I Balcani dopo il congresso di Berlino del 1878

Germania Il Secondo Reich (1871-1918)

Il profilo politico-istituzionale dell’impero fu definito dalla costituzione del 14 aprile 1871, che estese agli stati tedeschi meridionali l’ordinamento già in vigore, fin dal 1867, nella Confederazione del nord. Il Reich si diede una struttura formalmente federale. Ognuno dei venticinque stati che lo costituivano mantenne il proprio governo, le proprie assemblee legislative e i propri apparati amministrativi. Al tempo stesso, gli stati confederali furono inquadrati in un meccanismo politico più ampio fondato su tre istituzioni fondamentali: il Reichstag (parlamento imperiale) eletto a suffragio universale da tutti i cittadini dell’impero; il Bundesrat (consiglio federale) composto da funzionari nominati dai singoli stati; e la Cancelleria imperiale, titolare del governo del Reich, formata dal cancelliere e dai segretari di stato. Limitato a funzioni puramente consultive, il Reichstag non poté esercitare un potere reale; i veri centri della potenza politica furono piuttosto il Bundesrat – dominato dall’elemento prussiano – e soprattutto la Cancelleria, responsabile soltanto di fronte al sovrano. Tra il 1871 e il 1890 questa costruzione politica fu interamente dominata da Bismarck, al tempo stesso cancelliere dell’impero e primo ministro dello stato prussiano, che fu sostenuto dalla corona, dalla grande aristocrazia fondiaria delle province a est dell’Elba (i Junker), dai più alti gradi dell’esercito, dai partiti conservatori e dal partito nazional-liberale. In questi anni Bismarck perseguì un duplice disegno: da un lato, quello di attuare una più rigida centralizzazione del sistema politico imperiale a favore della Prussia; dall’altro lato, quello di bloccare ogni sviluppo nella direzione del parlamentarismo e delle libertà politiche. Con questo progetto, il “cancelliere di ferro” si dovette scontrare dapprima con il partito del Centro cattolico (1871-78) e quindi con il Partito socialdemocratico (1878-90). Il conflitto con il partito del Centro e con la chiesa cattolica – il Kulturkampf – fu diretto a colpire le tendenze particolaristiche e antiprussiane ancora tenacemente radicate negli stati tedeschi meridionali e si tradusse nell’introduzione di una serie di provvedimenti che sottoponevano la chiesa nazionale al controllo dello stato. Condotto con l’appoggio del partito nazional-liberale, il Kulturkampf si risolse in un insuccesso: non soltanto i vescovi tedeschi rifiutarono fermamente i provvedimenti imposti dal governo, ma anche il partito del Centro – il destinatario politico della strategia bismarckiana – finì per rafforzare la propria presenza in parlamento ottenendo alle elezioni del 1878 quasi il doppio dei seggi che aveva al principio degli anni Settanta. Nello stesso anno, la strategia bismarckiana mutò radicalmente. In conseguenza della crisi economica internazionale iniziata nel 1873 venne profilandosi un’intesa sempre più stretta tra il grande capitale industriale e la grande proprietà terriera sull’ipotesi di una scelta protezionistica; in questo quadro, la vecchia alleanza tra Bismarck e i nazional-liberali – che erano orientati in senso liberista – venne meno; al tempo stesso il Cancelliere ricercò l’appoggio del Centro, che era ormai diventato il punto di equilibrio di qualsiasi maggioranza in seno al Reichstag. L’avversario principale del sistema di potere bismarckiano divenne a questo punto il Partito socialdemocratico tedesco (SPD), che era sorto nel 1875 dall’unione dell’Associazione generale degli operai di Ferdinand Lassalle (1863) e del Partito operaio socialdemocratico di Wilhelm Liebknecht e August Bebel (1869) e che nel 1877 aveva raccolto circa mezzo milione di voti, sull’onda anche della prepotente industrializzazione della Germania. Contro la SPD Bismarck mise in atto una duplice strategia: da un lato, a partire dall’ottobre del 1878, fece approvare una serie di leggi eccezionali che abolivano la stampa di partito e limitavano fortemente il diritto di associazione; dall’altro lato, tra il 1883 e il 1889 inaugurò un ampio progetto di legislazione sociale teso a realizzare l’integrazione del movimento operaio nelle strutture politiche del Reich. Come era accaduto con il Kulturkampf, anche in questo caso la politica bismarckiana si risolse, sui tempi lunghi, in un insuccesso: nonostante la repressione, la SPD continuò a raccogliere consensi sempre più ampi, ottenendo nelle elezioni del 1890 circa un milione e mezzo di voti e dandosi, al congresso di Erfurt (1891), un programma pienamente marxista. Nel frattempo Bismarck fu costretto a rassegnare le dimissioni (1890): in parte, per il sostanziale fallimento della politica antisocialista; in parte per il contrasto personale che lo oppose all’imperatore Guglielmo II, salito al trono nel 1888; e in parte, ancora, per la volontà del blocco conservatore agrario-industriale di avviare quella politica di potenza mondiale (Weltmachtpolitik) che il vecchio cancelliere aveva escluso dal proprio orizzonte ricercando un possibile equilibrio tra la Russia e l’impero asburgico e circoscrivendo le imprese coloniali per non entrare in conflitto con la Gran Bretagna (congresso di Berlino 1878; patto dei tre imperatori 1881; Triplice Alleanza 1882; trattato di controassicurazione 1887). Dopo la sua caduta, si susseguirono alla Cancelleria Caprivi (1890-94), Hohenlohe (1894-1900), Bülow (1900-1909) e Bethmann-Hollweg (1909-17). Il sistema politico rimase quello definito dalla costituzione del 1871; in realtà, dopo Bismarck, la Cancelleria cessò di essere il punto di equilibrio del sistema imperiale e governarono direttamente le forze politicamente irresponsabili che – con la copertura di Guglielmo II – gravitavano attorno alla corte, ai circoli militari e ai grandi gruppi di interesse. Fino al 1914, in ogni caso, la vicenda complessiva del II Reich fu dominata dal blocco agrario-industriale e dal crescente peso politico dei militari. Con la paralisi definitiva dello schieramento liberale, l’unica forza democratica e progressista rimase la SPD – dal 1912 partito di maggioranza relativa al Reichstag – che finì tuttavia per scindersi in varie correnti e per integrarsi nelle strutture del Reich, giungendo a votare nel 1914 – contro il principio dell’internazionalismo operaio – i crediti di guerra. In politica estera, la Germania di Guglielmo II abbandonò la strategia della prudenza che aveva caratterizzato le scelte bismarckiane: un’intensa politica di armamento navale rese sempre più difficili i rapporti con l’Inghilterra; venne a cadere l’accordo con la Russia, che si avvicinò alla Francia, e si fece invece sempre più stretto il rapporto con l’Austria. Coinvolta in un impetuoso sviluppo economico e divenuta quindi la prima potenza industriale europea, dopo una serie di disastrose iniziative diplomatiche la Germania tentò quindi l’“assalto al potere mondiale”, col progetto di inserirsi organicamente nei conflitti imperialistici tra le grandi potenze e di ottenere una radicale redistribuzione delle risorse mondiali. Decisa a legittimare la politica balcanica dell’impero di Francesco Giuseppe, allo scoppio della prima guerra mondiale (1914-18) la Germania si schierò con l’Austria contro le potenze della Triplice Intesa, e dopo alcuni fulminei successi iniziali fu costretta a una lunga guerra di logoramento da cui uscì gravemente sconfitta. A partire dal 1917 la guida del paese fu di fatto assunta dai vertici militari, controllati allora dai generali Hindenburg e Ludendorff. Nello stesso periodo ripresero fiato le opposizioni, che animarono un’intensa campagna di scioperi contro la guerra e la classe politica guglielmina.