I commerci nell’ impero

Roma antica L’eredità di Augusto

La struttura attorno a cui Augusto aveva costituito il suo potere non prevedeva un criterio obbligato di successione. L’opinione pubblica romana era però consapevole del fatto che la figura del principe, governante e garante insieme, era il perno insostituibile del nuovo sistema. Occorreva quindi scegliere comunque un successore. Ragioni di opportunità politica convinsero Augusto a ricercarlo nell’ambito della propria gens e a indicare per tempo all’opinione pubblica l’erede designato. A causa della morte di altri eredi prima designati, la scelta cadde infine su Tiberio, figlio di primo letto della sua terza moglie Livia, che gli succedette nel 14 d.C. Giunto al potere all’età di 56 anni, Tiberio regnò, almeno nei primi tempi, con intelligenza politica, mantenendo un atteggiamento di sostanziale rispetto delle prerogative e del prestigio dell’ordine senatorio; operò inoltre interventi di politica finanziaria organici ed efficaci. Più tardi, tuttavia, una serie di circostanze alterarono l’equilibrio della condotta di Tiberio, che iniziò allora a subire in modo sempre più palese l’influenza del prefetto del pretorio Seiano. Alle coorti pretorie, composte di alcune migliaia di effettivi, era stato affidato da Augusto il compito di salvaguardia della persona del principe: esse costituivano l’unica forza militare organizzata e addestrata presente sul territorio italico e per questo per quasi tutti i primi tre secoli dell’impero svolsero nel bene e nel male un ruolo di condizionamento dell’azione politica dei principi. Nel 27 Tiberio, che si era ormai alienato sia la benevolenza del senato sia l’appoggio dell’opinione pubblica, abbandonò Roma e si ritirò a vivere a Capri: da allora in poi egli si impegnò, fino alla morte (37), in una sistematica repressione di veri o presunti attentatori del suo potere. A Tiberio, successe Gaio, soprannominato Caligola (37-41) dal nome delle piccole calzature militari (caligulae) che portava da bambino. Caligola regnò per quattro anni in maniera tirannica e incoerente, pretendendo che la sua persona e quella dei suoi familiari fossero oggetto di culto divino e compiendo atti irresponsabili sia in politica interna sia in politica estera, fino a quando fu eliminato dai pretoriani. Assai più equilibrato risultò il regno del suo successore Claudio (41-54). Fino ad allora estraneo alla vita politica, colto studioso di storia preromana, Claudio fu acclamato imperatore dal senato su iniziativa dei pretoriani, che lo consideravano individuo facilmente manipolabile. In realtà la personalità di Claudio si rivelò tutt’altro che debole e negli anni in cui fu al potere resse l’impero con acume e intraprendenza: la sua attenzione si rivolse in particolare alle province, di cui favorì la romanizzazione. Egli permise l’ingresso in senato anche a ricchi rappresentanti dell’aristocrazia fondiaria di una provincia fra le più avanzate nel processo di romanizzazione, la Gallia sudorientale. Fu questo un provvedimento assai impopolare presso gli ambienti conservatori della nobiltà senatoriale di Roma, che temevano sia la fine del loro monopolio di potere sia la concorrenza dei latifondisti galli. Grande impulso Claudio diede ai lavori pubblici su tutto il territorio dell’impero, dalla rete stradale agli acquedotti, dai canali alle imprese di bonifica, all’edificazione di nuovi porti (Ostia). Il regno di Claudio fu interrotto tragicamente dalla moglie Agrippina, che, in accordo col prefetto del pretorio Afranio Burro avvelenò Claudio al fine di insediare sul trono il proprio figlio di primo letto Nerone. Il regno di Nerone (54-68) espresse in maniera politicamente assai concreta la contraddizione di un potere sempre più incerto, a distanza di circa mezzo secolo dal principato di Augusto, fra la tentazione della monarchia assoluta e la difficile salvaguardia dell’equilibrio fra i ceti e del consenso di tutti. In effetti fra il 54 e il 59 Nerone, ispirato dal filosofo Seneca, governò in accordo con il senato; successivamente, però, con un deciso cambio di orientamento politico-ideologico, egli preferì assumere comportamenti propri di un monarca assoluto orientale. Il nuovo indirizzo di governo gli inimicò le classi dirigenti, ma gli conciliò in compenso il favore del popolo, che apprezzava sia la pompa sfarzosa di cui l’imperatore si circondava, sia le ripetute elargizioni, sia l’allestimento di sontuosi spettacoli, sia il largo impiego di disoccupati nella megalomane opera di ricostruzione seguita al disastroso incendio di Roma del 64. Nerone non fu in grado però di gestire un mutamento così profondo di linea politica: egli commise infatti molti errori di prospettiva e misura, rendendo vano quanto di positivo pure aveva fatto. Le sue iniziative megalomani e la repressione violenta degli oppositori aristocratici scatenarono fermenti di ribellione: nel 68, ormai in totale disgrazia, tentò una breve fuga per poi scegliere il suicidio.