storiografia

  1. La memoria del passato e la nascita della storiografia
  2. La storiografia tra narrazione e ammaestramento
  3. Dalla critica storica alla scienza storica
  4. La storia universale
  5. Storiografia, coscienza nazionale e struttura di classe
  6. La specializzazione della ricerca storica
  7. Storiografia e scienze sociali
1. La memoria del passato e la nascita della storiografia

La storiografia sorge dall’esigenza di conservare il ricordo del passato e le sue testimonianze; ma non per questo è un fenomeno universale, rintracciabile in ogni cultura. Al contrario, essa è un prodotto specificamente europeo, e la sua nascita risale a un periodo ben preciso, al V secolo a.C., cioè all’epoca dello scontro epocale tra greci e persiani e della successiva lotta tra Atene e Sparta per l’egemonia nel mondo greco. La storiografia è un prodotto della polis e della sua peculiare forma di partecipazione alla vita della comunità e di competizione per il suo governo; ma presuppone al tempo stesso il sorgere della riflessione razionale applicata alla tradizione, e in particolare quella critica della veridicità dei racconti mitici che è stata inaugurata da Senofane e proseguita dai sofisti. Di poco posteriore alla filosofia, e non di rado disprezzata da quest’ultima in quanto priva di uno status scientifico, la storiografia affonda tuttavia le sue radici nel medesimo clima culturale. Tra la storiografia e il mito, e più in generale tra la storiografia e la tradizione, vi è infatti una soluzione di continuità. In Grecia sono assenti o scarsi – e, quando esistevano, avevano un ruolo marginale e non condizionarono il sorgere della storiografia – archivi, iscrizioni rammemorative, registrazioni cronologiche di avvenimenti, che troviamo invece largamente presenti negli imperi asiatici, dagli assiri e dai babilonesi ai persiani, dall’India alla Cina. In questi paesi la conservazione del passato era assicurata – una volta che il passaggio dall’oralità alla scrittura ne rese possibile la fissazione – attraverso il racconto delle imprese dei sovrani, e soprattutto delle loro conquiste, su monumenti celebrativi o sepolcrali o di altro genere. Così nelle civiltà mediorientali a partire dai sumeri già intorno al 2000 a.C.; così nell’antico Egitto; così nell’India della dinastia Maurya e nella Cina degli Zhou; così anche, secoli dopo, nelle civiltà mesoamericane, soprattutto presso i maya. Accanto ad essa si sviluppa diffusamente, legata a esigenze amministrative o, specialmente in Cina, a esigenze cultuali e divinatorie, la raccolta sistematica di documenti in archivi statali o templari. E alla raccolta si è accompagnata, il più delle volte, la registrazione degli avvenimenti in ordine cronologico: nacquero così gli annali, da quelli cinesi che risalgono al IX secolo a.C. (dall’841 ha inizio infatti la datazione ufficiale della storia cinese) a quelli delle città mediorientali. Forse annali del genere si ebbero anche nelle città ioniche dell’Asia minore soggette al dominio persiano; e l’esistenza di “annali massimi”, curati dai pontefici, è testimoniata a Roma fin dal V secolo a.C. Tra questa registrazione di documenti e di avvenimenti, compiuta a scopo ufficiale, e la storiografia quale nasce nel mondo greco c’è però una differenza sostanziale. Anche se Erodoto e Tucidide non mancarono di servirsi di documenti ufficiali, la storiografia si presenta infatti fin dall’inizio come “indagine” personale, condotta a fini di conoscenza, e come esposizione sistematica dei suoi risultati. La storiografia aveva certamente lo scopo di salvare dall’oblio le azioni degli uomini; ma non è soltanto, né in primo luogo, “memoria” del passato qual è stato tramandato sotto forma di racconto mitico o di documentazione archivistica: essa voleva essere soprattutto ricerca intesa a discriminare il vero dal falso, a mettere a confronto versioni differenti degli avvenimenti, perfino a comparare (come nel caso già di Ecateo e poi di Erodoto) le diverse e discordanti tradizioni dei popoli. Fin dal V secolo a.C. la storiografia greca si afferma con connotazioni specifiche che la distinguono dall’annalistica ufficiale di imperi, di città, di templi. Nelle Storie di Erodoto (composte intorno alla metà del V secolo) l’interesse etnografico per i costumi dei “barbari” si combina con l’interesse per la storia recente, per il conflitto tra greci e persiani. La storiografia nasce quindi come storia contemporanea, come narrazione di avvenimenti – più precisamente, di avvenimenti umani – che l’autore ha potuto osservare personalmente o che gli sono noti attraverso testimoni affidabili. In tal modo essa rompe i ponti con il mito, che aveva riposto le origini del popolo greco in un passato privo di dimensione cronologica; lascia da parte Omero, ma anche il racconto esiodeo della successione di quattro stirpi – le stirpi dell’oro, dell’argento, del bronzo, del ferro – tra le quali s’inserisce, in un’ambigua posizione, la quinta stirpe, quella degli eroi. La scelta del presente, o meglio del passato recente, come oggetto di storia deriva in Erodoto dall’importanza intrinseca degli avvenimenti a cui la narrazione si riferisce, dalla loro rilevanza epocale; ma è legata, per altro verso, alla possibilità di controllarne la veridicità, una possibilità che viene meno, o almeno decresce, con la lontananza nel tempo. E proprio la prossimità cronologica favorisce la ricerca delle cause immediate come di quelle remote, dei pretesti come delle ragioni profonde degli avvenimenti. Nelle Storie di Tucidide (scritte verso la fine dello V secolo) l’interesse etnografico scompare, e la storiografia viene a configurarsi – secondo un modello che l’antichità tramanderà all’età moderna – come storia politica e militare, come narrazione di eventi concernenti i conflitti tra le poleis o i conflitti per la conquista del potere all’interno di una singola polis. Le guerre e le lotte intestine sono concepite come i momenti decisivi di trasformazione della vita cittadina, e quindi come fattori di mutamento. Anche in Polibio, che narra il processo di affermazione della potenza romana a partire dalle guerre puniche, la storiografia rimane storia di avvenimenti politici contemporanei, le cui cause l’autore rintraccia nella costituzione della Roma repubblicana. Sulla stessa linea di sviluppo si colloca la grande storiografia romana, da Sallustio a Livio e a Tacito, fino agli storici della tarda età imperiale come Ammiano Marcellino. La storiografia si distingue in tal modo dal tentativo di ricostruzione del passato remoto e dal lavoro di raccolta dei suoi resti, che rimane dominio riservato all’erudizione. Se Erodoto è interessato alle tradizioni dei “barbari”, se Tucidide e Polibio fanno pur sempre precedere al loro racconto un’“archeologia”, cioè una sintesi degli inizi della storia greca o romana, in seguito la ricerca delle “antichità” si svilupperà in forma indipendente. Ellanico e Ippia avevano fornito un quadro cronologico entro il quale collocare gli avvenimenti, e prima di loro già Erodoto aveva proposto un criterio di corrispondenza tra le vicende delle città greche e quelle persiane. L’erudizione ellenistica e poi quella romana promuoveranno le indagini di geografia e di etnografia, in ciò favoriti dall’impresa di Alessandro Magno e dall’espansione romana verso occidente; riprenderanno lo studio della cronografia; si dedicheranno all’edizione di testi, alla descrizione di monumenti e all’inventario di iscrizioni, alla raccolta delle tradizioni locali, alla narrazione delle vite di condottieri e, più tardi – con Plutarco e Svetonio – di “uomini illustri” di ogni specie. E su questo terreno nasceranno generi letterari distinti dalla storiografia di stampo erodoteo e tucidideo, come la biografia e anche l’autobiografia (basti pensare ai Commentarii di Giulio Cesare): generi diversi ma indirizzati anch’essi a conservare il ricordo di istituzioni e di individui, che si trasmetteranno all’età moderna e che contribuiranno in maniera decisiva ad allargare l’interesse della storiografia al di là dell’ambito politico.

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2. La storiografia tra narrazione e ammaestramento

Nella Poetica Aristotele ha contrapposto la storiografia alla poesia, distinguendole in base al criterio che “lo storico descrive fatti realmente accaduti, il poeta fatti che possono accadere”. E da ciò egli perveniva ad affermarne l’inferiorità: mentre “la poesia tende piuttosto a rappresentare l’universale”, attribuendo a un individuo i pensieri e le azioni che convengono alla sua natura, la storia invece guarda al “particolare”, limitandosi a “dire, per esempio, che cosa fece Alcibiade e che cosa gli capitò”. Spogliata della capacità di attingere l’universale, la storiografia era quindi costretta a cercare altrove la propria legittimazione. E la trovò in due modi strettamente connessi: da un lato in quanto narrazione di avvenimenti rilevanti, dall’altro come fonte di comportamenti esemplari. Il carattere narrativo è intrinseco alla storiografia fin dalle origini. Ad esso si accompagna l’esigenza di esporre gli avvenimenti in maniera letterariamente perspicua, tale da attrarre il lettore (è noto che nel mondo greco si facevano letture pubbliche di libri di storia). Questa preoccupazione letteraria è ben presente già negli storici antichi, anche quando si propongono di procedere con rigore scientifico: lo stesso Tucidide inserisce nel racconto della guerra peloponnesiaca i discorsi, inevitabilmente fittizi anche se plausibili, dei protagonisti, e il suo esempio sarà seguito da molti. La narrazione “storica” si distingue da altre forme di racconto per la sua pretesa di verità, per la pretesa di narrare avvenimenti reali, così come si sono effettivamente svolti: su questo punto Leopold von Ranke concorderà pienamente con Tucidide. La narrazione “storica” è pur sempre logos, non mythos; concerne le vicende degli uomini, non quelle degli dèi e degli eroi, e ne espone le cause indicandole non nell’intervento divino ma nelle intenzioni e nei calcoli di individui e di popoli. Anche quando è stata concepita come opus oratorium maxime – come avviene da Isocrate e da Cicerone fino all’Umanesimo – la storiografia ha fatto valere la propria specificità nei confronti della narrazione poetica o romanzesca, organizzando la sua materia in un quadro cronologico coerente e soprattutto cercando, sotto la superficie degli avvenimenti, le loro ragioni. Del resto lo stesso Cicerone, che pur sancì la riduzione della storiografia all’ambito della retorica, assimilandola all’oratoria forense, non mancò di riconoscere ad essa una funzione conoscitiva. La storiografia non è soltanto testis temporis, ma è anche lux veritatis. Non diversamente Quintiliano sottolineava il criterio della verosimiglianza come requisito indispensabile del discorso dello storico. La dissociazione tra filosofia e storiografia, che si perpetuerà fino al Settecento, non ha mai comportato una negazione del valore di verità della narrazione storica. Il carattere narrativo della storiografia non esclude, ma in qualche modo implica, una ricerca di spiegazione che da un lato fa appello a motivazioni psicologiche, a caratteristiche etniche, a condizioni climatiche e via dicendo, dall’altro considera il presente come prodotto del passato, come risultato di una successione di eventi legati tra loro. Certamente, questa ricerca può incontrare dei limiti, e allora lo storico fa ricorso, per nascondere l’impossibilità di rintracciare cause specifiche, a cause generali come, per esempio, la “fortuna” in Polibio e, secoli dopo, in Machiavelli; oppure riconosce l’imprevedibilità degli eventi umani, come farà Guicciardini. Ma l’intento esplicativo è pur sempre presente, sia che si rivolga verso cause individuali sia che si avvalga invece di principi di portata universale, come la provvidenza o, più tardi, il cammino dello “spirito del mondo”. L’antitesi tra narrazione e spiegazione, fatta valere da una corrente non secondaria della metodologia contemporanea – basti pensare a Hayden White e al suo libro Metastoria (1973), che tanta fortuna ha avuto in ambiente anglosassone – è del tutto estranea alla storiografia antica come poi a quella moderna; e acquista senso soltanto come reazione al tentativo positivistico, ma soprattutto neopositivistico, di assimilare la spiegazione storica al modello (o ai modelli) della spiegazione scientifica (positivismo). Alla funzione narrativa della storiografia se n’è accompagnata tradizionalmente un’altra: quella pedagogico-morale, che Cicerone ha enunciato con la nota formula della historia magistra vitae. Lo studio della storia rappresenta in primo luogo un allargamento di esperienza: pone l’individuo in contatto con altri individui, con altri popoli, con altre epoche. Ma la storia, in quanto “specchio di virtù e di vizi”, offre soprattutto esempi positivi e negativi: esempi di virtù da imitare, esempi di errori da evitare. Narrando ciò che è avvenuto, e soprattutto presentando le vite e i caratteri degli uomini del passato, la storiografia (al pari della biografia) insegna a praticare la virtù e a sfuggire i vizi; ma insegna anche – tipico è il caso di Tacito – a odiare la tirannide e a disprezzare i tiranni. La storiografia è in grado di penetrare i moventi e i meccanismi delle azioni umane; perciò l’insegnamento che se ne può trarre vale per tutti i tempi. Esso può assumere un’intonazione più nettamente moraleggiante oppure un esplicito carattere politico, come nei Discorsi di Machiavelli, dove il richiamo alla storia romana serve non soltanto da modello interpretativo, ma anche da criterio di giudizio della storia presente. La storiografia viene così utilizzata come una riserva di esempi a cui richiamarsi per insegnare all’individuo l’esercizio della virtù, e al sovrano l’arte di governo. Il fondamento di questa funzione risiede nel presupposto della permanenza della natura umana e dell’uniformità degli avvenimenti, enunciato da Tucidide e accolto dalla storiografia posteriore. Dalla Methodus ad facilem historiarum cognitionem di Jean Bodin (1566) ai teorici della “ragion di stato”, e più tardi ancora in Bolingbroke e in Mably, l’utilità della storia viene fatta consistere nella possibilità di cogliere le leggi che regolano il comportamento degli uomini, e la cui conoscenza è alla base di una corretta ed efficace azione politica. Narrazione “vera” o per lo meno “verosimile”, e al tempo stesso fonte di esempi per costruire una precettistica morale o politica, la storiografia rimase tuttavia, per secoli, relegata ai margini dell’edificio del sapere; né allo storico fu riconosciuto uno status professionale specifico. La storiografia non trovò posto nell’enciclopedia ellenistica, che coltivò piuttosto le discipline di carattere antiquario, e neppure in quella cristiana, che le sovrappose una visione religiosa della storia come “storia della salvezza”, fondata sul testo della Bibbia. Bisognerà attendere soprattutto la cultura umanistica perché lo studio del passato – rivolto essenzialmente all’antichità classica – acquisti un valore nuovo, e perché si apprestino i metodi d’indagine che avrebbero consentito di vagliare l’autenticità dei documenti tramandati e l’attendibilità delle stesse fonti antiche. Agli annali e alle cronache medievali (che si richiamavano al modello di Eusebio di Cesarea) subentrava un nuovo tipo di ricerca che riprendeva la tradizione antiquaria dell’antichità, e che avrebbe poi condotto al suo incontro con la storia come “indagine” inaugurata da Erodoto e Tucidide.

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3. Dalla critica storica alla scienza storica

La storiografia antica conosce soltanto in misura ridotta la critica storica, la ricerca di fonti e il vaglio della loro autenticità. Certamente, sia Erodoto che Tucidide sono consapevoli della molteplicità di versioni tramandate a proposito del medesimo avvenimento, e della necessità o di riprodurle nel proprio racconto, come fa il primo, o di scegliere quella che sembra più affidabile, come tende a fare il secondo. Ma questa operazione di confronto è destinata al successo soltanto quando si riferisce a eventi recenti, dei quali esistano testimoni o sia ancor fresco il ricordo. Quando si riportano invece tradizioni e costumi di popoli lontani, dei quali si ignora la lingua, come fa Erodoto nelle parti più squisitamente etnografiche della sua opera, o quando si risale all’indietro, come fa Tucidide nell’“archeologia” anteposta alla narrazione della guerra del Peloponneso, viene a mancare qualsiasi criterio di discriminazione: l’impossibilità di attingere il documento lascia largo spazio a una scelta che finisce per essere arbitraria. Non diversamente si comporta la storiografia romana, che nella ricostruzione degli inizi di Roma mescola realtà e leggenda: così Livio, scrivendo a distanza di secoli, cerca di saldare il racconto della sua fondazione con il racconto omerico della guerra di Troia, e ci presenta il piccolo villaggio sui sette colli come una città già fiorente, quale sarebbe diventata soltanto molto più tardi. Un’analoga carenza di impegno critico si riscontra nella cronachistica medievale, sia che si proponga di delineare un quadro complessivo della storia dell’umanità sulla base del racconto biblico, innestando su esso la vicenda dell’impero romano, sia che ci presenti la storia dei popoli barbari prima e dopo la loro conversione alla fede cristiana. Diversa, e indubbiamente più cospicua, era l’eredità che proveniva dalla tradizione antiquaria. Su questo terreno l’erudizione ellenistica aveva dato frutti consistenti, e la cultura romana della tarda età repubblicana, e poi dell’età imperiale, ne aveva proseguito il lavoro: basti pensare alle Origines di Catone e alle Antiquitates di Varrone, per non parlare dell’opera di Dionigi di Alicarnasso e poi di Aulo Gellio. Questa tradizione riemerge con la filologia umanistica, la quale va in cerca di testi sepolti nelle biblioteche dei monasteri, ne fornisce un’edizione e li commenta, traduce dal greco in latino, ma soprattutto cerca di stabilirne l’autenticità, smascherando i “falsi” che la cultura medievale aveva prodotto (come la pseudo-donazione costantiniana). Un’intensa fioritura di studi, che da Petrarca conduce a Coluccio Salutati, Leonardo Bruni, Poggio Bracciolini, Flavio Biondo, Lorenzo Valla, Angelo Poliziano, e al di là delle Alpi a Guillaume Budé in Francia, a Erasmo da Rotterdam nei Paesi Bassi, a Thomas More in Inghilterra, rimette in circolazione opere e autori dimenticati da secoli. E se la storiografia è concepita, sulla linea indicata da Cicerone, come un’attività letteraria soggetta a canoni retorici, a essa si assegna anche un compito di ripristino della verità, della verità testuale ma anche, oltre i testi, della verità fattuale. Lo sviluppo decisivo della critica storica si avrà però su un altro terreno, quello della “storia sacra” e della storia ecclesiastica. Affermando la necessità della lettura diretta della parola di Dio da parte del fedele, la Riforma protestante respingeva l’autorità della tradizione come criterio di interpretazione del testo sacro. Nello stesso tempo essa rifiutava il quadro dello sviluppo della chiesa che si era venuto consolidando, sulla linea inaugurata da Eusebio, nel corso del medioevo. E proprio questa storia divenne il terreno di scontro tra eruditi protestanti ed eruditi cattolici, e l’occasione per entrambi per affinare i metodi della ricerca erudita. Le Centuriae di Magdeburgo (1559-74), compilate da un gruppo di studiosi protestanti sotto la guida di Flacius Illyricus, gli Annales ecclesiastici di Cesare Baronio (1588-1607), le Exercitationes di Isaac Casaubon (1612), e ancora le Memorie per la storia ecclesiastica dei sei primi secoli di Sébastien de Tillemont (1693-1712) segnano – pur nel contrasto delle posizioni religiose – un progressivo affinamento dei metodi della ricerca erudita. Se la cultura umanistica aveva condotto alla riscoperta del mondo antico nella sua fisionomia autentica, il Seicento riporta alla luce i documenti di quei “secoli bui” che essa aveva invece condannato e spesso disprezzato. Questo sforzo culmina nel De re diplomatica (1681) e negli Annales ordinis Sancti Benedicti (1703) di Jean Mabillon. Si formano così, nel mondo cattolico come in quello protestante, vere e proprie scuole, quali quella dei bollandisti ad Anversa e quella dei maurini a Parigi. E il lavoro proseguirà nella prima metà del secolo successivo, trovando una delle sue espressioni più rilevanti nelle due raccolte dei Rerum Italicarum scriptores (1723-38) e delle Antiquitates Italicae medii aevi (1738-43) di Ludovico Antonio Muratori. Ma le conseguenze di questo progresso si fanno sentire anche su un altro terreno, quello della critica biblica. Determinante è, a questo riguardo, l’allargamento dell’orizzonte geografico derivante dalla scoperta del Nuovo Mondo e dall’intensificarsi dei viaggi verso l’Oriente, che pone la cultura europea di fronte a popoli “selvaggi”, dei quali era difficile dimostrare la discendenza da Mosè e dallo stesso Adamo, o a civiltà millenarie estranee al messaggio cristiano. Non meno determinante era la constatazione della discrepanza tra la cronologia biblica e quella dei popoli del Medio e dell’Estremo Oriente. Già Giuseppe Giusto Scaligero, nel De emendatione temporum (1583), aveva proposto una revisione del quadro cronologico tradizionale; nel corso del Seicento, poi, si accendeva la polemica sulla maggiore o minore antichità degli ebrei rispetto ad altri popoli. Alla difesa della cronologia biblica da parte di Georg Horn e di altri studiosi si contrapponeva il rifiuto dell’attendibilità del Pentateuco e della sua attribuzione a Mosè: nei Preadamitae (1655) Isaac de la Peyrère formulava l’ipotesi dell’esistenza di uomini vissuti prima del progenitore biblico dell’umanità, mentre nella Dissertatio de vera aetate mundi (1659) Isaac Vossius era costretto a sostituire alla cronologia della Vulgata quella della versione greca dei Settanta. Nei decenni successivi John Marsham e John Spencer ponevano in luce la maggiore antichità degli egizi rispetto agli ebrei, sostenendo apertamente la derivazione della religione ebraica da quella egizia; e ai primi del Settecento John Toland tracciava, nelle Antiquitates judaicae (1709), un quadro della vicenda del popolo ebreo che gli attribuiva un ruolo marginale nella storia del mondo antico. Del resto già Spinoza, nel Tractatus theologico-politicus (1670), aveva ridotto la religione a un ristretto numero di credenze fondamentali, presentando il racconto biblico come un prodotto umano, come l’opera di autori che si rivolgevano a un popolo ancora primitivo, mentre Richard Simon riconosceva, nella Storia critica del Vecchio Testamento (1678), che la Bibbia è una compilazione tardiva, benché i suoi autori siano stati tutti ispirati da Dio. E poco dopo Pierre Bayle, erede della tradizione filologica olandese, eserciterà il dubbio scettico come strumento di critica del contenuto della tradizione, presentando il suo Dizionario storico e critico (1697) come un inventario non di verità ma di errori. Pur concentrata sulla storia ecclesiastica e sul testo biblico, la critica storica investiva anche altri temi, come l’antichità romana (con Louis de Beaufort) o l’origine delle monarchie nazionali europee. A ciò faceva riscontro la ripresa della storiografia di orientamento politico, il più delle volte vertente su avvenimenti contemporanei: dopo le storie di Firenze di Bruni e di Bracciolini, dopo le Memorie di Philippe de Commynes (scritte verso la fine del secolo XV), dopo i Discorsi di Machiavelli e la Storia d’Italia di Guicciardini, Paolo Sarpi applicava la critica storica a un avvenimento centrale della storia religiosa moderna, pubblicando nel 1619 la Storia del Concilio di Trento. E i risultati della ricerca erudita erano messi al servizio di un lavoro di ricostruzione di più ampia portata, che da un lato investiva il rapporto tra popolazioni autoctone delle diverse regioni d’Europa, conquista romana e popoli barbari, come nella polemica tra Henri de Boulainvillers e Jean-Baptiste Dubos a proposito della nascita della nazione francese, e dall’altro si spingeva a considerare anche la cultura islamica e la storia dell’India o della Cina. La storiografia si avviava in tal modo a diventare una disciplina scientifica, e al tempo stesso una “professione” accademicamente riconosciuta. Da narrazione con un’intrinseca pretesa di verità si trasformava in conoscenza, fondata su metodi ormai consolidati; e ad essa si aprivano così le porte dell’università. Lo storico era stato tradizionalmente un uomo interessato alla vita politica, che spesso registrava gli avvenimenti a cui aveva partecipato o di cui era stato testimone; l’antiquario aveva lavorato soprattutto tra biblioteche e archivi. Verso la fine del Settecento si afferma invece la figura dello storico professionale, del “professore” di storia. Questa svolta si compie soprattutto in Germania, dove l’organizzazione dell’università tendeva a coprire tutti i rami del sapere. Nel 1752 Johann Martin Chladenius, professore a Erlangen, pubblicava una Scienza storica universale, nella quale respingeva il compito pragmatico attribuito alla ricerca storica per rivendicarne invece – come indica il titolo stesso dell’opera – il carattere scientifico. E verso la fine del secolo studiosi come Johann Christoph Gatterer, August Ludwig von Schlözer, Ludwig Thimotheus Spittler, Arnold Hermann Ludwig Heeren coniugavano a Göttingen storia universale e storia nazionale, ponendo le premesse del lavoro della scuola storica tedesca e del suo sforzo di formulare una “istorica”, cioè una teoria della storia come forma di conoscenza autonoma rispetto alle scienze della natura.

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4. La storia universale

L’aspirazione a una storia universale è già presente nella cultura ellenistica e soprattutto in Polibio, il quale pone Roma al culmine di una successione di imperi che comprende gli assiri, i medi, i persiani, i greci (soprattutto Sparta) e infine i macedoni. Ma si tratta pur sempre di una storia di portata limitata, anche se abbraccia l’intera oecoumene mediterranea, non già di una storia che si riferisca all’umanità intera. In questo senso più ampio, onnicomprensivo, la storia universale nasce con il cristianesimo; e si richiama, caso mai, alla tradizione del profetismo ebraico. Il suo evento centrale è l’incarnazione di Cristo vista come redenzione dell’umanità dal peccato: prima di questa si colloca la vicenda del popolo ebreo come popolo eletto, che prepara l’avvento del salvatore; dopo si collocano invece – in un equilibrio spesso precario – le speranze millenaristiche nella seconda venuta di Cristo e nell’avvento del regno di Dio sulla Terra e le attese apocalittiche del giudizio finale. Se Eusebio di Cesarea inaugurava la tradizione della storia ecclesiastica – che tanta fortuna ha avuto, come si è visto, dal medioevo alla Riforma e alla Controriforma – è Agostino a porre la base, all’inizio del V secolo, della storia universale come “storia della salvezza”. Ed è lui a delineare, nel De civitate Dei, un’immagine della storia come terreno di scontro tra due città, la città terrena – dominio del demonio – e la città divina, personificate rispettivamente dall’impero romano e dalla chiesa di Cristo. La storia universale viene ad articolarsi, in analogia con le sei giornate della creazione del mondo, in sei età, l’ultima delle quali ha il suo inizio con la venuta di Cristo in terra. Questa visione della storia fu poi codificata da Paolo Orosio nelle Historiae adversus paganos (scritte intorno al 418), dove lo schema delle sei età del mondo si combina con quello della successione delle quattro monarchie, nella versione che ne aveva dato il Libro di Daniele. Ma, soprattutto, Orosio la integrava con la considerazione dell’impero romano come condizione preliminare dell’avvento di Cristo: la pax romana, realizzata da Augusto, ha reso possibile la diffusione della parola di Dio in tutto il mondo civile, e poi anche tra i barbari invasori. Questa interpretazione della storia universale come “storia della salvezza” ha dominato per tutto il medioevo, seppur con formulazioni diverse che dopo il Mille riflettevano spesso il contrasto tra papato e impero, ora sottolineando il primato del primo ora cercando di giustificare l’autonomia, se non la supremazia, del secondo mediante la dottrina della translatio imperii verso l’Occidente germanico. Soltanto i movimenti ereticali contestarono il ruolo della chiesa e la sua identificazione con la “Gerusalemme celeste”, riprendendo in forma nuova l’escatologia del cristianesimo primitivo: caratteristica è, in proposito, la posizione di Gioacchino da Fiore, che alla fine del secolo XII preconizzava l’avvento del terzo regno, il regno dello Spirito Santo, dopo quelli del Padre e del Figlio, testimoniati rispettivamente dal Vecchio e dal Nuovo Testamento. Ma la teologia della storia cristiana sopravvisse, in realtà, anche ai successi della critica storica, e trovò la sua ultima espressione a fine Seicento, nel Discorso sulla storia universale di Jacques-Bénigne Bossuet (1681). La storia è la realizzazione di un disegno provvidenziale, il quale si compie in primo luogo attraverso la vicenda eccezionale del popolo ebreo che prepara l’incarnazione e il riscatto dell’umanità dal peccato. Bossuet riaffermava in tal modo, contro il libertinismo erudito, la distinzione tra storia sacra e storia profana, e rivendicava la verità del racconto biblico. Anzi, egli faceva valere la tesi della maggiore attendibilità di questo racconto rispetto alle narrazioni degli storici “pagani” dell’antichità. Il quadro delineato da Bossuet si arrestava a Carlo Magno, approdo finale della translatio imperii. E di qui Voltaire prendeva le mosse, nel Saggio sui costumi e sullo spirito delle nazioni (1756), per tracciare la storia universale fino al secolo di Luigi XIV, nel quale egli scorgeva l’ultima delle quattro “epoche felici dello spirito umano” – dopo l’età di Pericle e di Alessandro, l’età di Cesare e di Augusto, e l’età del Rinascimento italiano. Ma la sua impostazione era radicalmente differente. Voltaire respingeva la distinzione tra storia sacra e storia profana, sottolineando la dipendenza del popolo ebreo e della sua religione dalla cultura dei popoli con i quali era venuto in contatto, e negando la funzione civilizzatrice nei confronti dei barbari tradizionalmente attribuita al cristianesimo. Ma, soprattutto, egli vedeva nel corso storico non già l’azione di una provvidenza che si manifesta anche mediante interventi straordinari, bensì uno sviluppo che dall’originario stato selvaggio dell’umanità conduce, attraverso la barbarie, alla civiltà. Messa in disparte la nozione di provvidenza, il concetto-chiave per delineare la storia dell’umanità diventava quello di progresso. Alla teologia della storia cristiana subentrava una storia “filosofica”, rivolta a mettere in luce il contributo dei singoli popoli (e delle singole epoche) al processo di incivilimento. La storia diventava così il teatro dello sforzo dell’umanità di innalzarsi – per virtù propria e non in forza di un’azione provvidenziale – al di sopra dello stato selvaggio, in una lotta ricorrente contro la superstizione, il fanatismo e l’intolleranza emblematicamente rappresentati nel mondo antico dal popolo ebreo, e nel medioevo dalla religione cristiana. Voltaire realizzava in tal modo un allargamento decisivo dell’orizzonte storico. Nel saggio Filosofia della storia (1765), poi preposto come introduzione al Saggio sui costumi, egli faceva posto, anche se in una rapida sintesi, alle vicende della Cina e dell’India, della Persia e dell’Arabia. Mentre il quadro cristocentrico di Bossuet era costretto a espungere dalla storia universale sia i popoli del Medio e dell’Estremo Oriente sia i “selvaggi americani”, il poligenismo voltairiano consentiva di riconoscerli come momenti del cammino verso la civiltà. In realtà, questo allargamento presupponeva lo sviluppo della conoscenza dei popoli orientali che si era avuto nel corso del Seicento, e l’idealizzazione della Cina come società fondata su una religione naturale, sul riconoscimento dell’esistenza di un essere supremo e sull’insegnamento della virtù. Voltaire infatti proseguiva, e in qualche misura riprendeva, il progetto di Storia universale intrapreso nel 1730 da George Sale. Da essa però si distaccava nettamente non soltanto per il rifiuto della distinzione tra storia sacra e storia profana, ma anche per il diverso “materiale” preso in considerazione. Ancor più significativo, infatti, era in Voltaire lo spostamento d’interesse dalla storia politica (e politico-militare) alla storia dei “costumi”. Già Il secolo di Luigi XIV (1751) aveva fornito uno spaccato della cultura della Francia seicentesca, nel quale lo sviluppo delle arti e delle lettere, ma soprattutto il progresso scientifico e le vicende religiose assumevano un rilievo preminente. Nel Saggio sui costumi il distacco dalla tradizionale storiografia politica diventa esplicito: il progresso dello spirito umano non si compie attraverso la successione delle dinastie e le imprese belliche, e neppure attraverso le controversie religiose, ma mediante il perfezionamento dei costumi, promosso, a sua volta, dai progressi del sapere. La storia “filosofica” relegava in secondo piano la storia politica. Questo modello di storiografia ebbe largo successo anche fuori dei confini francesi: in Scozia con la Storia d’Inghilterra di David Hume (1754-63) e con la Storia della Scozia (1759) e la Storia del regno di Carlo V (1769) di William Robertson, in Inghilterra con la Storia della decadenza e della caduta dell’impero romano di Edward Gibbon (1776-88). Ma al rifiuto voltairiano faceva riscontro il recupero della storia politica, anche sotto la spinta di Montesquieu, che induceva a studiare la struttura delle varie forme di governo e a tener conto dei rapporti tra i diversi “poteri” attraverso i quali si esercita la sovranità. Se l’interesse di Hume era rivolto soprattutto alla vicenda storica dell’Inghilterra moderna, e al faticoso emergere della libertà politica dallo scontro tra comuni e monarchia, Robertson estendeva il suo sguardo da un lato all’età medievale e al processo d’incivilimento dei barbari, dall’altro al continente americano: la sua introduzione alla Storia del regno di Carlo V si richiamava, anche se in un arco cronologico più limitato, al progetto voltairiano di storia universale, mettendo in luce – come dice il sottotitolo – “i progressi della società europea dalla caduta dell’impero romano agli inizi del secolo XVIII”. Ma fu Gibbon a riprendere il tema del conflitto tra religione e progresso della civiltà, che Voltaire aveva svolto in chiave polemica, collegandolo con il problema del declino della civiltà antica che Montesquieu aveva affrontato nelle Considerazioni sulle cause della grandezza dei romani e della loro decadenza (1734). La ragione profonda della decadenza dell’impero romano era riposta nella rottura dell’equilibrio tra senato e autorità imperiale, che aveva garantito la sopravvivenza dell’antica libertà fino all’epoca degli Antonini; ma ad essa se ne aggiungeva un’altra, la minaccia recata dal cristianesimo, il cui fanatismo aveva scatenato le persecuzioni. Gibbon scorgeva quindi nel cristianesimo un elemento decisivo della disgregazione della civiltà antica; ma di esso poneva in luce anche la funzione civilizzatrice nei confronti dei barbari e il contributo alla formazione di una nuova civiltà. Nonostante il giudizio negativo sul medioevo, che condivideva con Voltaire, egli rintracciava così nella storia europea un processo di segno positivo. Il passaggio dall’antichità al mondo moderno veniva perciò presentato complessivamente come un progresso che si era realizzato ad onta delle interruzioni e dei ritorni all’indietro. La “storia universale” trovava la propria base in una prospettiva filosofica ispirata alla concezione della storia come progresso verso la civiltà. Questo stretto rapporto tra storiografia e filosofia era però destinato ben presto a dissolversi, non appena quest’ultima cominciò a rivendicare a sé il compito di determinare la direzione e il fine della storia. Nasceva in tal modo la filosofia della storia come disciplina propriamente filosofica, che concepiva il progresso non più come il risultato – in larga misura accidentale – degli sforzi degli uomini, ma come la realizzazione di un piano provvidenziale. Già Johann Gottfried Herder, in Ancora una filosofia della storia per l’educazione dell’umanità (1774), aveva concepito la storia come “il corso di Dio attraverso le nazioni”, e aveva visto nella successione dei popoli e dei loro cicli di vita la presenza divina nella storia. Con Hegel la separazione tra filosofia della storia e storiografia giungeva a compimento. Soltanto la filosofia è in grado di pervenire, al di là del piano su cui si collocano la considerazione “originaria” e quella “riflettente”, a una considerazione “razionale” del processo storico, cogliendo la sua intrinseca razionalità ed eliminando l’“accidentale”; soltanto essa può offrirci un quadro della Weltgeschichte, seguendo l’incarnarsi dello “spirito del mondo” nel susseguirsi dei particolari “spiriti dei popoli”. Da allora in poi le vie della ricerca storica e della filosofia della storia si divaricheranno definitivamente. Mentre la storiografia si orienterà verso lo studio di oggetti individuali, siano essi singoli individui o stati o epoche storiche, la filosofia della storia guarderà all’universale, concependo il processo storico come la realizzazione di un principio superiore. In realtà, se in Hegel la filosofia della storia identificava due nozioni prima ritenute alternative, come quelle di progresso e di provvidenza, per costruire un quadro unitario della Weltgeschichte culminante nell’Europa moderna, nel corso del Novecento essa si vedrà costretta ad abbandonare questa pretesa. Le filosofie della storia novecentesche, da Spengler a Toynbee, hanno non solo respinto la visione eurocentrica presupposta da Hegel – e, in fondo, fatta propria da Marx e dal marxismo ottocentesco – ma hanno visto nella storia il teatro di una molteplicità di “culture” o di civiltà indipendenti. In Il tramonto dell’Occidente (1918-22) Spengler ha concepito le “culture” come organismi la cui esistenza segue un ciclo vitale comune, dalla nascita alla morte; in Uno studio sulla storia (1934-61) Toynbee ha visto all’opera, nello sviluppo delle civiltà, un meccanismo di “sfida e risposta” in cui si manifesta lo sforzo dell’umanità di trascendere il livello della vita primitiva. Ma anche in queste versioni la filosofia della storia appare scissa dalla ricerca storica. E infatti il progetto spengleriano è quello di una “morfologia” della storia universale; mentre l’opera di Toynbee si presenta come un’indagine sulla storia delle civiltà che utilizza strumentalmente il materiale fattuale messo a disposizione dalla storiografia. Da parte sua quest’ultima ha subito – non diversamente dalle altre discipline accademiche – un processo di crescente specializzazione che l’ha condotta a lasciare da parte, e ad abbandonare alla filosofia, l’aspirazione a una “storia universale”. La storiografia si presenta oggi come una pluralità di settori di ricerca, definiti su base cronologica o sulla base di “campi” culturali, i quali si sono sviluppati spesso in maniera autonoma, anche se con frequenti intrecci e con scambi reciproci. Anche l’incompiuta Storia universale di Ranke (1881-85) è, in sostanza, limitata al mondo europeo. Bisognerà attendere Max Weber e Otto Hintze perché si ponga in termini espliciti il problema del confronto tra lo sviluppo europeo e il suo peculiare processo di razionalizzazione e quello delle altre culture, dal punto di vista del rapporto tra religione ed economia oppure dal punto di vista delle strutture politico-istituzionali; ma si tratterà allora di una “storia comparata” in cui la ricerca storica è guidata da concetti sociologici. La “storia universale”, impresa a lungo negletta dalla storiografia, le sarà riproposta dall’esterno, cioè da una sociologia orientata storicamente.

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5. Storiografia, coscienza nazionale e struttura di classe

Il rapporto con la politica è, fin dall’inizio, costitutivo della storiografia; e non soltanto nel senso che fin dall’antichità essa ha assunto le vicende politiche come proprio oggetto privilegiato. Spesso, molto spesso, la narrazione degli avvenimenti è stata condotta in funzione di determinate posizioni politiche, per giustificare l’esito di un processo o, invece, per criticarlo o deprecarlo. Strettamente legato al circolo filoellenico degli Scipioni, Polibio ha visto nella conquista romana il risultato inevitabile delle vicende del mondo antico, esaltando la costituzione politica di Roma come il fondamento che l’aveva resa possibile; e sulla stessa strada si mosse Livio. Tacito, al contrario, si è servito della storiografia per smascherare la tirannide e la turpitudine degli imperatori. Gran parte della cronachistica medievale è coinvolta nello scontro tra il papato e l’impero, e difende le ragioni di uno dei contendenti. La storiografia umanistica diffonde il mito di una florentina libertas, cercandone l’origine nell’eredità etrusca della città; più tardi Machiavelli usa Livio e, in generale, la storia romana come base di una riflessione che deve servire a precisi scopi politici. La storiografia sei-settecentesca è coinvolta nel conflitto tra la chiesa di Roma e la Riforma, ma anche nelle lotte interne alle diverse nazioni europee, in particolare nelle vicende francesi o inglesi: la polemica tra Boulainvillers e Dubos riflette la contrapposizione tra thèse nobiliaire e thèse royale, mentre la Storia d’Inghilterra di Hume rappresenta una critica dell’interpretazione whig della storia inglese. La rivoluzione americana e quella francese diventeranno ben presto occasione di dibattiti storiografici destinati a continuare fino in epoca recente: basterà qui rammentare le Riflessioni sulla Rivoluzione francese di Edmund Burke (1790), e più tardi L’antico regime e la rivoluzione di Alexis de Tocqueville (1856), un’opera nella quale la narrazione degli avvenimenti – incentrata sul conflitto tra libertà e centralismo – trapassa nell’analisi sociologica. Ma all’inizio dell’Ottocento, con la reazione alla Rivoluzione francese e con l’emergere di nuove formazioni statali su base nazionale, si compie una svolta: l’impegno politico della storiografia trova il suo ancoraggio nella coscienza nazionale, mentre questa ricorre alla storia per giustificare l’esistenza, e spesso il primato, della nazione di appartenenza. La svolta è comune a tutta l’Europa, ma si presenta in modo particolarmente evidente dove il processo di unificazione nazionale è più recente, cioè in Germania e anche in Italia. Ed è proprio la scuola storica tedesca a fornirle la piattaforma teorica con la nozione di “spirito del popolo”. Le manifestazioni di vita di un popolo, la sua cultura non meno delle sue vicende politiche, traggono origine e hanno il loro fondamento nel suo specifico carattere nazionale, in un’essenza spirituale comune. In questa prospettiva Carl von Savigny ha presentato la storia del diritto, e dopo di lui Wilhelm Roscher si è proposto di trasformare l’economia politica in una Nationalökonomie impostata storicamente. La tradizione dei vari popoli, perfino di quelli antichi – come nella Storia romana di Barthold Georg Niebuhr (1811-32) – si colorava di toni marcatamente nazionalistici. Ma ciò dava luogo anche, sul piano della ricerca, a raccolte sistematiche di documenti concernenti il passato delle singole nazioni, come i Monumenta Germaniae Historica, iniziati nel 1826. Se la saldatura tra storiografia e coscienza nazionale fu più forte in ambito tedesco, essa costituì tuttavia un fenomeno generalmente europeo, alimentato dalla cultura romantica e dalla presentazione del passato in termini romanzeschi, che ebbe il suo modello in Walter Scott. Ciò condusse, tra l’altro, a una rivalutazione del medioevo, nel quale la storiografia illuministica – da Voltaire allo stesso Gibbon – aveva visto soprattutto un periodo di fanatismo e di intolleranza religiosa, una specie di ritorno alla barbarie dopo le conquiste del mondo antico. Ma, mentre Novalis scorgeva nel medioevo un’unità culturale fondata sulla comune fede cristiana, la maggior parte degli storici cercò in esso, procedendo sulla linea inaugurata da Herder, l’origine delle differenze nazionali. Leggende ed epopee, lotte politiche e istituzioni feudali furono considerate con la lente deformante della coscienza nazionale. Così, per esempio, Augustin Thierry vide nella conquista normanna dell’Inghilterra l’instaurazione di un dominio straniero sulla popolazione autoctona, e cercò l’origine della nazione francese nella dinastia merovingia, per risalire poi alla Gallia preromana; mentre nella storiografia romantica italiana la lega lombarda fu interpretata come un momento dell’affermarsi del senso di nazionalità contro l’oppressore tedesco. Richiamandosi a Vico e a Herder, Jules Michelet ha narrato la storia francese come storia di un soggetto collettivo, il “popolo”, la cui azione diventa determinante nei momenti di rivolgimento politico, e soprattutto nel corso della rivoluzione. Questa impronta nazionale, e non di rado nazionalistica, era destinata ad accentuarsi nella storiografia tedesca di fine Ottocento e ancora del primo Novecento, rivolta – da Gustav Droysen a Heinrich von Treitschke e a Friedrich Meinecke – a giustificare storicamente il processo di unificazione della Germania. Ciò ha posto in primo piano il problema del rapporto tra le singole nazioni e la cultura europea. Sovente questo rapporto fu definito alla luce della dottrina della supremazia della propria nazione (e della sua missione civilizzatrice) rispetto alle altre. Al primato della nazione tedesca, esaltato da Fichte ma largamente condiviso dalla storiografia tedesca dell’Ottocento, fece riscontro il primato italiano di Vincenzo Gioberti e di Cesare Balbo, giustificato dalla peculiarità di Roma quale culla del cristianesimo e sede del papato. Analogamente Michelet attribuiva alla Francia la capacità di compiere la sintesi tra la superiorità artistico-letteraria dei popoli dell’Europa meridionale e la superiorità dei popoli nordici in ambito scientifico e filosofico. Più articolata fu la visione del rapporto nella storiografia di ispirazione liberale, erede, nonostante le differenze, del cosmopolitismo illuministico. Emblematica è, al riguardo, la posizione di François Guizot, che nella Storia della civiltà in Europa (1828) scorgeva alla base della civiltà europea il risultato di una pluralità di componenti – la società municipale romana, la società cristiana fondata sulla chiesa, la società barbarica; e nella sua costruzione attraverso i secoli vedeva il contributo di differenti popoli, in particolare dell’Inghilterra e della Francia. È pur vero che Guizot attribuiva alla Francia un carattere universale che la colloca in posizione di superiorità rispetto alle altre nazioni; ma sul primato francese finiva per prevalere quello della civiltà europea, e ciò proprio a causa della sua irriducibilità a un principio unico. Ma la coscienza nazionale non è stata il solo termine di riferimento ideologico della storiografia ottocentesca. Dopo la metà del secolo il marxismo offrì infatti un paradigma alternativo, che concepiva la storia come una successione di formazioni economiche contrassegnate dalla dicotomia – e dal conflitto – tra classi dominanti e classi dominate. E nella versione semplificata che si affermò all’epoca della Seconda Internazionale, sotto l’influenza di Engels, esso si rivolse soprattutto alla ricerca delle cause economiche profonde a cui le vicende politiche e i fenomeni culturali devono, in ultima analisi, essere ricondotti. L’interpretazione materialistica della storia diede così origine a una storiografia “economicistica”, che assumeva la lotta di classe come fondamento esplicativo del processo storico in tutte le sue manifestazioni. Ma, trasferito sul terreno della ricerca storica concreta, il paradigma marxistico andò incontro anche a limitazioni e correzioni. E la prima di queste consistette nell’abbandono dello schema dicotomico, che postulava in ogni società, in particolare in quella borghese-capitalistica, l’esistenza di due classi contrapposte che tendono ad assorbire i ceti intermedi. Già Marx nei suoi scritti storici – come Le lotte di classe in Francia (1850) e Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte (1852) – si era distaccato da tale schema offrendo un’analisi articolata delle diverse classi presenti nella società francese di metà Ottocento, dei loro interessi e dei loro rapporti; e la storiografia marxistica proseguirà su questa stessa strada. In secondo luogo, anche l’impostazione economicistica fu spesso messa tra parentesi; e se si continuerà a riconoscere l’importanza decisiva dei processi economici, l’interesse si sposterà sempre più sui grandi rivolgimenti politici e politico-sociali, in primo luogo sulle rivolte sociali dell’antichità, sulle lotte sociali nelle città medievali, sui movimenti contadini agli inizi dell’età moderna, sulle rivoluzioni borghesi in Inghilterra e in Francia. La storiografia orientata in senso nazionale concentrò il proprio interesse sulle origini delle diverse nazioni europee e sul loro processo di unificazione, considerato come la realizzazione di un principio unitario incarnato nel “popolo”; la storiografia marxistica fece invece le sue prove più importanti nella storia delle rivoluzioni. All’interpretazione liberale, o liberale-nazionale, della Rivoluzione francese essa contrappose un’interpretazione in chiave sociale, che ne rintracciava la genesi nel mutamento della struttura di classe intervenuto nel corso del secolo XVIII e che ebbe la sua espressione soprattutto nell’opera di Albert Mathiez e di Georges Lefebvre. Non diversamente essa rinnovò, con Christopher Hill, l’analisi dell’Inghilterra del Seicento e delle due rivoluzioni inglesi. Ma anche la rivoluzione industriale e i suoi esiti diventarono un tema privilegiato di ricerca, che poteva agevolmente collegarsi allo studio delle condizioni della classe lavoratrice e dello sviluppo del movimento operaio nel corso del secolo XIX. Anche la storiografia marxistica, al pari di quella nazionalistica, favorì il legame della ricerca storica con la politica, e spesso, anzi, la sua subordinazione alla politica; favorì cioè l’ideologizzazione del lavoro storiografico. Né mancò il tentativo di giustificare in forma esplicita questa funzione politica, facendo appello agli interessi superiori della nazione o del proletariato. Dopo il tramonto dei regimi totalitari e il declino dell’impegno politico come criterio ispiratore dell’intellettuale, questo tentativo appare entrato in una crisi profonda. E tuttavia il rapporto tra storiografia e politica è presente, seppure in maniera più mediata, anche nella storiografia revisionistica, sia in quella che – richiamandosi al marxismo e nello stesso tempo a Max Weber – ha messo in questione l’immagine tradizionale della storia tedesca, sia in quella che – riprendendo la nozione di totalitarismo, rifiutata dalla storiografia marxistica – ha visto nel comunismo staliniano e nel nazismo fenomeni paralleli, interpretando le guerre del Novecento come episodi di una “guerra civile” europea conclusasi soltanto con il crollo dei regimi comunisti.

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6. La specializzazione della ricerca storica

Dalla scuola storica a Ranke e a Droysen, e poi allo storicismo di fine secolo, la storiografia è diventata la base di un edificio conoscitivo nel quale confluivano, in una posizione subordinata, le discipline tradizionali dell’antiquaria, e che tendeva a comprendere la scienza politica trasformata in scienza dello stato, l’economia politica e anche la geografia. Ciò comportava uno sforzo di storicizzazione di tutte le scienze relative al mondo umano e alla vita sociale, che poggiava da un lato sul presupposto del carattere individuale di ogni processo storico e dall’altro su una concezione dello sviluppo come sviluppo “globale”, non suscettibile di esser scomposto in aspetti tra loro indipendenti. Ranke ha offerto il modello di una storiografia che aspirava – sulla base di una documentazione che alle fonti tradizionali accoppiava l’impiego su larga scala di documenti diplomatici, in primo luogo delle relazioni degli ambasciatori veneti – a narrare i fatti “così come si sono propriamente svolti”, e che riconosceva nella fisionomia individuale di ogni epoca e di ogni popolo un valore autonomo, fondato sul suo rapporto immediato con la divinità; mentre Droysen si è proposto, nel Sommario di istorica (1867), di dare una giustificazione gnoseologica di questo edificio conoscitivo. I fenomeni naturali possono essere oggetto di spiegazione causale, ma soltanto i fatti storici possono esser “compresi” riportandoli al soggetto che li ha prodotti. Droysen affermava quindi che “l’essenza del metodo storico è comprendere indagando”, dove il lavoro d’indagine indica l’apparato strumentale di cui la ricerca storica si avvale, mentre il comprendere designa un procedimento conoscitivo che ha come soggetto e come oggetto l’uomo. L’Introduzione alle scienze dello spirito di Wilhelm Dilthey (1883) non farà che formulare in linguaggio kantiano, proclamando l’irriducibilità delle scienze dello spirito alle scienze della natura, l’ideale epistemologico della scuola storica, della quale non a caso egli si riteneva erede. La “globalità” dell’approccio della scuola storica non era però destinata a sopravvivere a lungo alla critica dei suoi presupposti filosofici. La trasformazione della storiografia in disciplina scientifica, inserita nel sistema dell’insegnamento universitario, comportava anzi un processo di sempre più marcata specializzazione. Il primo criterio di specializzazione era ovviamente quello tradizionale per ambiti cronologici: dapprima la distinzione tra storia antica, incentrata sulle vicende della Grecia e soprattutto di Roma, e storia successiva, in seguito l’ulteriore distinzione di quest’ultima in storia medievale e storia moderna, infine – ma è un fenomeno assai più recente – l’affermarsi di una storia contemporanea avente il proprio inizio con la Rivoluzione francese o con il passaggio dall’Ottocento al Novecento, per non parlare poi dello studio delle società e delle culture extraeuropee, che richiedeva formazione e competenze del tutto particolari. Se il medioevo comincia a esser studiato sistematicamente nel corso dei secoli XVII e XVIII, e se la cultura romantica inciderà profondamente sulla sua valutazione, l’Ottocento segna una svolta decisiva nella conoscenza dell’antichità, che dalla critica demolitrice di Niebuhr approda allo sforzo di ricostruzione di Theodor Mommsen e di Fustel de Coulanges, l’autore de La città antica (1864). Da parte sua la storia moderna si sviluppa attraverso lo studio del processo di costruzione delle singole nazioni europee, sia di quelle che – come la Francia, l’Inghilterra, la Spagna – erano sorte alla fine dell’età medievale, sia soprattutto delle nazioni di nuova formazione, in primo luogo della Germania. Ma la storiografia veniva specializzandosi anche in un’altra direzione, attraverso la nascita delle “storie speciali”. In realtà, il processo era in atto prima che alla ricerca storica si aprissero, nella Germania della seconda metà del Settecento, le porte dell’università; ed era, in qualche misura, una conseguenza della polemica voltairiana contro una storia incentrata sulle vicende dinastiche e militari e dei nuovi interessi che ispirano, dopo Voltaire, la storiografia illuministica. La storiografia politica si trasformava in una storia “speciale”, non diversamente dalla storiografia ecclesiastica che tanta fortuna aveva avuto nei due secoli precedenti; e a fianco di esse nascevano discipline come la storia dell’arte, la storia della letteratura, la storia della filosofia, la storia del diritto, favorite nella loro autonomia dall’appartenenza a facoltà diverse. Nel 1764 Johann Joachim Winckelmann pubblicava la Storia dell’arte antica, un’opera che si proponeva di scrivere la storia delle arti figurative nel mondo antico distaccandosi dalla tradizione vasariana delle vite degli artisti, e anzi contrapponendosi ad essa. Alla storia dell’arte si affiancava quella della letteratura, o più precisamente delle diverse letterature nazionali, a cui la cultura romantica darà un impulso decisivo. A cavallo tra Settecento e Ottocento, e in larga misura nello stesso clima culturale, nasceva la storia del diritto, sia del diritto tedesco con l’opera di Gustav Hugo e di Karl Friedrich Eichhorn, sia del diritto romano nel medioevo con il contributo decisivo di Savigny. Ma già nel corso del Settecento si erano sviluppati gli studi sulle “sette dei filosofi”, che avevano messo capo alla Historia critica philosophiae di Jakob Brucker, pubblicata nel 1742-44: nasceva così la storia della filosofia, che troverà una sistemazione nelle lezioni hegeliane e nell’opera degli allievi di Hegel. Quando, nell’introduzione al corso di lezioni sulla filosofia della “storia universale” Hegel passerà in rassegna i diversi tipi di storia “riflettente”, l’esistenza di storie speciali si imporrà alla sua considerazione come un fatto ormai compiuto. L’eredità della scuola storica sopravviveva però nel tentativo di realizzare una sintesi tra storia politica e storia delle idee, che conduceva a interpretare il corso degli avvenimenti come manifestazione di tendenze sottostanti di carattere spirituale, da cui esso trae il proprio senso. Ne derivava da un lato una sorta di “idealizzazione” delle vicende politiche, dall’altro una considerazione dei fenomeni intellettuali in funzione prevalente del processo di formazione delle nazioni e della costruzione degli stati nazionali. Ed essa si arricchiva di nuove dimensioni, come la considerazione della storia europea come di un sistema governato dalla tendenza all’equilibrio, e delle guerre tra gli stati europei come tentativi di rottura o di ripristino di tale equilibrio. Questo intreccio, già evidente in Ranke, troverà la sua realizzazione, nei primi decenni del Novecento, nell’opera di Meinecke, sia in Cosmopolitismo e stato nazionale (1908), che presentava il processo di formazione dello stato tedesco come l’esito della dialettica tra la “nazione culturale” tedesca e la “nazione territoriale” prussiana, sia ne L’idea della ragion di stato (1924), che forniva un quadro della moderna storia europea alla luce dell’antitesi tra potenza e spirito, tra krátos ed éthos. Su un terreno analogo si è mosso Benedetto Croce, con la concezione della storiografia come una storia etico-politica. Pur nella distanza nel modo di concepire lo storicismo e la sua storia, Croce concordava con Meinecke nell’attribuire allo sviluppo storico un carattere spirituale; anzi, egli vedeva in esso lo “svolgimento” di uno spirito infinito che procede passando dall’una all’altra delle sue forme eterne. E, tra queste forme, dapprima poste sullo stesso piano, egli finì per privilegiare quella etica. La conseguenza fu che, pur ammettendo la possibilità di storie distinte per ognuna delle forme dello spirito – di una storia artistico-letteraria, di una storia della filosofia (e della storiografia), di una storia economica, di una storia della vita morale – egli giunse a considerare quest’ultima come “la storia per eccellenza”, come la sintesi della Staatsgeschichte e della Kulturgeschichte. Egli recuperava così, in antitesi alla storia illuministica intesa come storia della civiltà, una visione del processo storico come sviluppo dello stato e lotta tra gli stati; al tempo stesso, però, riportava la storia politica al processo di formazione degli “istituti morali”, al progredire della coscienza morale dell’umanità. In tal modo la storia etico-politica veniva interpretata come storia religiosa, anche se di una religione intesa immanentisticamente; e il quadro dell’Ottocento tracciato nella Storia d’Europa nel secolo decimonono (1932) diventava quello dell’affermazione della “religione della libertà” contro quelle che Croce chiamava le “fedi religiose opposte”, dal cattolicesimo e dall’assolutismo monarchico all’ideale democratico e, infine, al comunismo. La storia etico-politica trovava il suo “principio” nella libertà, approdando in Croce a una concezione “speculativa” della storia da cui la generazione successiva degli storici italiani – da Federico Chabod a Carlo Morandi, Walter Maturi, Delio Cantimori – cercherà di svincolarsi lasciando cadere i presupposti filosofici dello storicismo crociano. Questa sintesi tra storia politica e storia delle idee, tra Staatsgeschichte e Kulturgeschichte, lasciava però ai margini un ambito di ricerca che si era gradualmente affermato nel corso dell’Ottocento, anche e soprattutto in conseguenza del processo di industrializzazione, cioè la storia economica. In realtà, l’interesse per lo sviluppo delle tecniche produttive e delle relazioni commerciali tra gli stati risaliva più all’indietro, per lo meno alla seconda metà del secolo precedente: ne è documento, oltre allo Saggio sulla storia della società civile di Adam Ferguson (1767) e alle parti più propriamente storiche della Ricchezza delle nazioni di Adam Smith (1776), un’opera come la Storia filosofica e politica degli insediamenti e del commercio degli europei nelle due Indie dell’abate Raynal (1770), che collegava la storia del commercio con il processo di incivilimento. Marx e il marxismo ottocentesco, concependo la storia in termini di rapporto dialettico tra struttura e sovrastruttura, avevano visto nella successione delle forme di produzione, correlate con le forme di proprietà, il fondamento del processo storico. E se il Capitale offriva un’interpretazione teorica dello sviluppo del capitalismo moderno, la sua rilevanza anche per la ricerca storica era indubbia. In riferimento ad esso, anche se sovente in polemica con i presupposti del materialismo storico, la nascente storia economica si orientò in particolare verso lo studio da un lato dell’economia antica, dall’altro delle origini del capitalismo. Da Mommsen e August Meitzen a Eduard Meyer e Max Weber, fin poi a Michael Rostovtzeff, l’analisi della struttura agraria e della struttura proprietaria, dei rapporti tra città e campagna, dei centri di produzione e delle correnti di traffici nell’antichità ha rappresentato un tema centrale della storia economica, spesso intrecciandosi con la ripresa del problema della decadenza del mondo antico impostato da Gibbon. A cavallo tra Otto e Novecento, poi, il riconoscimento delle differenze tra capitalismo antico e capitalismo moderno spingeva studiosi come Werner Sombart e Lujo Brentano a cercare nell’economia cittadina degli ultimi secoli del Medioevo la nascita di una nuova struttura economica, mentre Weber indicava nell’etica calvinistica e puritana l’origine del moderno “spirito” capitalistico. Nel Novecento, poi, la storia economica verrà sempre più a configurarsi come una disciplina a sé, caratterizzata da specifici metodi d’indagine e spesso in rapporto con le prospettive teoriche della scienza economica. Alla fine dell’Ottocento la storiografia si presenta ormai come un insieme di discipline e di indirizzi di ricerca privi di unità sistematica, anche se pur sempre riconducibili a quello che Marc Bloch chiamerà il “mestiere dello storico”. Sorta come narrazione di avvenimenti, la storiografia era assurta a forma autonoma di conoscenza a fianco delle scienze della natura, compiendo anch’essa un analogo processo di professionalizzazione. In un mondo sempre più permeato di coscienza storica, il suo ruolo non era più marginale, come nell’antichità o ancora nel medioevo; era divenuto, al contrario, centrale. Ma a questo successo faceva riscontro una sfida imprevista, che proveniva dalle scienze sociali.

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7. Storiografia e scienze sociali

Per molti secoli la storiografia è stata, insieme alla filosofia (e al diritto), l’unica via di accesso alla conoscenza del mondo umano e della vita sociale. Da Platone e Aristotele al giusnaturalismo moderno la filosofia si è proposta, tra gli altri suoi compiti, di determinare i principi della convivenza umana, individuando le diverse forme di governo o delineando un modello “razionale” di organizzazione sociale. La storiografia, invece, ha narrato il corso degli avvenimenti e ne ha ricercato i nessi causali, fino a invadere il dominio della filosofia allorché ha ritenuto di poter formulare relazioni generali di causa ed effetto, valide per tutte le epoche. Tra Sette e Ottocento questo monopolio conoscitivo è venuto gradualmente meno con l’emergere delle scienze sociali. A partire dalla metà del secolo XVIII il riferimento al modello della moderna scienza della natura ha reso possibile una considerazione scientifica della società, che si è concentrata – dallo Spirito delle leggi di Montesquieu (1748) al Tableau économique di Quesnay (1758) e alla smithiana Ricchezza delle nazioni – sull’analisi delle leggi della vita politica o di quelle della formazione e della riproduzione della ricchezza, ma si è spinta fino al tentativo di applicare il calcolo delle probabilità ai fenomeni sociali. E proprio in quel clima culturale vengono poste le basi dell’economia politica come disciplina autonoma. Nel corso dell’Ottocento, poi, nascono e si sviluppano la sociologia e l’antropologia: la prima sulla base della consapevolezza della novità della società moderna, prodotto dell’industrializzazione e del ruolo direttivo assunto dal sapere scientifico, la seconda dal riconoscimento del valore culturale delle società primitive e dal tentativo di individuare le tappe dell’evoluzione dell’umanità. Non soltanto la scienza economica ma anche la sociologia e l’antropologia tendevano a svilupparsi in maniera sempre più indipendente dalla storiografia, e prescindendo da un’impostazione storica. Nello stesso anno in cui Dilthey pubblicava l’Introduzione, Carl Menger criticava a fondo lo storicismo dell’economia politica tedesca, contrapponendole un paradigma alternativo, quello marginalistico. E se la sociologia era sorta, con Saint-Simon e Comte, come una concezione generale della società che prestava il fianco alla critica di essere una metafisica “naturalistica” della storia, secondo la definizione datane da Dilthey, ben presto Ferdinand Tönnies ed Émile Durkheim la indirizzavano verso la formulazione di modelli di organizzazione sociale strutturalmente distinti, come quelli di “comunità” e di “società” o quelli di “solidarietà meccanica” e di “solidarietà organica”. Nello stesso periodo, a partire dagli anni Sessanta, l’antropologia riprendeva il programma illuministico di individuare le tappe di sviluppo dell’umanità, ma con lo sguardo rivolto non tanto al mondo europeo quanto alle culture primitive rivelate dallo studio etnografico delle popolazioni indigene del continente americano e di quello australiano, e stabilendo una corrispondenza tra le loro condizioni di vita e quelle dei popoli antichi in età arcaica. Così, a fine Ottocento, le scienze sociali ponevano alla storiografia una sfida decisiva; e la ponevano proprio sul terreno della capacità di conoscere il mondo umano e i fenomeni delle società umane, che essa aveva creduto acquisito a sé per sempre. Le nuove discipline apparivano infatti in grado di cogliere nel processo storico nessi causali e relazioni di carattere generale; cosicché la ricerca fu costretta a rivendicare come proprio compito, precluso alle scienze “nomotetiche” (secondo la definizione di Windelband), la conoscenza dell’individuale. Ma la sfida delle scienze sociali veniva raccolta in modo intenzionale all’inizio del Novecento, e in paesi rimasti estranei all’eredità della scuola storica come la Francia e gli Stati Uniti. In Francia Henri Berr, in polemica con la storia erudita, avanzava l’esigenza di una “sintesi” che procedesse oltre la raccolta dei fatti, cercando di determinarne le differenze e le analogie e contribuendo in tal modo alla formulazione di leggi. E negli Stati Uniti la new history di Charles A. Beard e di James H. Robinson cercava, attraverso una considerazione in termini economici e non più soltanto giuridico-istituzionali della storia americana, di pervenire alla scoperta di “costanti” del processo storico. Mentre la storiografia sviluppatasi sul tronco della scuola storica respingeva come illegittima la ricerca di leggi generali, anche quando essa veniva condotta da altre discipline, in Francia e nel mondo anglosassone si tentava invece una saldatura, per quanto problematica, con la sociologia e i suoi risultati. Ma il paradigma storicistico era destinato a entrare in crisi proprio nella sua terra d’origine, cioè nella cultura tedesca. Pur riconoscendo – sulla linea di Windelband e di Rickert – nell’orientamento individualizzante la specificità logica della ricerca storica, Max Weber recuperava la funzione delle leggi generali nel suo procedimento esplicativo. È vero che la spiegazione storica non può essere assimilata a quella delle scienze naturali, in quanto questa è una spiegazione che si presenta come deduzione del fenomeno da spiegare da un sistema di leggi, mentre quella è un procedimento di “imputazione” dell’avvenimento ad altri che lo precedono nel tempo; tuttavia anch’essa si avvale di concetti e di leggi generali. Il sapere nomologico è indispensabile alla ricerca storica non meno che alle scienze naturali. E questo sapere le è fornito, in massima parte, dalle scienze sociali, dall’economia come dalla sociologia. All’inizio Weber concepiva le scienze sociali come discipline strumentali alla conoscenza storica, con la funzione di formulare in maniera più o meno sistematica i tipi ideali di cui si avvale nella spiegazione di processi individuali; ma in seguito esse acquistavano una propria autonomia, fino a porsi in qualche modo in antitesi alla storiografia. Rimaneva in ogni caso il fatto che la conoscenza storica non produce da sé il sapere nomologico del quale ha bisogno, ma lo deriva soprattutto dalle scienze sociali: il carattere strumentale di queste discipline si tramutava così in un rapporto di dipendenza della storiografia dal loro apparato teorico-concettuale. A ciò faceva riscontro un tipo di indagine orientata in senso comparativo, nel quale la ricostruzione storica risultava sorretta dall’impiego di categorie interpretative collegate in un quadro sistematico: la “sociologia della religione” ne forniva il modello. Ma anche per un’altra strada la storiografia istituiva un rapporto positivo con le scienze sociali. La storia degli avvenimenti cedeva il posto all’analisi di istituzioni, di processi di lungo periodo, di strutture economico-sociali; e ciò richiedeva il ricorso crescente alla sociologia, all’antropologia, alla psicologia. Sulla scia di Berr, ma anche sotto l’influenza di Durkheim e della scuola durkheimiana, Marc Bloch e Lucien Febvre fondavano nel 1929 le “Annales d’histoire économique et sociale”. La “sintesi” scientifica vagheggiata da Berr veniva ora cercata attraverso la stretta collaborazione con la geografia umana, con l’economia, con la demografia, con l’etnologia. Il risultato era l’affermazione del primato delle strutture rispetto agli avvenimenti, la quale si tradurrà, nella successiva generazione delle “Annales”, nella polemica nei confronti dell’histoire événementielle. Quando poi, negli anni Cinquanta, l’onda montante dello strutturalismo in linguistica e in antropologia rischiava di ridurre la storia a un’apparenza superficiale, Fernand Braudel elaborerà una teoria del tempo storico intesa a ricondurre a una dimensione temporale la stessa analisi della struttura, proponendo di distinguere tre dimensioni della temporalità: la “lunga durata”, il tempo “congiunturale” e infine il tempo breve degli avvenimenti. Il primato della storia strutturale si traduceva nel primato della “lunga durata” rispetto alle altre forme di tempo storico, in una scala decrescente di importanza. In tal modo, però, il rapporto tra storiografia e scienze sociali veniva a rovesciarsi: la ricerca storica traeva sì dalle altre discipline – dal “mercato comune” delle scienze sociali, come Braudel lo ha chiamato – i concetti di cui si serve e anche parte del suo materiale, ma diventava il luogo dell’integrazione tra queste discipline. Nell’intento degli storici delle “Annales” successori di Braudel la storia si presentava perciò come “storia totale”, capace di inglobare in sé tutte le scienze dell’uomo e della società. Si trattava tuttavia di un programma troppo ambizioso, che dovrà essere abbandonato dinanzi allo sviluppo impetuoso delle scienze sociali nella seconda metà del secolo. Mentre il gruppo delle “Annales” perseguiva il suo sogno imperialistico, sempre più emergeva infatti il rapporto inverso, cioè il rapporto di dipendenza della storiografia dall’apparato teorico-concettuale delle scienze sociali. In questo senso la storiografia tedesca del secondo dopoguerra si è presentata come “scienza sociale storica”, come un tipo particolare di scienza sociale caratterizzata dall’interesse per i processi di trasformazione intervenuti nel passato. Nello stesso periodo si è registrato anche un ritorno alla storia comparata. Coniugando sociologia, economia e scienza politica con la ricerca storica, la storia comparata ha infatti impostato, negli anni Sessanta e Settanta un confronto su larga scala – non limitato all’ambito europeo – tra processi di formazione nazionale e di allargamento della cittadinanza, processi di modernizzazione, movimenti rivoluzionari. Al limite di questo impegno comparativo si collocano indagini come quelle di Immanuel Wallerstein sulla formazione del “sistema-mondo” nell’età moderna, o di Samuel Eisenstadt sugli imperi antichi e sul sorgere delle religioni universali dall’era assiale (come l’aveva chiamata Karl Jaspers). Nonostante il “ritorno alla narrazione” proclamato nel 1979 da Lawrence Stone, e nonostante l’effimero fiorire dell’interpretazione “narrativistica” del lavoro dello storico in chiave postmoderna, la storiografia è ormai – per usare una distinzione emersa nel corso del Settecento – non meno cognitio che narratio. Certamente, essa è, e probabilmente rimarrà sempre, narrazione, qual era fin dal momento della sua nascita nella Grecia del V secolo a.C.; ed è narrazione di processi individuati nello spazio e nel tempo. Ma questa narrazione appare intessuta di concetti, di schemi esplicativi, di “teorie” più o meno esplicite, che la storiografia può sì desumere anche dal “senso comune” e dal linguaggio ordinario, ma che in parte trae dal sapere scientifico, dalle scienze sociali ma anche da altre scienze, per esempio dalla genetica (come nello studio dei processi di diffusione dell’uomo sulla faccia della terra, intrapreso da Luca Cavalli-Sforza attraverso l’analisi della composizione del DNA degli abitanti delle diverse regioni del pianeta). Talvolta la ricerca storica deve anche utilizzare – e di fatto ha utilizzato – strumenti quantitativi, come nella storia della popolazione o nella new economic history. Le generalizzazioni di provenienza scientifica e gli strumenti quantitativi hanno in qualche modo preso il posto delle vecchie discipline “ausiliarie” della storia; e non a caso Arnaldo Momigliano ha visto la prova del passaggio dall’antiquaria alla sociologia nel duplice rapporto di Durkheim con Fustel de Coulanges e di Weber con Mommsen. La sfida delle scienze sociali ha quindi recato a una profonda trasformazione della storiografia. Ma non ha affatto segnato la fine della sua identità: non diversamente dal proposito, perseguito dalla scuola storica, di dare un fondamento storico a tutte le scienze dell’uomo e della società, anche l’opposto programma di riduzione della storiografia alle scienze sociali può ormai dirsi fallito. La ricerca storica non è diventata una provincia – e meno ancora una colonia – delle scienze sociali; anzi, in un periodo di crisi di queste ultime, essa ha riconquistato un’autonomia che sembrava messa in questione. [Pietro Rossi]

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