Gli scontri fra Cesare e Pompeo

Cesare, Gaio Giulio

(Roma 100, † ivi 44 a.C.). Generale e uomo politico romano. Rampollo della gens Julia, spirito colto e raffinato, dopo aver ricoperto varie cariche fin dal 73, fu eletto pontifex maximus nel 63 e ottenne il rispetto e la deferenza dei cittadini più in vista dell’epoca. Pretore nel 62, gli fu assegnato per l’anno successivo, il governo della Spagna Ulteriore. Qui, spingendosi fin sulle coste della Callaecia ottenne la rapida sottomissione delle primitive popolazioni locali e ridusse così, secondo gli storici antichi, tutta l’Iberia alle dipendenze di Roma. Negatogli dal senato il trionfo, strinse, con Pompeo e Crasso, un patto erroneamente definito in età moderna primo triumvirato – si trattò infatti di un accordo privato non ufficiale e non di una magistratura collegiale – ottenendo in questo modo il sostegno alla propria candidatura al consolato per il 59. Schiacciata quindi con l’uso della forza l’opposizione del collega Bibulo, Cesare fece convalidare la sistemazione data da Pompeo all’Oriente, concedere ai pubblicani di Crasso le agevolazioni desiderate, votare due nuove leggi agrarie e assegnare a se stesso per cinque anni il governo congiunto della Gallia Cisalpina e Narbonese. Partito per le Gallie all’inizio del 58, desideroso di raggiungere una posizione di primato nel mondo politico romano grazie a una spettacolare campagna militare, colse immediatamente l’opportunità di intervenire in Gallia offertagli da una migrazione di elvezi attraverso la Provincia. Questi ultimi furono ben presto sconfitti a Bibracte. Un’identica sorte subirono i germani di Ariovisto, costretti a ripassare frettolosamente il Reno. I belgi intimoriti diedero inizio a preparativi di guerra che gli offrirono il pretesto di attaccarli: la loro resistenza fu stroncata in un solo anno (57), suscitando a Roma un grandissimo entusiasmo alla notizia della vittoria. Impegnato negli anni successivi (56-55) contro gli usipeti e i tencteri, Cesare, dopo aver portato la guerra in Germania, ne distrusse i villaggi disperdendo le popolazioni nella foresta. Dopo aver in seguito ottenuto in Britannia la sottomissione di tutte le tribù stanziate a sud del Tamigi (54) – gli era stato nel frattempo rinnovato il comando per altri cinque anni da Pompeo e Crasso consoli (55) – fu impegnato tra il 54 e il 51 in una serie quasi ininterrotta di rivolte che confluirono, nel 52, nell’insurrezione generale di tutti i popoli della Gallia, guidati da Vercingetorige, capo degli arverni che, assediato ad Alesia, allo stremo delle forze, fu infine costretto ad arrendersi. Tutta la regione divenne provincia romana. In questi anni non si hanno notizie di attriti con Pompeo, ma la morte di Crasso a Carre (53) e di Giulia, figlia di Cesare e moglie di Pompeo, intaccarono i fragili equilibri di potere. In un primo momento Cesare, ottenne dei vantaggi dalla lex de iure magistratuum di Pompeo, grazie alla quale i suoi tribuni si sarebbero potuti opporre alla richieste di un suo ritorno a Roma prima che si candidasse al consolato. Pompeo passò infine alla fazione a lui avversa e, vanificato ogni tentativo di pacificazione, il 1° gennaio del 49 i consoli ingiunsero a Cesare di lasciare il suo esercito e di tornare a Roma. Il 10 gennaio, pronunciata la famosa frase “Alea iacta est”, passò il Rubicone con le truppe. Si impadronì in breve tempo dell’Italia, sconfisse in Spagna i luogotenenti di Pompeo, nel frattempo fuggito in Grecia; raggiuntolo subì gravi perdite a Durazzo, ma gli inflisse una sconfitta definitiva a Farsalo (48). Lo inseguì in Egitto, dove Pompeo trovò la morte per mano di Tolomeo XIII, guadagnato alla sua causa dalla regina Cleopatra; dopo sanguinose battaglie sconfisse e uccise il sovrano egiziano. Vinto quindi a Zela Farnace, il figlio di Mitridate, che voleva approfittare della guerra civile per ricostruire il regno paterno, nel 47 sbarcò in Africa e batté le truppe pompeiane a Tapso. Risultò vincitore anche a Munda (45) contro i figli di Pompeo. Eletto dittatore fin dal 48, dittatore a vita nel 44, console per il 48 e per il 46, anno in cui ricevette anche una prefectura morum per il 45 e il 44, Cesare fu investito in quest’ultimo anno anche della sacrosanctitas tribunicia: apparve chiaro che stava gettando le basi di un regime monarchico. Gli furono tributati onori straordinari: monete con la sua effigie, il manto di porpora, emblema regale, un tempio alla sua Clemenza, un flamen; un mese, Quintilis, prese il nome di Iulius. Cauto riformatore (fondazione di nuove colonie, assegnazione di terre), rigoroso e oculato amministratore (non cancellazione dei debiti, introduzione di nuovi dazi), al governo non si dimostrò certo un rivoluzionario, ma l’evidente evoluzione verso la monarchia risultò inammissibile anche per i suoi antichi sostenitori: alle idi di marzo del 44 un gruppo di congiurati guidati da Bruto e Cassio lo assassinò di fronte alla statua di Pompeo. Il suo testamento lasciava un donativo di trecento sesterzi a ogni cittadino romano e un erede: C. Ottavio, il futuro Augusto. Uomo politico e stratega insuperato, Cesare fu anche oratore e scrittore assai efficace. Ci ha lasciato due opere poi a lungo celebrate: il De bello gallico e il De bello civili.