università

L’insegnamento superiore fu impartito sino al XII secolo in scuole che dipendevano dalle cattedrali e dai grandi monasteri. A partire dal XIII secolo si costituirono corporazioni di maestri e studenti, impegnati nella ricerca e nella trasmissione di conoscenze razionali. Le università così costituite giuridicamente ricevettero dal papa o dall’imperatore il diritto di conferire, al termine degli studi, titoli validi universalmente. A Parigi, Bologna, Oxford si organizzarono così università cui furono riconosciuti privilegi fiscali e giudiziari e autonomia amministrativa. Le università medievali prevedevano la frequenza della facoltà delle arti preliminarmente alla scelta tra la teologia, il diritto, la medicina. Una concezione unitaria del sapere prevaleva nel sistema delle discipline: la teologia dominava le altre forme di conoscenza.

Dopo aver vissuto un’età di espansione e rinnovamento nell’età dell’Umanesimo, le università europee divennero con la Riforma roccaforti della contrapposizione confessionale e persero gran parte della loro autonomia, legandosi sempre più agli stati territoriali. Nei paesi cattolici si affermarono università in cui erano molto attivi e influenti i gesuiti. Nel Seicento e nel Settecento le università non seppero conservare il monopolio del sapere e, con poche eccezioni, si trasformarono in istituzioni di pura trasmissione del sapere tradizionale. L’innovazione scientifica e intellettuale e la secolarizzazione della visione del mondo avvennero in istituzioni create secondo criteri nuovi come le accademie. Le università attraversarono in età napoleonica un processo di ammodernamento radicale. Furono rese più aderenti agli interessi dello stato. Furono fondate facoltà nuove e si ridusse drasticamente il ruolo degli insegnamenti teologici. Nella seconda metà dell’Ottocento le facoltà tecnico-scientifiche organizzate in politecnici ebbero il compito di sostenere lo sviluppo industriale. Il rinnovamento del sistema universitario ebbe la sua realizzazione più efficace in Germania, dove si impose il nesso tra ricerca e didattica come funzioni complementari e inseparabili.

La crescente specializzazione disciplinare e l’aumento esponenziale della popolazione studentesca modificarono profondamente i caratteri delle università nel secondo dopoguerra, intensificando i loro legami con le istituzioni pubbliche e con i bisogni del sistema produttivo, ma rendendo problematici i rapporti tra il compito di produrre sapere innovativo e la funzione di istruzione e formazione professionale delle nuove generazioni. Soprattutto all’indomani della contestazione giovanile degli anni Sessanta e Settanta del Novecento, la trasformazione del mondo del lavoro verso attività caratterizzate da un sempre maggiore contenuto scientifico e la spinta verso una maggiore uguaglianza sociale favorirono un notevole ampliamento dell’offerta di istruzione universitaria e insieme un più generalizzato accesso ai massimi livelli d’istruzione. La cosiddetta “università di massa” determinò così nei decenni successivi un innalzamento generale dell’istruzione media, ma innescò anche una serie di nuovi gravi problemi, legati per esempio al successivo ingresso nel mondo del lavoro e alla compressione netta dei livelli d’eccellenza. Sul finire del Novecento, negli Stati Uniti e in gran parte dell’Europa si avviò un intenso dibattito in relazione alle modalità di riforma più o meno strutturale dell’istituzione universitaria.

Dalla fine degli anni Novanta e poi lungo i primi anni Duemila, col proposito esplicito di favorire un suo maggiore adeguamento in termini di competitività rispetto agli standard internazionali, anche in Italia furono avviati – prima con la riforma Berlinguer, poi con la riforma Moratti, infine con la riforma Gelmini – intensi processi di rinnovamento dell’istruzione universitaria, che non mancarono tuttavia di suscitare forti contestazioni.