Gli Stati Uniti d’America nel 1783

Stati Uniti d’America La Costituzione e il difficile consolidamento degli Stati Uniti

Il nuovo stato fu il primo stato “borghese” della storia moderna, senza gerarchie nobiliari, con un’idea dell’eguaglianza fondata sugli eguali diritti di tutti alla corsa al benessere, basato su istituzioni parlamentari, sulla subordinazione dei militari al potere civile e sulla separazione fra stato e chiese. Il diritto di voto rimase limitato ai contribuenti. Una grave eredità fu il mantenimento dell’istituto della schiavitù, che stava a fondamento dell’economia degli stati del sud. Dopo aver avuto un’unione debole, di tipo confederale, dal 1781 al 1786, gli Stati Uniti adottarono nel 1787 una Costituzione che stabilì un’unione federale, entrata in vigore nel 1789 e integrata nel 1791 da una “dichiarazione dei diritti” (Bill of Rights). Il potere legislativo fu affidato a un Senato, espressione degli stati, e a una Camera dei rappresentanti, espressione del popolo nel suo insieme. Il potere esecutivo fu attribuito a un presidente eletto ogni quattro anni. Fra i fautori di un forte potere federale si collocarono Washington, Franklin, John Hamilton, James Madison, John Jay, che furono perciò detti “federalisti” di contro agli “antifederalisti”. Nel 1789 il governo andò ai federalisti e Washington fu eletto presidente. Gli Stati Uniti avevano allora poco meno di 4 milioni di abitanti, di cui 700 mila neri schiavi e 60 mila neri liberi. In quello stesso anno divenne operativa la Corte suprema, con il compito di tutelare la costituzionalità delle leggi. Nel nuovo governo assunse un ruolo di spicco Hamilton, ministro del Tesoro, di tendenze centralizzatrici e favorevole al dominio delle minoranze e a un ruolo quasi monarchico della presidenza. Queste tendenze, sostenute attivamente anche dal vicepresidente John Adams, vennero a mano a mano sempre più avversate da Madison e da Jefferson. Andarono così delineandosi due partiti: il federalista, centralista e legato all’aristocrazia finanziaria urbana, e il repubblicano, che mirava a un regime fondato sugli agricoltori indipendenti tutori dello spirito di libertà e della sovranità popolare. A loro volta, la Rivoluzione francese e le guerre europee produssero ulteriori divisioni: in generale i federalisti erano filoinglesi e i repubblicani filofrancesi. Nel 1796 Washington lasciò la presidenza, esortando gli Stati Uniti a non lasciarsi coinvolgere nei contrasti del Vecchio Mondo e ponendo così le basi di un orientamento “isolazionista”, destinato a segnare per oltre un secolo la politica estera statunitense. A lui succedette John Adams (1797-1801). In seguito a una politica di rappresaglie messa in atto dalla Francia, che accusava gli americani di appoggiare l’Inghilterra, il paese evitò a stento la guerra. Ma il governo varò nel 1798 una serie di leggi contro gli stranieri e i sediziosi (filofrancesi), che, se pure vennero applicate con moderazione, accesero lo scontro politico interno fra i due partiti. Dopo una lacerante campagna elettorale nel 1800, Thomas Jefferson fu eletto presidente nel quadro di quella che fu definita la “rivoluzione del 1800”. In quello stesso anno la capitale venne trasferita da Filadelfia a Washington. Jefferson mise subito in atto una politica di riconciliazione interna. La sua politica estera fu assai attiva. Nel 1803 gli Stati Uniti acquistarono da Napoleone la Louisiana. Rieletto nel 1804, il presidente stroncò nel 1805 una cospirazione interna organizzata dal suo oppositore Aaron Burr. Un suo deciso avversario fu il presidente della Corte suprema John Marshall, federalista e intransigente fautore del primato del governo federale sui singoli stati. Di fronte all’ostilità dell’Inghilterra, che, violando la neutralità americana, non esitava a controllare e bloccare le navi americane, tra il 1807 e il 1809 le relazioni fra i due paesi peggiorarono al punto di far temere la guerra, che però venne evitata. Gli Stati Uniti decretarono l’embargo generale nel commercio con l’estero, sospeso però nel 1809 per i danni che ad essi derivavano. A Jefferson succedette un altro repubblicano, James Madison (1809-17), eletto nel 1808 e rieletto nel 1812. I rapporti con l’Inghilterra, in seguito alla rinnovata volontà di questa di non rispettare la neutralità americana, peggiorarono questa volta fino alla guerra, dichiarata nel giugno del 1812. L’impreparazione militare degli americani era grave. Essi fallirono nel tentativo di invadere il Canada. Il nord filoinglese, che aveva fortissimi interessi al commercio con la Gran Bretagna, minacciò la secessione. Nell’agosto del 1814, truppe britanniche attaccarono la stessa capitale. Ma il generale Andrew Jackson ottenne una brillante vittoria nel gennaio del 1815 a New Orleans, quando già la pace era stata formalmente firmata a Gand il 24 dicembre 1814. Intanto, a partire dalla fine del secolo, gli americani avevano iniziato una vasta azione espansiva a danno degli indiani, in molti casi appoggiati da inglesi e spagnoli, sottraendo loro le terre e massacrandone la popolazione. La spinta verso ovest fu tale da spostare intorno al 1830 la frontiera della colonizzazione oltre la barriera del Mississippi. Nel 1810 la Spagna cedette agli Stati Uniti la Florida occidentale. La guerra con l’Inghilterra ebbe un duplice effetto: da un lato favorì lo sviluppo della borghesia industriale degli stati della Nuova Inghilterra; dall’altro segnò il declino politico del partito federalista, accusato di atteggiamento filoinglese. Finite le grandi guerre europee con la caduta di Napoleone, gli Stati Uniti, del tutto ostili ai tentativi di ripresa di influenza da parte delle potenze del vecchio continente sulle Americhe, sotto la presidenza del repubblicano James Monroe (1817-25) emisero nel 1823 la “Dichiarazione di Monroe”, secondo la quale essi non avrebbero tollerato nuove colonie nel Nuovo Mondo e interferenze politiche esterne.