voto, diritto di

Il diritto di voto si configura giuridicamente come la caratteristica essenziale dell’elettorato attivo (il diritto cioè di essere elettore), che a sua volta costituisce uno degli aspetti peculiari dello stato di cittadinanza attiva. Tecnicamente esso si concretizza con l’iscrizione del cittadino-elettore nelle liste elettorali comunali, ciò che lo autorizza a partecipare alle elezioni. Dal punto di vista teorico, tale diritto può esser concepito in tre modi diversi: quello giusnaturalista, quello positivista e quello storico. Secondo i sostenitori del diritto naturale, il diritto di voto fa parte del patrimonio originario dei diritti politici dell’individuo il quale, mettendolo in pratica insieme agli altri membri della comunità, pone concretamente in essere la sovranità popolare. Viceversa, secondo la dottrina giuspositivista, esso nasce, come del resto ogni altro principio giuridico, dallo stesso ordinamento statale in quanto “funzione” attribuita all’individuo da una specifica norma positiva. Una sorta di conciliazione di queste posizioni opposte avviene nell’ambito della scuola storica, laddove si propone, pur nel presupposto dell’origine ordinamentale statale del diritto elettorale, che tuttavia si creino uno spazio e un interesse autonomi del cittadino e che questi coincidano con l’interesse pubblico, in modo tale che l’attività e la volontà del singolo elettore concorrano a formare la volontà statuale. In tutti i casi, il diritto di voto, individuale, diretto e indiretto, assolve a un ruolo preminente nella procedura di costituzione degli organi del potere politico (parlamenti, consigli) all’interno dello stato rappresentativo e di diritto. Esso rappresenta una conquista del pensiero liberaldemocratico nella sua lotta contro l’assolutismo, il dispotismo e il totalitarismo, come dimostrano tra l’altro le vicende plurisecolari legate all’ottenimento del suffragio universale. In quanto tale è stato omogeneamente recepito e sancito all’interno delle carte costituzionali e degli statuti dei paesi democratici. L’art. 48 della Costituzione italiana prevede che “sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età”, ossia (dal 1975) 18 anni. Nello stesso articolo si enumerano le qualità del voto: esso è “personale ed eguale, libero e segreto”. Il carattere personale del voto esclude che tale diritto possa essere ceduto a chiunque, ma non impone necessariamente che l’elettore debba essere materialmente presente nel luogo e nel momento dell’espressione del voto, come prescrive l’interpretazione rigida prevalente in Italia. Alcune legislazioni, per esempio quella inglese, francese o svedese, ammettono il voto per procura, per commissione o per corrispondenza. Se la libertà e la segretezza sono requisiti che non pongono particolari problemi interpretativi, al contrario l’eguaglianza ne suscita parecchi. Al di là degli aspetti più ovvi, relativi all’eguaglianza del valore numerico di ogni voto (il che implica l’esclusione del voto plurimo), esistono forme storiche di diseguaglianza derivante dalla diversa capacità elettorale dei cittadini (si pensi al sistema di votazione per classi oppure al voto censitario) o dalle differenze nel valore efficiente di ogni singolo voto. Sotto quest’ultimo punto, intrinsecamente connesso col funzionamento dei sistemi elettorali, si celano le più insidiose e nascoste possibilità di colpire l’eguaglianza nel voto. L’esercizio del diritto di voto può talora esser limitato per conclamata incapacità civile, per effetto di una sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalle leggi. Collegata al diritto di voto è la facoltà di concorrere alla presentazione delle liste dei candidati e alla propaganda elettorale.