Kenya

Stato attuale dell’Africa centro-orientale. Il paese è di fondamentale interesse preistorico per la presenza nella Rift Valley di testimonianze riguardanti i più antichi ominidi. L’interno fu abitato da boscimani, ai quali dal XVI secolo si sovrapposero popoli agricoltori di origine bantu e gruppi di pastori galla e nilocamiti. L’incontro delle diverse etnie diede vita a strutture sociali imperniate sul nucleo tribale, prive di una vera e propria organizzazione statale. Assai diversa fu la storia della zona costiera, esposta fin dall’VIII secolo all’influenza degli arabi, che vi fondarono scali importanti. In quest’area, dall’incontro fra l’elemento arabo e quello bantu, si formò l’importante civiltà swahili. I portoghesi alla fine del XV secolo approdarono sulle coste assumendone il controllo e mantenendolo fino alla metà del XVII secolo. Nel XVIII e XIX secolo lo straordinario sviluppo di Zanzibar (Tanzania), che dal 1840 fu scelta dal sultano di Oman come sede della propria capitale, segnò l’inizio di una nuova fase dell’egemonia araba sulle coste del Kenya durata sino al 1887, quando il sultano le concesse alla Compagnia britannica dell’Africa orientale. Nel 1895 tutta l’area divenne protettorato britannico e fu avviata la progressiva conquista dell’entroterra, completata nel 1920 quando il Kenya divenne colonia della Corona assumendo la denominazione attuale. Dai primi anni del Novecento vi fu un considerevole afflusso di coloni inglesi, soprattutto negli altipiani interni. I coloni sottrassero le terre più fertili agli indigeni, per favorire lo sviluppo di un’agricoltura legata alle grandi piantagioni nelle quali utilizzare la manodopera locale, mentre il settore del piccolo commercio fu monopolizzato da elementi asiatici, in particolare indiani. Già nel periodo fra le due guerre la dura condizione della popolazione locale portò alla costituzione nel 1925 di una prima forma di opposizione organizzata, l’Associazione centrale kikuyu (KCA) a opera di Jomo Kenyatta. Il nascente nazionalismo africano rivendicava una ridistribuzione più equa delle terre, la creazione di scuole indigene, e dal 1947 – anno in cui Kenyatta fondò l’Unione africana del Kenya (KAU) – la fine di ogni discriminazione e l’uguaglianza dei diritti politici fra tutte le componenti della popolazione. Il drammatico acuirsi della tensione nel dopoguerra culminò nel 1952 nell’insurrezione dei kikuyu guidati da D. Khimati, la cosiddetta rivolta dei mau mau. Fra il 1952 e il 1956 si susseguirono una serie di atti di violenza contro i coloni inglesi, finalizzati a scoraggiare la presenza europea nel paese. Il governo coloniale britannico sconfisse la rivolta sia sul piano militare (attraverso il ricorso alla mobilitazione dell’esercito e a una dura azione repressiva), sia su quello politico, facendo leva sulle rivalità tribali (in particolare fra i kikuyu e le altre etnie dell’interno, soprattutto i masai). Soltanto tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio del decennio successivo la situazione andò normalizzandosi in un clima di compromesso fra il governo britannico e la componente più moderata della classe dirigente kenyana, rappresentata dall’Unione democratica africana del Kenya (KADU), che comprendeva le altre tribù, diverse dai kikuyu. La Gran Bretagna si avviò allora a concedere al paese un’ampia autonomia, sino a riconoscergli il diritto all’autogoverno nel 1961. Fu però Kenyatta, divenuto primo ministro dopo la vittoria dell’Unione nazionale africana kenyana (KANU) alle elezioni del maggio 1963, a guidare il paese verso l’indipendenza – acquisita il 12 dicembre dello stesso anno – e verso la costituzione della repubblica, avvenuta nel gennaio 1964. Kenyatta divenne allora presidente e rimase alla guida del paese, dopo la rielezione del 1969 e del 1974, fino al 1978, anno della sua morte. Numerosi emendamenti costituzionali modificarono radicalmente l’iniziale impronta regionalistica dell’ordinamento statale dando vita a una struttura unitaria e centralizzata. Con lo scioglimento della KADU (confluita nella KANU) fu di fatto avviato un sistema a partito unico. Il regime si orientò poi sempre più su posizioni moderate e filo-occidentali, abbandonando l’iniziale progetto della necessaria riforma agraria e emarginando la sinistra che nel 1966, sotto la guida di Oginga Odinga, aveva dato vita all’Unione popolare kenyana (KPU). La difficile situazione politica ed economica spinse Kenyatta a vietare nel 1969 le opposizioni, ponendo il KPU fuori legge. Alla morte del presidente nel 1978 fu il suo vice, Daniel Arap Moi, appartenente alla poco numerosa etnia dei kalenjn, a sostituirlo alla presidenza del KANU e a quella della repubblica, continuando nella linea politica seguita dal suo predecessore. Il 9 giugno 1982 fu formalizzata l’istituzione del partito unico e l’anno successivo Arap Moi fu riconfermato nelle cariche. Dopo il fallimento di un colpo di stato il 1° agosto 1982, nel corso degli anni Ottanta i rapporti del Kenya con la Tanzania e con l’Uganda – che fino al 1977 avevano fatto parte della Compagnia dell’Africa orientale (EAC) – migliorarono, ma non approdarono alla ricostituzione dell’EAC per il perdurare di elementi di tensione con l’Uganda. Nel 1988 Arap Moi fu rieletto per la terza volta alla presidenza. Al tempo stesso si acuirono le tensioni interne, per la richiesta da parte delle opposizioni di avviare una decisa democratizzazione di un sistema politico corrotto e basato su una gestione clientelare, oltre che per le ripercussioni della difficile situazione economica mondiale (in particolare per il crollo del prezzo del caffè e l’aumento di quello del petrolio). Nel gennaio 1991 si fecero tese le relazioni con la Somalia per lo sconfinamento di truppe somale durante la guerra civile in atto in quel paese. Nello stesso 1991, sotto l’ulteriore pressione delle opposizioni, fu finalmente introdotto il multipartitismo. Le elezioni svoltesi l’anno successivo, tuttavia, diedero la maggioranza dei suffragi alla KANU, riconfermando il suo leader Arap Moi come capo dello stato. Al medesimo risultato portarono anche le elezioni del 1997. Nel 2002, dopo la rinuncia da parte di Moi a ricandidarsi, le elezioni presidenziali furono vinte con largo margine da Mwai Kibaki, il quale, alla guida di un’ampia coalizione di gruppi d’opposizione, fu così in grado di porre fine al lungo predominio della KANU.
Nonostante gli sforzi di quest’ultimo, la corruzione restò uno dei maggiori problemi del paese. Nel 2005 il progetto di una nuova costituzione promosso da Kibaki e poi bocciato da un referendum nazionale favorì la formazione di una nuova coalizione di partiti, il Movimento arancione democratico (ODM). Alla vigilia delle elezioni presidenziali e parlamentari del 2007, Kibaki diede vita a una nuova coalizione, il Partito dell’unità nazionale (PNU), grazie alla quale riuscì a ottenere una vittoria di stretto margine sul suo avversario, Raila Odinga, il candidato dell’ODM. Le proteste dell’opposizione degenerarono in diffuse violenze etniche, in particolare tra i kikuyu e i luo. Solo all’indomani della mediazione di Kofi Annan e di Jakaya Kikwete, presidente della Tanzania e segretario dell’Unione africana, fu raggiunto un accordo tra le due parti, in base al quale Kibaki assunse la carica di presidente e Odinga quella di primo ministro. Nel 2010 fu approvata una nuova costituzione che, nel tentativo di venire a capo delle prolungate tensioni politiche, limitò i poteri del presidente e introdusse forme di governo locale. Nonostante il timore di nuovi disordini, le elezioni presidenziali del 2013 si svolsero in un clima di relativa calma e furono vinte da Uhuru Kenyatta, figlio di Jomo, nonostante il sospetto avanzato da parte della Corte penale internazionale di un suo diretto coinvolgimento nelle violenze del 2007.