L’India contemporanea

India Da Rajiv Gandhi a Manmohan Singh

Dopo la morte di Indira Gandhi salì al potere il figlio Rajiv Gandhi, che fu primo ministro dal novembre del 1984 al novembre del 1989. Forte di un ampio consenso elettorale – ottenne 401 seggi su 508 – Rajiv Gandhi tentò di ricondurre il paese sulla strada della normalizzazione, favorendo, con risultati nel complesso soddisfacenti, lo sviluppo economico. Gli anni del suo governo furono tuttavia profondamente segnati dal problema dei sikh, che ripresero a rivendicare la fondazione di uno stato indipendente con rinnovati atti di terrorismo. I ripetuti tentativi di conciliazione promossi dal premier, che nel 1985 cercò l’alleanza con l’ala moderata dei sikh e che nell’ottobre del 1986 sfuggì a un attentato terroristico, fallirono del tutto. Rajiv Gandhi dovette fronteggiare anche le forti spinte all’indipendenza che vennero manifestandosi in molti stati dell’Unione – in particolare nell’Assam, nel Bengala, nel Kashmir e nel Tamil Nadu – e che indussero il governo a proclamare più volte, tra il 1987 e il 1989, lo stato d’emergenza e a rafforzare i poteri del governo centrale sulle autorità provinciali. Nonostante l’incontro con il premier pakistano Benazir Bhutto nel 1988, anche le relazioni con il Pakistan rimasero estremamente tese. Alle elezioni del novembre del 1989, dopo una serie di scandali che ebbero l’effetto di appannare l’immagine pubblica del premier, il Partito del congresso fu sconfitto. S’incaricò di formare il nuovo governo il leader del Fronte Nazionale V. Pratap Singh, che si pose alla testa di una coalizione di partiti di destra sostenuti all’esterno dai partiti comunisti e che dovette affrontare, nell’ottobre del 1990, nuovi violenti scontri tra musulmani e indù. Gli subentrò C. Sekhar, che rimase a capo del governo fino alle elezioni del maggio del 1991. Durante la campagna elettorale, che fu accompagnata da sanguinosi conflitti tra indù e musulmani, il 21 maggio Rajiv Gandhi – che stava iniziando a riconquistare un ampio consenso tra la popolazione – rimase vittima di un attentato dinamitardo organizzato dalle “tigri del Tamil” nella città di Sriperumpudur. Le elezioni, rimandate a giugno, registrarono una sconfitta del partito Janata e una ripresa del Partito del congresso, in cui a Rajiv Gandhi era subentrato Narasimha Rao, che formò un governo di minoranza. Il nuovo primo ministro, che dovette affrontare nuove esplosioni di violenza e la grave emergenza economica creata dalla svalutazione della rupia e dall’inasprimento dei prezzi, promosse un’ampia politica di liberalizzazione approvando gli investimenti stranieri e riducendo in maniera consistente le concessioni statali all’industria. Nel febbraio del 1992 si tennero importanti elezioni nel Punjab, che nonostante una bassissima partecipazione, registrarono una significativa vittoria del Partito del congresso, che si aggiudicò 85 seggi su 117 nell’assemblea locale e 11 rappresentanti su 13 nel parlamento federale di New Delhi. Più in generale si ebbero in tutto il paese nuovi scontri sociali e religiosi, che nel dicembre del 1992 portarono alla distruzione, da parte di 300.000 indù, della moschea di Adhodhya. In politica estera, il nuovo governo si caratterizzò per un intenso dinamismo. Divenuta membro non permanente del Consiglio di sicurezza dell’ONU, l’Unione indiana nel dicembre del 1991 strinse nuovi rapporti commerciali e di cooperazione con la Cina di Li Peng; nell’agosto del 1991 rinnovò il trattato ventennale di mutua cooperazione siglato con la Russia nel 1971; nel 1992 riaprì anche il dialogo con il Pakistan; in concomitanza con la crisi e quindi con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, vennero infine conclusi, sempre al principio del 1992, nuovi accordi con gli Stati Uniti. Con il crollo della potenza egemonica di Mosca, New Delhi iniziò più in generale a rivendicare un ruolo di primo piano nelle regioni dell’Asia meridionale. Nel 1993 si fecero peraltro più forti e drammatiche le tensioni nel Kashmir. Al tempo stesso si accentuò l’instabilità politica del paese e ottenne consensi sempre più ampi il movimento nazionalista e integralista indù e il partito che dava a esso espressione, il Bharatiya Janata Party (BJP). Coinvolto in gravi scandali, il Partito del congresso fu sconfitto alle elezioni del 1996 e Narasimha Rao dovette dimettersi da primo ministro. Gli subentrò Atal Bihari Vajpayee del BJP, che tuttavia si dimise dopo pochi giorni quando fu chiaro che non avrebbe ottenuto la fiducia in parlamento. Seguirono due governi guidati da H.D. Deve Godwa (giugno 1996 – aprile 1997) e da Inder Kumar Gujral (aprile 1997 – marzo 1998), esponenti della destra induista moderata. Dopo le elezioni del 1998 il BJP tornò al governo con Atal Bihari Vajpayee. La sua decisione di effettuare test nucleari al confine con il Pakistan provocò la reazione di quest’ultimo, che rispose effettuando a sua volta esperimenti atomici, e la condanna della comunità internazionale. Nelle elezioni del 1999 il BJP e Vajpayee furono riconfermati al potere. La tensione con il Pakistan, in particolare nel Kashmir, rimase altissima, come dimostrarono nel dicembre del 1999 il dirottamento di un airbus della Indian Airlines, nel gennaio del 2000 la strage del mercato di Srinagar e nel marzo dello stesso anno un nuovo massacro di civili nel Kashmir. La guerra in Afghanistan nel 2001-02 riacutizzò le tensione con il Pakistan, giunta alla soglia dello scontro armato. All’indomani dell’inatteso successo elettorale del 2004, il Partito del congresso formò un governo di coalizione, l’Alleanza progressita unita (UPA), sotto la guida di Manmohan Singh, ex ministro delle finanze sotto Narasimha Rao.