Jeu (841-752), l’opposizione religiosa e nazionalistica venne soddisfatta con la proscrizione di tutti i culti stranieri e l’abolizione della parità di diritti con i cananei, ma le disastrose operazioni militari condotte contro gli aramei di Damasco determinarono la perdita di un terzo del territorio di Israele. Contemporaneamente anche nel regno di Giuda venne imposto di nuovo il culto di Jahweh contro le suggestioni straniere. All’inizio dell’VIII secolo entrambi i regni conobbero – Israele sotto Geroboamo II, Giuda sotto Azaria – un ultimo breve periodo di prosperità, in concomitanza con l’aggravarsi della pressione assira su Damasco, che impedì ai sovrani aramei di continuare la loro politica di conquista verso sud. Si trattò tuttavia di una fase effimera, cui pose termine l’aggressiva politica del sovrano assiro Tiglat-Pileser III, che nel 733 conquistò la Galilea e la Transgiordania, formando la provincia di Megiddo e quella di Galaad. Il regno d’Israele fu quindi ridotto ai soli territori dei monti di Efraim e divenne vassallo degli assiri. Fra il 725 e il 723, con il pretesto di punire il re Osea per il mancato pagamento del tributo, Salmanassar V completò l’opera di conquista di Israele. Anche le città della Pentapoli filistea entrarono completamente nel sistema assiro. Seguirono deportazioni della popolazione locale e nuovi insediamenti di genti provenienti da altre parti dell’impero.

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5. Il regno di Giuda fino alla conquista babilonese (587 a.C.)

Di fronte alla dominazione assira l’atteggiamento dei sovrani del regno di Giuda oscillò fra l’accettazione della condizione di vassallaggio, nella speranza di evitare così la conquista vera e propria e la riduzione al rango di provincia, e il tentativo di approfittare dei momenti di relativa difficoltà dei dominatori per riconquistare, anche attraverso l’appoggio egiziano, una certa libertà. Achaz, re di Giuda al momento del crollo d’Israele, accettò, come segno di sottomissione, il pagamento del tributo e l’introduzione del culto assiro a Gerusalemme (accanto a quello di Jahweh). Durante il regno di Ezechia si registrò invece un forte risveglio della coscienza nazionale. In questo contesto si inserì la riforma del culto operata dal sovrano, volta a eliminare dalla religione israelitica ogni elemento spurio, comprese le influenze assire. Il regno di Giuda tentò per due volte (nel 720 e nel 701) di ribellarsi alla potenza egemone e di riconquistare la piena indipendenza, ma in entrambi i casi dovette ribadire la sua sottomissione, perdendo quasi tutti i territori a eccezione della capitale. A trarre vantaggio da questo riassestamento furono le città filistee, che vennero ricompensate dagli assiri a scapito del regno ribelle. I successivi regni di Manasse (686-42) e di Amon (642-40) rappresentarono quindi un periodo di ripiegamento e di ribadita fedeltà agli assiri, che fruttò al regno di Giuda la restituzione dei territori precedentemente perduti. Un ultimo, deciso tentativo di liberarsi dalla condizione di sottomissione e di porsi come punto di riferimento di tutto il mondo ebraico fu compiuto da Giosia (640-609). Furono però i babilonesi a dimostrarsi ben presto i veri eredi degli assiri in Palestina: dopo una prima imposizione del tributo al regno di Giuda, nel 597 Gerusalemme, a seguito di una ribellione, fu conquistata da Nabucodonosor II. Seguì una prima deportazione, che coinvolse soprattutto la classe dirigente del paese: la famiglia reale, sacerdoti, profeti, funzionari e artigiani specializzati. Nel 589 a una nuova ribellione guidata dallo stesso re Sedecia (precedentemente imposto da Nabucodonosor) i babilonesi risposero con maggior durezza. Gerusalemme cadde nel 587 dopo due anni di assedio: la città venne allora data alle fiamme, il tempio e il palazzo reale furono distrutti, lo stesso Sedecia venne accecato e deportato a Babilonia. Si apriva per la Palestina un cinquantennio di predominio babilonese, che fu segnato da una grave crisi demografica, economica e sociale.

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6. Dalla dominazione persiana alla distruzione del tempio (VI secolo a.C. – 70 d.C.)

Dopo la presa di Babilonia da parte del re persiano Ciro la regione palestinese fu ricompresa nell’impero achemenide e fu trasformata in provincia della Giudea. I nuovi dominatori inaugurarono una politica meno dura nei confronti dei popoli assoggettati, e anche gli ebrei che erano stati deportati poterono, già nel 537, ritornare in Palestina. Con il consenso persiano fu avviata e portata a termine la ricostruzione del tempio di Gerusalemme. Si aprì tuttavia una fase conflittuale in seno alla stessa comunità ebraica fra la precedente classe dirigente, che aveva sperimentato l’esilio ed era ritornata con una maggior consapevolezza della propria identità nazionale (proprio durante l’esilio babilonese era stato redatto il nucleo principale della Bibbia) e la popolazione più povera e dequalificata che era rimasta sempre in Palestina e che ora temeva di essere ulteriormente emarginata. Fu anche grazie all’appoggio dei sovrani achemenidi che in questa complessa situazione il clero di Gerusalemme si impose progressivamente. Nel complesso, durante la fase del predominio persiano la provincia giudaica godette di un periodo di pace e l’elemento israelitico poté mantenere, nel quadro di un’amministrazione autonoma, la sua peculiarità etnica, culturale e religiosa. La regione palestinese venne quindi conquistata da Alessandro Magno, e alla sua morte vi si imposero dapprima i Tolomei (301-198 a.C.) e poi i Seleucidi. Durante la dominazione tolemaica, relativamente mite, iniziarono a manifestarsi tensioni fra i circoli tradizionalisti giudaici e gli elementi più moderati ed ellenizzati nell’ambito dello stesso giudaismo. Dopo la conquista seleucide a opera di Antioco III (198 a.C.), in un primo tempo parvero realizzarsi le richieste dell’ala giudaica più intransigente, strumentalmente appoggiata dai nuovi dominatori. Tuttavia, la difficile situazione sociale e politica da un lato e un nuovo, ostile, atteggiamento dei Seleucidi verso il giudaismo dall’altro fecero ben presto esplodere un forte odio contro la dominazione straniera e le classi privilegiate collaborazioniste, che si concretizzò nella rivolta dei maccabei contro Antioco IV Epifane. Iniziata nel 167 a.C. sotto la guida di Mattatia, della stirpe degli asmonei, l’insurrezione ebbe un carattere nazionale e religioso, e ottenne risultati concreti da quando venne coordinata dal figlio di Mattatia, Giuda Maccabeo. Nel 164 questi riuscì a riconquistare il tempio di Gerusalemme e a reimporre la religione giudaica. Nel 142 suo figlio Simone venne riconosciuto dagli stessi Seleucidi come sommo sacerdote e signore di un regno indipendente. Si apriva così la fase del regno degli asmonei, che al momento della massima estensione, nella prima metà del I secolo a.C., comprendeva il territorio fra la Galilea a nord, l’Idumea e il regno di Moab a sud. Fra complesse vicende interne questa entità statale sopravvisse fino alla conquista romana. Si trattava però di uno stato che, nonostante il suo carattere nazionale e il collante religioso (il sovrano era al tempo stesso la massima autorità politica e religiosa), era minato da forti tensioni sia ai suoi vertici sia fra la classe dirigente e il popolo. Le lotte interne finirono quindi con il provocare, nel 63, il primo intervento dei romani, che con Pompeo ridimensionarono il potere politico degli asmonei e stabilirono un protettorato sulla regione. Lo stato giudaico fu temporaneamente lasciato sussistere ma fu posto sotto la guida di figure gradite a Roma (senza che con questo venisse meno la forte conflittualità interna). Nel 40 a.C. Erode il Grande, nonostante l’opposizione degli asmonei, fu riconosciuto dal senato romano re di Giudea, Samaria e Idumea e nel 37, grazie all’appoggio dei romani, riuscì a conquistare Gerusalemme, inaugurando la dinastia degli Erodiani. Durante il suo regno si ebbe un tentativo di rafforzamento del potere politico e venne avviato un notevole piano di opere pubbliche (importanti soprattutto i lavori per il tempio di Gerusalemme e nella città di Cesarea), ma ciò non valse a far superare le diffidenze verso un sovrano di origine non giudaica e appoggiato da Roma. Alla sua morte, nel 4 a.C., seguì quindi un nuovo periodo di frazionamento della Palestina (inizialmente divisa fra i tre figli: Erode Antipa, Erode Archelao e Filippo), che aprì la strada alla trasformazione di quest’area in provincia romana. Nel 6 d.C., deposto Archelao, i romani riunirono la Giudea, la Samaria e l’Idumea nella provincia Judaea con capitale Cesarea, affidandone il governo a un procurator cum iure gladii dipendente dal governatore della Siria. In questi anni la Palestina vide sorgere, dal seno dello stesso ebraismo, il cristianesimo, che durante il II-III secolo avrebbe qui trovato espressione anche in forme di vita monastica. Artificiosa ed effimera fu la riunificazione avvenuta fra il 40 e il 44 sotto il re Agrippa I: alla sua morte infatti la Palestina fu nuovamente inserita nel quadro delle province romane. Il fiscalismo dei dominatori e la forte coscienza nazionale giudaica (particolarmente esasperata nel movimento degli zeloti) furono alla base dell’insofferenza crescente che contraddistinse i rapporti della popolazione locale con i rappresentanti di Roma. La prima grande insurrezione giudaica, iniziata nel 66 con il massacro della guarnigione romana a Gerusalemme, registrò alcuni successi iniziali dei ribelli ma culminò, nel 70, con la distruzione della città e del tempio di Gerusalemme (l’ultimo focolaio di resistenza degli zeloti, la fortezza di Masada, venne spento solo nel 73 dopo il suicidio in massa degli assediati). Il bilancio della rivolta fu pesantissimo: un quarto della popolazione ebraica palestinese fu infatti uccisa nel corso dell’insurrezione e al termine di essa ebbe inizio il fenomeno della diaspora (dispersione) dei superstiti.

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7. Dopo la distruzione del tempio: la dominazione araba e ottomana

Sedata l’insurrezione, la provincia Judaea fu riorganizzata dai romani, staccata dalla Siria e affidata a un governatore (anziché a un procuratore come era stato in precedenza), senza essere però definitivamente pacificata. La seconda grande insurrezione giudaica divampò nel 132 e fu guidata da Shimon Bar-Kochba (o Koziba). Sorta con motivazioni analoghe a quella del 66, fu scatenata dalla volontà di Adriano di costruire una nuova città sulle rovine di Gerusalemme e di dedicare un tempio a Giove Capitolino sul luogo di quello precedentemente distrutto. La ribellione fu stroncata nel 135, con un bilancio di perdite umane e distruzioni ancora più pesanti che in passato. Da allora la provincia Judaea mutò il suo nome in quello di Palestina, ovvero “terra dei filistei”. Nonostante la repressione e le misure restrittive prese in alcuni frangenti nei confronti della religione giudaica, anche in Palestina i romani si attennero a una certa tolleranza in materia religiosa e culturale, accettando il capo del sinedrio (l’assemblea legislativa e la suprema corte di giustizia giudaica) come proprio interlocutore in quanto rappresentante dell’ebraismo in tutto l’impero romano e riconoscendolo come il naturale destinatario del tributo che prima gli ebrei versavano al tempio di Gerusalemme. Nel IV secolo anche la Palestina risentì del miglioramento complessivo della situazione economica dell’impero romano. Ma già a partire dalla fine del IV secolo, quando il cristianesimo divenne la religione ufficiale dell’impero romano e si intensificarono i pellegrinaggi in Terrasanta, si fecero sempre più difficili i rapporti fra ebrei e cristiani, e questi ultimi vennero progressivamente identificati con i dominatori. Non a caso nel 614, quando i Sasanidi invasero la Palestina, essi vennero accolti come liberatori dalla popolazione giudaica. Breve fu la successiva riconquista attuata dall’imperatore bizantino Eraclio (630). Tre anni dopo, infatti, si profilò la minaccia araba. Conquistata dal califfo Omar I nel 638, la Palestina conobbe allora un lungo periodo di dominazione islamica che si protrasse, pur con forme assai diverse e con la breve parentesi dei regni crociati, fino alla prima guerra mondiale. Fra il VII e l’XI secolo, quando si susseguirono al potere le dinastie degli Omayyadi (640-750), degli Abbasidi (756-975) e dei Fatimidi (976-1070), la Palestina conobbe una fase di relativa prosperità economica e vide convivere in modo sostanzialmente pacifico le tre grandi religioni monoteiste – l’ebraismo, il cristianesimo e l’islam – ognuna delle quali riconosceva in Gerusalemme la sua città santa. Quando i turchi selgiuchidi occuparono Gerusalemme (1070), questo equilibrio entrò in crisi, ponendo così una delle premesse – anche se non certo la principale – dell’offensiva cristiana contro l’islam. Conquistata dagli eserciti crociati, che entrarono in Gerusalemme nel 1099, fra la fine dell’XI e la fine del XII secolo la Palestina vide costituirsi al suo interno il regno di Gerusalemme, il principale fra i regni crociati. La riconquista del Saladino, culminata con la presa di Gerusalemme nel 1187, pose sostanzialmente fine a questa breve parentesi (anche se l’ultimo baluardo cristiano, San Giovanni d’Acri, cadde solo un secolo dopo, nel 1291). Seguì una lunga fase di dominio dei mamelucchi d’Egitto che, pur non dimostrando specifici interessi per quest’area, garantirono comunque alla regione un periodo di pace. Nel 1517 la Palestina cadde in mano a Selim I. Iniziò allora il lungo dominio degli Ottomani, durante il quale la regione fu caratterizzata da notevole frammentazione e scarsa razionalizzazione sul piano amministrativo, oltre che da un forte immobilismo sociale. Questi fattori spiegano il suo permanere in una condizione di grande arretratezza ancora alla vigilia della prima guerra mondiale.

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8. Dalla crisi dell’impero ottomano alla proclamazione dello stato di Israele

Fra gli anni Ottanta dell’Ottocento e il 1903 si registrò in Palestina un notevole afflusso di ebrei provenienti dall’impero russo sia per effetto dei frequenti pogrom in quell’area sia, a partire dagli anni Novanta, per la radicalizzazione e la diffusione del sionismo ispirato al pensiero di Theodor Herzl, convinto assertore della necessità di costituire uno stato ebraico nella regione palestinese. Già dalla fine degli anni Ottanta si verificarono i primi scontri fra i nuovi arrivati e le popolazioni arabe stanziate da secoli nei territori dell’antico stato di Israele. Il congresso di Basilea del 1897 sancì (e i successivi congressi sionisti confermarono) la volontà degli ebrei di costituire un proprio stato, e individuò i principali strumenti per realizzare tale obiettivo nell’incremento dell’immigrazione in Palestina, nell’educazione nazionale e nelle trattative che l’Agenzia ebraica avrebbe dovuto condurre con il governo ottomano per permettere agli ebrei facilitazioni nell’acquisto di terre. Conseguenza dell’applicazione del programma sionista fu un nuovo rapido incremento della popolazione ebraica in Palestina (che nel 1914 raggiunse le 85.000 unità), e l’acquisto da parte dei nuovi arrivati delle terre più fertili. La prima guerra mondiale, il crollo dell’impero ottomano e l’ambigua politica adottata dall’Inghilterra in Palestina durante e dopo il conflitto scatenarono infine lo scontro fra gli opposti nazionalismi ebraico e arabo. Dopo essersi impegnata, nel 1916, a riconoscere l’indipendenza degli arabi palestinesi in cambio di un loro attivo coinvolgimento nella guerra, il 2 novembre 1917 l’Inghilterra, attraverso il suo ministro degli esteri Balfour, dichiarò di condividere il progetto sionista di istituire un “focolare nazionale ebraico” in Palestina. Da questa data si intensificò ulteriormente il movimento migratorio di ebrei verso la Palestina, che continuò durante tutto il primo dopoguerra, aumentando ulteriormente negli anni delle persecuzioni razziali naziste. Proprio grazie all’afflusso di sionisti di tendenza progressista provenienti dall’URSS e dalla Polonia, negli anni Venti ebbe impulso fra la comunità ebraica palestinese il movimento sindacale e il sistema di conduzione della terra collettivistico imperniato sui kibbutz. Dopo la vittoria nella prima guerra mondiale la Gran Bretagna aveva frattanto ottenuto la possibilità di esercitare la propria influenza sulla zona siriaco-palestinese, e nel 1920 la Società delle Nazioni le affidò il mandato sulla Palestina. La creazione nel 1923 del regno di Transgiordania, acuì ulteriormente il problema della coesistenza di ebrei e arabi nei territori palestinesi a ovest del fiume Giordano, rischiando di compromettere la stessa politica inglese. L’intensa opera di colonizzazione ebraica, favorita anche dal governo inglese, provocò scontri fra i coloni e la popolazione araba, che iniziò a organizzarsi politicamente dal 1936, quando si ebbe una grande sollevazione araba in opposizione all’immigrazione ebraica e all’ambigua politica inglese. La reciproca collaborazione fra i paesi arabi venne sancita dalla conferenza di Alessandria del 1944, che portò alla formazione della Lega araba (1945), subito divenuta il punto di riferimento per tutti coloro che rifiutavano la costituzione di uno stato ebraico in Palestina. Se durante la seconda guerra mondiale molti ebrei di Palestina combatterono a fianco degli inglesi contro il nazismo, già da allora si verificarono episodi di insofferenza nei confronti dei dominatori inglesi. Alla fine del conflitto – quando ormai si contavano oltre mezzo milione di ebrei e più di un milione e duecentomila arabi – si consolidò ulteriormente la volontà ebraica di indipendenza. Il disimpegno coloniale della Francia da Siria e Libano, divenuti nel 1946 stati indipendenti, e la volontà inglese di costituire nell’area palestinese uno stato in cui dovevano convivere le due popolazioni acuirono ulteriormente il problema arabo-ebraico, che assunse una dimensione internazionale. Dal canto loro gli Stati Uniti, dove forte e particolarmente influente era la presenza ebraica, si orientarono verso il superamento di quei vincoli che per ragioni di sicurezza il governo inglese aveva posto all’immigrazione ebraica in Palestina. La Gran Bretagna optò allora per una linea di progressivo disimpegno dalla questione ebraico-palestinese, rimettendo alle Nazioni Unite il compito di dirimere il problema. Il governo di Londra annunciò il ritiro dalla regione entro il 15 maggio 1948. La risoluzione adottata dall’ONU il 29 novembre 1947, forte del voto statunitense, sovietico e francese e dell’astensione inglese, pur con l’opposizione dei paesi della Lega araba, dell’India, della Grecia e del Pakistan, fu quella di giungere a una divisione della Palestina fra le due popolazioni, attribuendo agli ebrei la Galilea orientale, la fascia costiera da Haifa ad Ashdod e la regione del Neghev (per Gerusalemme era prevista la creazione di una zona internazionale). Ultimata la partenza delle truppe britanniche, il 14 maggio 1948 un governo provvisorio ebraico guidato da Ben Gurion proclamò la creazione dello stato d’Israele: atto contestato come unilaterale dagli stati arabi, che vedevano in esso una forma intollerabile di sopraffazione da parte della minoranza ebraica appoggiata dai paesi occidentali nei confronti della maggioranza della popolazione araba residente in Palestina, già all’epoca economicamente subordinata. Il nuovo stato d’Israele fu subito riconosciuto da USA e URSS.

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9. Dalla nascita dello stato d’Israele alla guerra dei Sei giorni (1948-67)

La scelta di cercare una soluzione armata al problema palestinese si rivelò disastrosa per la Lega araba e per gli arabi di Palestina. Dopo aver dichiarato guerra allo stato ebraico all’indomani della sua proclamazione, il 15 maggio 1948, gli eserciti egiziano, transgiordano, siriano, libanese e iracheno vennero duramente sconfitti. La prima guerra arabo-israeliana, conclusasi con gli armistizi separati del 1949, permise il rafforzamento territoriale di Israele rispetto al precedente piano di spartizione previsto dall’ONU per la Palestina e, sul piano internazionale, portò al riconoscimento del paese da parte di molti altri stati e al suo ingresso nelle Nazioni Unite (marzo 1949). Le prime elezioni per il parlamento israeliano (knesset), svoltesi nel 1949, segnarono la vittoria del partito del primo ministro Ben Gurion, il Mapai (Partito dei lavoratori della terra di Israele), di ispirazione socialista. Il 16 febbraio 1949 fu eletto presidente della repubblica Chaim Weizmann. La negazione intransigente del diritto all’esistenza di Israele da parte della Lega araba, naturale punto di riferimento degli arabi di Palestina, determinò negli anni successivi l’accentuazione delle basi etnico-religiose dello stato ebraico, vanificando per molto tempo ogni progetto di soluzione della questione palestinese. A partire dal 1948 il flusso migratorio di ebrei nello stato d’Israele crebbe incessantemente, anche grazie a due leggi varate dalla knesset nel 1950 e nel 1952 (le cosiddette leggi del ritorno) volte, rispettivamente, a concedere la cittadinanza israeliana a tutti gli ebrei immigrati e limitarne fortemente la concessione ai non ebrei. La popolazione ebraica israeliana passò così dalle 700.000 unità del 1948 ai quasi 3 milioni della fine degli anni Sessanta. Particolarmente significativo fu, in questo contesto, il massiccio afflusso di ebrei sefarditi provenienti dai paesi arabi avvenuto fra il 1952 e il 1964, che mutò l’assetto sociale interno alla stessa componente ebraica israeliana, sino ad allora dominata dalla presenza degli ashkenaziti (originari dell’Europa orientale). Alla crescita della popolazione ebraica fece riscontro il forzato abbandono del territorio israeliano da parte di oltre 500.000 arabi espulsi alla fine del primo conflitto arabo-israeliano e rifugiatisi prevalentemente nel Libano meridionale e in Giordania. Pur nella complessità e precarietà della situazione, la coalizione governativa guidata da Ben Gurion riuscì, fino alla metà degli anni Cinquanta, a garantire il corretto funzionamento della vita parlamentare e a utilizzare parte dei capitali provenienti da alcuni paesi europei e dagli Stati Uniti per la creazione di notevoli infrastrutture e per l’ammodernamento del paese (nonostante il forte assorbimento di risorse da parte del settore militare). Ben Gurion si sforzò di isolare le due forze antitetiche dell’estrema destra e dell’estrema sinistra: la prima ebbe espressione nell’Herut, appoggiato dall’ortodossia religiosa e fautore di una politica “forte” nei confronti della Lega araba; la seconda invece si guadagnò l’appoggio della popolazione araba, per la quale richiese parità di diritti. Nel corso dei primi anni Cinquanta Israele si schierò nettamente con i paesi occidentali, parallelamente all’avvicinamento dei paesi arabi, e in particolare dell’Egitto di Nasser, all’URSS. Nel 1951 furono interrotti i rapporti diplomatici con l’URSS a causa del divieto imposto agli ebrei sovietici di emigrare in Israele e, contemporaneamente, lo stato ebraico si avvicinò a Francia e Gran Bretagna in chiave antiegiziana. Nel 1952 ebbe vasta eco l’accettazione, da parte della Germania federale, del pagamento a Israele dei danni di guerra per le persecuzioni antisemite scatenate dal nazismo. L’avvicinamento alla Francia e all’Inghilterra fu la premessa per il coinvolgimento israeliano in una politica intransigente e militarista verso il mondo arabo, che portò a un nuovo conflitto arabo-israeliano in occasione della crisi di Suez (1956). Nonostante l’opposizione degli Stati Uniti, preoccupati che un intervento militare potesse provocare un ulteriore avvicinamento dei paesi mediorientali all’URSS, fra la Francia, la Gran Bretagna e Israele si venne a saldare un’intesa per procedere all’intervento armato. Fra il 29 ottobre e il 5 novembre 1956 le truppe israeliane guidate da Moshe Dayan riuscirono a sconfiggere le truppe egiziane, occupando la penisola del Sinai e la striscia di Gaza. L’operazione non ebbe però l’esito sperato per la condanna statunitense e soprattutto sovietica: su pressione dell’URSS l’ONU costrinse le truppe israeliane al ritiro, che venne completato nel marzo 1957. Il secondo conflitto arabo-israeliano determinò quindi un temporaneo isolamento internazionale di Israele, e accelerò la costituzione di un movimento per la liberazione della Palestina, che si diede nel 1964 una propria specifica struttura con la nascita dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP). Dopo il 1957 gli incidenti lungo le frontiere furono continui, e agli attentati da parte araba Israele rispose sistematicamente con il metodo della rappresaglia. In questo clima fu deciso un forte incremento delle spese militari, mentre si fece sempre più aspra la competizione politica interna, culminata nel 1963 con le dimissioni del vecchio leader Ben Gurion. L’esecutivo fu allora affidato a Levi Eshkol, anch’egli membro del partito Mapai. Più flessibile e diplomatico nei rapporti con le forze politiche ebraiche, il nuovo primo ministro si trovò tuttavia a fronteggiare una fase di recessione economica, e soprattutto non riuscì a modificare lo stato di irrisolta conflittualità con gli arabi residenti in Israele e con i paesi vicini.

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10. Dalla “guerra dei Sei giorni” alla sconfitta laburista (1967-77)

Il terzo conflitto arabo-israeliano scoppiò nel giugno del 1967. Il mese precedente il presidente egiziano Nasser aveva voluto il ritiro delle forze dell’ONU dalla zona del Canale di Suez e il 22 maggio aveva decretato il blocco del golfo di Aqaba per le navi dirette verso Israele. A queste azioni lo stato ebraico rispose con il bombardamento, il 5 giugno, dei principali aeroporti arabi, mentre l’esercito, guidato da Moshe Dayan, occupava la striscia di Gaza, la Cisgiordania, l’alta Galilea, il Golan e tutta la penisola del Sinai. Nel giro di sei giorni (5-10 giugno) Israele giunse così a una vittoria militare schiacciante, che acuì di riflesso anche le tensioni fra le due superpotenze. Anche la parte orientale di Gerusalemme fu annessa unilateralmente dal governo israeliano e venne proclamata capitale dello stato, nonostante la condanna dell’ONU. Respinta sia da Israele sia dai paesi arabi e dall’OLP la risoluzione dell’ONU che prevedeva la restituzione dei territori occupati in cambio del riconoscimento di Israele, lo stato ebraico non riuscì anche in questo caso ad avviare un autentico processo di pace che gli consentisse di sfruttare completamente la sua vittoria militare. In mancanza di trattati di pace con i paesi arabi (che non poterono essere sottoscritti per il rifiuto di questi ultimi di riconoscere lo stato ebraico), Israele ignorò da parte sua la risoluzione dell’ONU per quanto riguardava la restituzione dei territori occupati, avviando anzi un processo di colonizzazione delle nuove terre. La progressiva creazione di insediamenti ebraici nelle zone occupate (per fronteggiare l’incremento della popolazione ebraica a seguito di nuovi afflussi provenienti dal Corno d’Africa e dal 1971 anche dall’URSS) e l’utilizzazione nello stesso territorio israeliano della popolazione araba delle zone occupate come manodopera non specializzata creò un rapporto di totale subalternità economica dei palestinesi, fomentando ulteriormente il loro spirito di rivalsa contro gli occupanti. Fu proprio dal 1968 che l’OLP radicalizzò la sua posizione e incominciò a minacciare direttamente la sicurezza di Israele. Le forti spese militari legate alla difesa e alla stessa occupazione dei territori conquistati nel 1967, le difficoltà economiche e finanziarie, l’isolamento del paese nell’area mediorientale e il venir meno dell’appoggio di paesi tradizionalmente alleati – quali la Francia – furono alcuni elementi che contribuirono a mettere in crisi il modello di sviluppo israeliano (che era ormai di tipo apertamente occidentale). Alla morte di Levi Eshkol (1969), il nuovo primo ministro Golda Meir del partito laburista (ex Mapai) scelse di proseguire sulla via della colonizzazione dei territori occupati e dell’intransigenza verso gli arabi, mentre in politica estera rafforzò ulteriormente i rapporti con gli Stati Uniti (anche per compensare i sempre più tiepidi rapporti con i paesi europei). La rigida politica israeliana trovò d’altra parte riscontro nei paesi vicini: in Egitto anche il successore di Nasser, Sadat, tentò in un primo tempo la via dello scontro armato con Israele. L’attacco congiunto sferrato dagli eserciti egiziano e siriano nel giorno della festività ebraica dello Yom Kippur, il 6 ottobre 1973, venne respinto dalle forze israeliane, che nella loro controffensiva giunsero a minacciare la stessa capitale egiziana. La guerra mise però anche in luce la vulnerabilità di Israele sul piano militare e soprattutto la fragilità economica di un paese privo di materie prime di fronte alle enormi risorse petrolifere di cui disponevano i paesi arabi (che non a caso le usarono come arma di ricatto verso l’Occidente). Le elezioni del 1973 registrarono una flessione laburista e aprirono una grave crisi di governo. Solo nel maggio 1974 si riuscì a formare un governo, composto da laburisti e liberali indipendenti, sotto la guida di Itzhak Rabin e con Shimon Peres al ministero degli Esteri. Durato in carica sino alle elezioni anticipate del 1977, il governo Rabin riuscì a raggiungere un accordo con l’Egitto, che andava nel senso del rifiuto della forza come mezzo di soluzione del conflitto e comportava un lieve arretramento israeliano nel Sinai, rifiutando però categoricamente il ritiro dai territori occupati nella guerra del 1967 e ponendo come condizione il riconoscimento del paese da parte degli arabi. Rabin diede ulteriore impulso al settore militare e promosse una politica economica volta ad affrancare il più possibile Israele dagli aiuti stranieri, ma non riuscì a evitare i contraccolpi della recessione che colpì tutto il mondo occidentale, l’emergere di scandali interni, la fronda sindacale e la propaganda antigovernativa delle forze dell’estrema destra. Alle elezioni del maggio 1977 i laburisti risultarono infine sconfitti.

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11. Il governo della destra (1977-1984) e la pace con l’Egitto (1979)

Dopo le elezioni del 1977 ebbe inizio una fase di governo delle forze laiche e religiose di centrodestra che durò sino al 1984. Menahem Begin e poi Yitzhak Shamir diedero vita a governi di coalizione incentrati intorno al Likud. Il primo governo Begin – formato, oltre che dal Likud, dal Partito nazionale religioso e dal Movimento per il cambiamento (DASH), con il generale Moshe Dayan come ministro degli Esteri fino al 1979 – avviò una politica economica apertamente liberistica e, con la decisiva mediazione degli Stati Uniti, realizzò un’importante apertura nei confronti dell’Egitto sanzionata dalla visita di Sadat a Gerusalemme (1977), dagli accordi di Camp David del 5 settembre 1978 e dal trattato di pace fra Egitto e Israele stipulato a Washington nel marzo 1979. Israele rinunciò allora alla penisola del Sinai in cambio del consolidamento delle frontiere (riaperte nel maggio di quell’anno) e del suo riconoscimento da parte del più grande paese arabo (che subì per questo l’espulsione dalla Lega araba). A questo successo in politica estera non corrispose però, in campo interno, una maggiore stabilità nell’ambito della maggioranza di governo e un mutamento di indirizzo nei rapporti con i palestinesi, con i quali anzi si scelse la linea più dura. Nonostante i dissensi interni e le negative reazioni di Egitto e Stati Uniti fu ripresa la politica di colonizzazione in Cisgiordania. Alla caduta del primo governo Begin le elezioni anticipate del 1981 consentirono ancora al leader del Likud di dare vita a un esecutivo formato dal suo partito, dal Partito nazionale religioso e da altri partiti tradizionalisti. L’incursione aerea del giugno 1981 a Tammuz, in Iraq, il rifiuto di diversi piani di pace e soprattutto la decisione di annettere, nel dicembre 1981, le alture del Golan siriane furono le più evidenti manifestazioni di una politica aggressiva che non mancò di ritorcersi contro lo stesso Israele (con l’annullamento da parte degli Stati Uniti degli accordi di cooperazione firmati solo pochi giorni prima). Nel maggio 1982, dopo ripetuti scioperi generali della popolazione palestinese e in un clima di violenza generalizzata, il governo israeliano avviò l’operazione denominata “pace in Galilea”, diretta contro il Libano meridionale. L’intento del governo israeliano era quello di stroncare la minaccia del terrorismo palestinese, che trovava terreno fertile nei campi profughi, e soprattutto di schiacciare definitivamente l’OLP, che aveva in Beirut il suo quartier generale. Contando sul favore dell’elemento cristiano libanese, Israele riteneva inoltre di poter creare sul confine settentrionale con la Siria un comodo stato cuscinetto. Alle incursioni aeree contro le basi palestinesi del Libano meridionale seguì quindi, nel giugno 1982, l’invasione del paese vicino, che portò l’esercito israeliano allo scontro con l’aviazione siriana nella valle della Bekaa e all’occupazione di Tiro e Sidone. Il quartier generale dell’OLP dovette allora abbandonare Beirut per trasferirsi a Tunisi. Particolarmente gravi furono, nel settembre, i massacri avvenuti nei campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila operati dalle milizie cristiane libanesi con la sostanziale complicità dell’esercito israeliano. Solo negli ultimi mesi del 1983 il crescente dissenso interno, la dura condanna della comunità internazionale, i gravi costi economici e umani dell’operazione costrinsero Israele a risolversi a sgomberare il Libano meridionale (progetto attuato però solo fra il gennaio e il giugno del 1985). Begin, dimissionario, fu sostituito nell’ottobre di quell’anno da Shamir, a capo di un instabile governo costretto a indire elezioni anticipate solo pochi mesi dopo la sua costituzione.

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12. Il governo di avvicendamento, l’Intifada, il processo di pace e la seconda intifada

Dalla consultazione elettorale del 1984 uscirono con forza pressoché eguale i laburisti e il Likud. Venne allora formato un governo di ampia coalizione, a capo del quale si dovevano alternare Peres, capo dei laburisti, e Shamir, leader del Likud. Sotto la guida di Peres ogni tentativo di prendere contatti con i paesi arabi moderati per avviare a soluzione l’irrisolta questione palestinese fu ostacolato dalle forze governative di centrodestra. Con il governo Shamir (1986) si intensificò l’opera di colonizzazione e di repressione nei territori della Cisgiordania e di Gaza. Proprio in queste aree la costante conflittualità venne esacerbata dallo scoppio, nel 1987, della rivolta della popolazione araba, l’Intifada (“guerra delle pietre”). A ciò si aggiunse, dal 1989, l’obiettiva difficoltà rappresentata dalla nuova massiccia immigrazione di ebrei dall’Europa centro-orientale e dall’URSS ormai alla vigilia della sua dissoluzione. Dalla fine degli anni Ottanta maturarono anche i presupposti di una soluzione negoziata del problema palestinese. Nell’agosto 1988, quando era ancora in pieno svolgimento l’Intifada, il leader dell’OLP Arafat riconobbe per la prima volta il diritto all’esistenza di Israele. Nel maggio 1989 il nuovo governo israeliano guidato da Shamir, pur senza abbandonare la politica della repressione nei confronti della rivolta palestinese, accettò di organizzare elezioni nei territori occupati, riconoscendo così la legittimità di una rappresentanza araba in campo amministrativo (nella speranza di soddisfare la componente palestinese moderata). Rimase invece irrisolta la questione del ritiro israeliano da quelle aree, sia per la difficoltà di smantellare le colonie ebraiche sorte al loro interno sia perché quelle zone erano comunque diventate (pur nella loro subalternità) parte integrante del sistema economico israeliano. Nel 1991 Israele, anche su pressione statunitense, adottò una politica di non intervento durante la guerra del Golfo, per quanto fosse stato oggetto di bombardamenti missilistici da parte irachena: posizione che gli guadagnò consensi in campo internazionale. Nello stesso anno, sempre grazie alla mediazione statunitense, diede inizio alle trattative di pace con i paesi arabi, pur permanendo il problema del mancato riconoscimento dell’OLP come legittima controparte dei negoziati. Nel 1992 la vittoria alle elezioni del partito laburista portò alla formazione di un governo guidato da Yitzhak Rabin, in cui ebbe un ruolo di grande rilievo il ministro degli Esteri Shimon Peres. Nel 1993 il nuovo governo riconobbe l’OLP e siglò a Washington, con la mediazione statunitense, uno storico accordo di pace con il quale fu concessa ai palestinesi l’autonomia a Gerico e nella striscia di Gaza. Nell’ottobre del 1994 fu siglato un trattato di pace con la Giordania. Nel 1995 l’autonomia fu estesa alla Cisgiordania. Il processo di pace fu altresì lento e difficoltoso per l’opposizione della destra israeliana e dei fondamentalisti islamici. Lo stesso Rabin cadde vittima di un attentato terroristico nel novembre del 1995 e gli subentrò al governo S. Peres. Alle elezioni del 1996, che furono precedute da gravissimi attentati terroristici messi a segno dal gruppo di Hamas, i laburisti furono sconfitti dalle destre. Andò al governo Binyamin Netanyahu, che frappose nuovi ostacoli al processo di pace, favorendo l’insediamento di nuovi coloni nei territori occupati. Un nuovo accordo siglato nel 1998 tra Israele e l’OLP rimase di fatto senza seguito. Con le elezioni del 1999, la vittoria dei laburisti e la formazione di un governo di coalizione presieduto da Ehud Barak i colloqui di pace ripresero il loro corso, pur tra molteplici difficoltà, sempre con la mediazione USA. Nel maggio del 2000 gli israeliani completarono il ritiro dalla fascia di sicurezza nel Libano meridionale. Nel settembre del 2000, una visita di Ariel Sharon, leader del Likud, sulla spianata delle Moschee a Gerusalemme scatenò tensioni e manifestazioni di protesta sfociate in rivolta popolare (nuova Intifada) e atti di terrorismo. Il governo Barak diede le dimissioni e, alle elezioni del febbraio 2001, si affermò proprio Ariel Sharon che diede vita a un governo di unità nazionale con la partecipazione dei laburisti. Lo scontro con i palestinesi precipitò in una spirale di attentati terroristici e in una repressione militare sempre più violenta, sfociata nel 2002 nell’occupazione dei centri amministrati dall’Autorità Nazionale Palestinese con la sistematica distruzione, a titolo di rappresaglia, di abitazioni e infrastrutture civili nonché con arresti in massa di militanti e con deportazioni. Le violenze proseguirono sino al 2005, quando, all’indomani della morte di Arafat, fu raggiunto un accordo tra Sharon e il nuovo presidente dell’ANP, il moderato Abu Mazen, cui seguì nel settembre dello stesso anno, il ritiro delle truppe israeliane dai territori occupati. A fronte delle forti opposizioni interne, Sharon lasciò il Likud e formò un nuovo partito, Kadima. Colpito da un ictus cerebrale alla vigilia delle elezioni parlamentari del 2006, Sharon fu sostituito ad interim da Ehud Olmert, il quale, dopo aver condotto Kadima alla conquista della maggioranza relativa, fu incaricato di formare un governo con l’appoggio dei laburisti. Nel frattempo l’inattesa vittoria di Hamas nelle elezioni per il Consiglio legislativo palestinese portò a una nuova escalation delle violenze, che nel 2008 sfociò in un nuovo intervento terrestre da parte delle forze armate israeliane. Un’ulteriore minaccia provenne dai continui attacchi lanciati dagli Hezbollah libanesi, in risposta ai quali nel 2006 il governo guidato da Olmert scatenò una controffensiva che costò numerose vittime e almeno un milione di profughi. Accusato di corruzione e criticato per la sua politica estera, nel 2008 quest'ultimo fu costretto a dimettersi dalla carica di primo ministro, ma, all’indomani della mancata formazione di un nuovo governo, riassunse ad interim la guida del paese sino alle elezioni del febbraio 2009, vinte con un ristrettissimo margine da Kadima. Dopo prolungate trattative, il presidente Simon Peres affidò a Binyamin Netanyahu l’incarico di formare un governo di coalizione, composto da Likud, Kadima e altre forze minoritarie, tra cui la formazione di destra Yisrael Beytenu di Avigdor Lieberman. Il nuovo governo di coalizione dovette affrontare una serie crescente di difficoltà.
Sul piano internazionale, l’assassinio di alcuni attivisti di origine turca, scatenò nel maggio 2010 una nuova ondata di proteste internazionali e un netto raffreddamento delle relazioni diplomatiche con la Turchia. Nel 2011 seguirono, a causa di alcuni scontri di frontiera, un inasprimento delle tensioni con l’Egitto e, a causa dell’opposizione israeliana alla richiesta di riconoscimento della Palestina da parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, l’irrigidimento dei rapporti con l’Autorità palestinese. Sul piano interno, prese infine forma, nell’estate dello stesso anno, la formazione di un ampio movimento di protesta contro il carovita.
Nel novembre 2012, dopo una serie di attacchi aerei contro Gaza effettuati in risposta al lancio di missili sul territorio israeliano, l’ONU approvò una risoluzione con cui fu riconosciuto alla Palestina la qualifica di stato osservatore permanente e sollecitò la riapertura dei colloqui bilaterali. Le successive elezioni del 2013 riconfermarono Netanyahu alla guida del governo con una coalizione più moderata rispetto alla precedente, formata da Likud, Yisrael Beytenu e Yesh Atid, un raggruppamento di centro-sinistra di recente formazione

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