migratori, flussi

  1. Le origini del fenomeno
  2. Le conseguenze
1. Le origini del fenomeno

I flussi migratori sono sempre stati una costante della storia umana fin dalla preistoria, ma solo recentemente la loro portata ha subito un'impennata tale da accendere in Europa e in tutto il mondo occidentale l'attenzione dell'opinione pubblica e dell'agenda politica. Tra le conseguenze dei processi di decolonizzazione, che hanno avuto un'importante accelerazione nella seconda metà del XX secolo, vi è stata infatti la tendenza di consistenti settori della popolazione di questi nuovi Stati ad abbandonare il loro territorio, trasferendosi nelle ex madrepatrie coloniali. Il fenomeno ha comportato un deciso mutamento nelle dinamiche migratorie rispetto ai decenni precedenti e l'Europa si è trovata ad ospitare molti più immigrati di quanti non fossero gli emigrati europei in precedenza trasferitisi negli altri continenti. A partire soprattutto dagli anni Novanta del XX secolo la tendenza si è consolidata sotto le spinte della globalizzazione, con l’ampliamento del numero di paesi interessati dal fenomeno, che non riguardava solo le ex madrepatrie coloniali, ma in generale le aree più ricche di risorse, e quindi di opportunità di lavoro, di tutto il continente. Ne è un esempio lampante il caso dell'Italia, che fino a tutti gli anni Ottanta era stata toccata solo marginalmente dal fenomeno dell'immigrazione, per poi subirne radicalmente le conseguenze nel decennio successivo. In Italia le zone più interessate dal fenomeno sono quelle tradizionalmente benestanti e dove maggiore è la richiesta di manodopera non specializzata a basso costo, in particolare l’area centro-settentrionale. I flussi migratori verso il Mezzogiorno sono invece meno consistenti e si sono concentrati soprattutto nelle aree agricole, dove gli immigrati sono impiegati come braccianti stagionali. Ulteriore elemento di novità riguarda le popolazioni che ne sono protagoniste: non più immigrati provenienti prevalentemente dalle zone coloniali (in particolare del Nordafrica), ma anche da alcuni Stati dell'Europa orientale a seguito della caduta del muro di Berlino e la fine blocco sovietico. Infine, sotto la spinta della globalizzazione, ha avuto un notevole incremento l’immigrazione asiatica e dall’America Latina.

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2. Le conseguenze

Le conseguenze di queste massicce ondate migratorie in Occidente sono state in primo luogo di ordine sociale: Stati e società fino a quel momento piuttosto omogenei dal punto di vista etnico, culturale, linguistico e religioso, o comunque dotate di un loro equilibrio interno, si sono trovate a dover affrontare la sfida rappresentata dall’integrazione, uno dei maggiori problemi della politica sociale dei paesi dell’Europa occidentale degli ultimi anni. Tra le conseguenze di un processo di immigrazione massiccio e accelerato c’è spesso stato il cambiamento improvviso dei connotati delle società più interessate a questo fenomeno: il richiamo ad antiche tradizioni culturali e religiose, la sottolineatura dell'alterità tra la dimensione di un “noi” e un “loro” costituito dai nuovi arrivati, il sorgere di movimenti localisti o neonazionalisti, sino a forme di razzismo e xenofobia sono tutti segnali, per quanto di natura diversa, delle difficoltà di parti consistenti delle popolazioni europee a confrontarsi con le criticità portate dai nuovi flussi migratori. Di converso, anche gli immigrati hanno incontrato concrete difficoltà nell'inserirsi nelle nuove realtà, riproponendo spesso modelli di comunità chiusi, che non hanno favorito il dialogo tra culture diverse. L’esempio tipicamente americano del melting pot, cioè del crogiolo di razze e culture, in cui i vari elementi della società venivano mescolati, assimilati e ricomposti in una nuova comunità, aveva già mostrato chiaramente segnali di crisi. Tra i modelli dominanti in Europa, il multiculturalismo, rifiutando l'idea della superiorità della tradizione maggioritaria sulle altre, presuppone che le diverse culture ed etnie presenti sullo stesso territorio debbano essere trattate con uguale dignità e uguale considerazione, valorizzando e non mortificando gli elementi di differenza. Su questa scia si muovono le esperienze britannica e olandese, che accettano e promuovono l'espressione pubblica delle diversità senza ricercare una sintesi tra di esse, purché questi processi si svolgano in linea con le regole del metodo democratico. Di altro segno è invece la via francese dell’assimilazionismo, secondo cui gli immigrati devono condividere pienamente gli ideali e il modello culturale del paese ospitante, che favorisce questa integrazione offrendo la cittadinanza repubblicana dopo cinque anni di permanenza. Queste ricette si sono rivelate però complessivamente poco adatte a governare il sempre più pressante problema dell'immigrazione: esse non solo non sono riuscite a integrare rapidamente i nuovi arrivati, ma hanno ottenuto risultati deludenti anche tra i cosiddetti immigrati di seconda generazione, nati, educati e cresciuti in Europa. La ricerca di nuovi modelli di integrazione e convivenza è diventata peraltro ancor più pressante in seguito agli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 e al clima di odio e sospetto che ha rinfocolato la diffidenza nei confronti dello straniero, soprattutto se di religione musulmana. Da più parti si è infatti accusato un sistema che ha permesso un'immigrazione veloce e incontrollata e che non è stato in grado di gestirla. La presenza di culture e tradizioni diverse non si è quindi rivelata una risorsa, ma bensì un problema che ha portato all'isolamento dei nuovi arrivati e alla creazione di comunità chiuse e, in alcune grandi città, di veri e propri quartieri-ghetto. Tra i più convinti fautori di questa interpretazione, vi è quindi chi, come Christopher Caldwell, ha suggerito di abbandonare i vecchi modelli nazionali rivelatisi fallimentari e di promuovere e costruire una riconoscibile cultura europea in grado di attrarre quei milioni di immigrati che sarebbero altrimenti tentati dalle sirene di uno “scontro di civiltà” tra Occidente e Islam. [Francesco Regalzi].

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