L’alfabetizzazione in Italia nel 1911

scuola La scuola in Italia

All’atto di nascita del regno d’Italia (1861), circa il 70% della popolazione (17 milioni su 25) era analfabeta. I primi problemi di politica scolastica del nuovo stato furono la lotta contro l’analfabetismo, peraltro condotta dai governi della Destra storica con poca convinzione, e l’armonizzazione dei diversi sistemi scolastici degli stati preunitari. La soluzione a entrambi i problemi fu trovata nell’estensione a tutto il territorio nazionale della legge Casati (1859), che disciplinava l’istruzione nel regno di Sardegna, in coerenza con la politica della Destra di piemontesizzazione dello stato. La legge Casati prevedeva l’obbligo scolastico per il primo ciclo biennale in scuole elementari affidate alla gestione dei comuni, ma le scarse risorse finanziarie a disposizione di questi ultimi, soprattutto al sud e nelle campagne, ne impedirono una soddisfacente attuazione. La legge Casati disciplinò anche l’istruzione secondaria, articolata nel ginnasio-liceo (5 anni più 3), di indirizzo umanistico e destinato alle classi superiori proiettate verso gli studi universitari, nelle scuole e istituti tecnici (3 anni più due) e nella scuola per la preparazione dei maestri. La Sinistra storica, più decisa a combattere l’analfabetismo, a contrastare il monopolio ecclesiastico dell’istruzione e ad affidare alla scuola il compito di formare la coscienza nazionale, intervenne nella politica scolastica con la legge Coppino (1877). Essa prolungò l’obbligo all’età di nove anni, prevedendo sanzioni per gli inadempienti e affidò all’educazione civica (“prime nozioni dei doveri dell’uomo e del cittadino”) e non alla religione la formazione dei valori. L’analfabetismo iniziò a calare, seppur lentamente (63% nel 1881, 48% nel 1901). Nel 1885 fu istituita la sezione fisico-matematica dell’istituto tecnico, con possibilità di accesso alle facoltà universitarie scientifiche, a testimonianza del maggior riconoscimento del valore della cultura scientifica da parte della Sinistra, influenzata dalle idee del positivismo. Più arretrata rimase la condizione dell’istruzione professionale, totalmente abbandonata all’iniziativa di privati e di enti assistenziali e controllata dal ministero per l’Agricoltura e l’Industria: solo nel 1928 passò alle competenze del ministero della Pubblica Istruzione. L’età giolittiana vide un ulteriore impegno nel campo dell’istruzione elementare, grazie anche alla pressione del movimento socialista. Nel 1904 l’obbligo venne prolungato a 12 anni e il ciclo elementare fu integrato da una quinta e una sesta classe (legge Orlando); furono inoltre aperte scuole serali e festive per lavoratori e adulti analfabeti; nel 1911 la legge Daneo-Credaro avocò allo stato le scuole comunali. Un riordino del sistema scolastico si ebbe all’inizio del fascismo con la serie di decreti noti come riforma Gentile (1923). Gentile istituì la scuola preparatoria, per l’età dai 3 ai 6 anni, non obbligatoria, ma il regime fascista non fece nulla per realizzarla concretamente; elevò l’obbligo fino al quattordicesimo anno di età, istituendo, in alternativa alle scuole medie inferiori, tre classi integrative postelementari, successivamente chiamate di avviamento al lavoro (con carattere di istruzione professionale); introdusse l’insegnamento della religione, definita il “fondamento e coronamento” dell’istruzione elementare; articolò la secondaria superiore in licei classici, scientifici e artistici e in istituti tecnici, magistrali e d’arte; consentì l’accesso agli studi universitari solo agli studenti liceali, confermando la natura classista del sistema scolastico. Nel 1939 la “Carta della scuola” di Bottai, vanificata dall’ingresso in guerra e dal successivo crollo del regime fascista, progettò l’unificazione delle scuole secondarie inferiori. Della scuola si occupò la Costituzione della repubblica italiana, negli articoli 33 e 34, in cui furono sanciti la libertà d’insegnamento, il diritto allo studio, l’impegno dello stato nel settore scolastico, l’obbligo e la gratuità dello studio fino al quattordicesimo anno di età, la possibilità di organizzare scuole private senza oneri per lo stato. Durante la storia della repubblica si ebbe una sola vera riforma in campo scolastico: l’unificazione della scuola media inferiore (1962), operata dalla nuova maggioranza di centrosinistra a realizzazione del principio democratico delle pari opportunità. Per il resto si ebbero solo modificazioni di minore portata: istituzione delle scuole materne statali presso ogni direzione didattica, non obbligatorie ma gratuite (1968); istituzione di asili nido per i bambini sotto i 3 anni (1971); rinnovo dei programmi delle elementari (1945, 1955, 1985), istituzione del tempo pieno (1968); riforma dei programmi e della valutazione nelle medie inferiori e inserimento degli handicappati (1977); nascita degli istituti professionali di stato (1950); riforma dell’esame di maturità e liberalizzazione degli accessi all’università da tutti gli indirizzi quinquennali (o dopo un anno integrativo per i corsi quadriennali) della secondaria superiore (1969, sull’onda della contestazione studentesca). A livello organizzativo e gestionale, sempre sull’onda delle lotte studentesche e delle richieste democratiche di partecipazione, dopo la concessione dell’assemblea d’istituto agli studenti (1968), nel 1974 i Decreti delegati istituirono la gestione collegiale della scuola mediante organi formati da tutte le componenti scolastiche (personale docente e non docente, genitori, nelle superiori anche gli studenti) e con la partecipazione, in alcuni di essi (consigli di distretto, provinciali e nazionale della pubblica istruzione) delle forze sociali. Ciò di cui si continuò a sentire maggiormente la mancanza fu una riforma degli ordinamenti della secondaria superiore, che andasse in direzione di una maggiore democraticità (riducendo il dislivello culturale tra i diversi indirizzi), efficienza (diminuendo il pesante centralismo amministrativo, solo in minima parte scalfito dai Decreti delegati) e modernità (attraverso la riforma dei programmi). Dopo decenni di lodevoli ma infruttuosi dibattiti (fu importante il convegno di Frascati del 1970, che propose la secondaria superiore unitaria, con area comune e materie opzionali) e di sperimentazioni interessanti, ma insufficienti al fine di avviare una trasformazione complessiva del sistema scolastico, sul finire degli anni Novanta e nel corso dei primi anni Duemila – soprattutto in coincidenza con la cosiddetta riforma Berlinguer cui successivamente seguirono la riforma Moratti e la riforma Gelmini – furono introdotte o avviate, pur tra numerose incertezze e contestazioni, varie innovazioni di notevole rilevanza, tra cui si devono menzionare almeno l’autonomia degli istituti, la riforma dei cicli e una complessiva ristrutturazione degli esami di maturità. [Sergio Parmentola]