storicismo

Il termine “storicismo” non possiede una connotazione univoca; e ciò anche per il fatto che esso si è diffuso soltanto nel nostro secolo, di solito per designare movimenti e prospettive teoriche che risalgono ai secoli precedenti. Questo impiego prevalentemente storiografico spiega perché esso sia servito per indicare cose diverse: da un lato la concezione della storia formulata dalla scuola storica tedesca, dall’altro le posizioni (tutt’altro che coincidenti) di autori come Wilhelm Dilthey, Georg Simmel, Ernst Troeltsch, Friedrich Meinecke, e in qualche misura anche Max Weber, da un altro ancora – ma soltanto nella cultura italiana – una tradizione speculativa che avrebbe i suoi capostipiti in Vico e in Hegel, e il suo culmine in Benedetto Croce. Fino al periodo tra le due guerre nessun autore, infatti, si è qualificato “storicista”; e prima di allora il termine ha avuto piuttosto una valenza negativa. È soprattutto a Meinecke che si deve un tentativo di definizione (per quanto discutibile) e una ricostruzione complessiva dello storicismo come movimento filosofico, sviluppata ne L’origine dello storicismo (1936).

  1. La scuola storica tedesca
  2. Storicismo e critica della conoscenza storica
  3. Lo storicismo contemporaneo e le sue direzioni
1. La scuola storica tedesca

Pur in questa molteplicità di significati, non c’è dubbio che lo storicismo non rappresenta soltanto un indirizzo storiografico, pur avendo inciso largamente sui presupposti della ricerca storica, ma costituisce in primo luogo una concezione generale della realtà, o almeno dell’uomo e del mondo umano, le cui radici sono da rintracciare nella cultura tedesca di fine Settecento (la considerazione del pensiero di Vico come storicismo rappresenta, in realtà, una designazione retrospettiva, ed è quanto mai contestabile). La sua nascita si collega infatti strettamente con la reazione contro la filosofia francese che comincia a delinearsi prepotente con Johann Gottfried Herder (1744-1803). Alla concezione della storia come progresso dell’umanità da un originario stato selvaggio alla civiltà Herder aveva contrapposto, in Ancora una filosofia della storia per l’educazione dell’umanità (1774), una visione evolutiva fondata sull’analogia tra la vita dell’umanità e quella dell’individuo, nella quale la successione delle epoche – vista come passaggio graduale dall’infanzia alla giovinezza e poi all’età virile – veniva a coincidere con la successione dei popoli. In tal modo ogni epoca della storia recava l’impronta del carattere nazionale di un particolare popolo, destinato anch’esso a percorrere, al pari dell’umanità nel suo insieme, un ciclo vitale. Herder collegava questo modello organicistico con la concezione della storia come realizzazione di un disegno provvidenziale: ogni popolo assolve, nella storia dell’umanità, un compito insostituibile, recando ad esso il contributo della sua peculiare natura, del suo “spirito”. La nozione di “spirito del popolo” (Volksgeist) veniva così a designare l’essenza propria di ogni popolo, il fondamento che garantisce l’unità delle sue manifestazioni nel corso dello sviluppo. E proprio questa nozione veniva ripresa dalla scuola storica. Mentre la filosofia della storia di Hegel (1770-1831) sviluppava piuttosto il provvidenzialismo di Herder, facendo dei particolari “spiriti dei popoli” i momenti di realizzazione dell’unico “spirito del mondo”, e si proponeva di porre in luce, al di là dell’accidentalità degli eventi, la sostanza razionale della storia come sviluppo di questo spirito, Friedrich Carl von Savigny (1779-1861) interpretava il diritto come creazione individuale di ogni popolo, e su questa base respingeva la tradizione del giusnaturalismo. Ma è stato soprattutto Leopold von Ranke (1795- 1886) a definire l’impostazione teorica dello storicismo romantico e ad attuarla concretamente in una serie di opere, dalle Storie dei popoli neolatini e germanici dal 1494 al 1535 (1824) fino alle Epoche della storia moderna (1854) e all’incompiuta Storia universale (1881-85). Più che l’individualità dei popoli, egli ha però sottolineato l’individualità delle epoche. Ogni epoca è caratterizzata da tendenze dominanti che hanno carattere “ideale”, e che plasmano gli uomini i quali vivono in essa; né è possibile interpretare la successione delle epoche come uno sviluppo orientato teleologicamente, in virtù del quale le epoche precedenti siano la preparazione di quelle seguenti, e queste il loro esito necessario. Ogni epoca possiede un valore in sé, ed è – come Ranke si è espresso – in rapporto immediato con Dio. La presenza della divinità nella storia non permette quindi – diversamente da quanto riteneva Hegel – di scorgere nella successione delle epoche uno sviluppo “progressivo”. Comune allo storicismo romantico era però soprattutto la convinzione che tutte le scienze concernenti l’uomo, la società e lo stato dovessero avere un fondamento storico. Alla considerazione scientifica della società sul modello della moderna scienza della natura, quale si era affermata nella seconda metà del Settecento – da Montesquieu ad Adam Smith – essa ha contrapposto un modello epistemologico alternativo, che non soltanto implicava l’autonomia del sapere storico rispetto alla conoscenza della natura, ma che riconduceva quelle discipline a un fondamento storico. Da ciò il carattere inevitabilmente “parziale” che esse rivestono, assumendo a oggetto un aspetto solo astrattamente isolabile del processo storico come, appunto, il diritto o l’economia o la struttura statale. Soltanto la conoscenza storica è in grado di comprendere il processo storico, al pari di ogni singola epoca, nella sua totalità; ed essa soltanto può svelare il significato profondo degli avvenimenti e dei loro rapporti. Lo storicismo della scuola storica si manteneva così fedele a quell’impianto organicistico che aveva ereditato da Herder, non senza che sulla storia si proiettasse, in vario modo, l’ombra della divinità che sola può dare un senso al cammino dell’umanità.

Top

2. Storicismo e critica della conoscenza storica

Negli ultimi due decenni dell’Ottocento si compie tuttavia una svolta decisiva nella vicenda dello storicismo: l’incontro con il movimento neocriticistico e l’esigenza di dare una fondazione gnoseologica a quelle che saranno chiamate le “scienze dello spirito” o anche le “scienze della cultura”. Questa svolta ha inizio con l’Introduzione alle scienze dello spirito (1883) di Wilhelm Dilthey (1833-1911), che si richiama sì al lavoro della scuola storica, ma ne lascia cadere i presupposti organicistici, e soprattutto respinge il tentativo di costruire sulla base della storia una metafisica che riporti il corso storico a un principio incondizionato, sia esso trascendente (come nella concezione cristiana) oppure immanente (come in Hegel). Dilthey muoveva dalla constatazione dei limiti della critica kantiana, che si era riferita alle scienze della natura ma aveva invece trascurato le scienze dello spirito, sviluppatesi, del resto, soprattutto dopo Kant. Era quindi necessario allargare l’ambito dell’indagine critica, affiancando alla critica della ragion pura una critica della “ragione storica”, in grado di “fondare” le discipline aventi per oggetto l’uomo, la società e lo stato. Ma questo allargamento doveva accompagnarsi a una diversa impostazione dell’indagine critica, che la collegasse a un’analisi non metafisica della struttura del mondo storico. Veniva così a delinearsi un tipo di storicismo differente da quello romantico, e per molti versi ad esso alternativo. Esso si muoveva su un duplice terreno: quello dell’indagine epistemologica e metodologica e quello, appunto, dell’analisi della struttura del mondo storico. Sull’uno come sull’altro le soluzioni che esso ha elaborato erano tutt’altro che univoche. Dilthey, più di altri legato al lavoro della scuola storica, interpretava il sapere storico in termini di “scienze dello spirito”, comprensive sia della ricerca storica sia della psicologia e delle varie scienze sociali, e si proponeva di determinarne i tratti differenzianti rispetto alle scienze della natura: la distinzione tra i due gruppi di discipline riguardava perciò, insieme, il loro oggetto e il loro metodo. Mentre le scienze della natura hanno per oggetto dei fenomeni appartenenti a un mondo esterno all’uomo, e muovono quindi dall’esperienza esterna, nelle scienze dello spirito soggetto e oggetto appartengono al medesimo mondo, e la conoscenza procede quindi dall’esperienza vissuta che il soggetto ha dei propri stati interiori. In questo quadro Dilthey riprendeva da Johann Gustav Droysen (1808-1884) la caratterizzazione del sapere storico come “intendere” o “comprensione” (Verstehen), indicando nell’antitesi tra spiegazione e comprensione la base della distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito. Altri autori, invece, di più diretta ispirazione neocriticistica, soprattutto Wilhelm Windelband (1848-1915) e il suo allievo Heinrich Rickert (1863-1936), trasponevano in termini di metodo la tesi rankiana dell’individualità dell’oggetto della storia, definendo la conoscenza storica come conoscenza orientata verso l’individuale, in contrapposizione alla scienza naturale che procede alla ricerca di leggi generali. Altri ancora, come Simmel (1858-1918), guardavano piuttosto alle scienze sociali e soprattutto alla sociologia, formulando, in analogia al problema kantiano della possibilità della natura, quello della possibilità della società. A questa varietà di posizioni corrispondeva il diverso approccio alla struttura del mondo storico. Respingendo il postulato del carattere trascendentale del soggetto conoscente, Dilthey ha sviluppato la critica della “ragione storica” in una critica storica della ragione, ed è pervenuto così a una teoria della storicità. Il mondo storico – sistemi di cultura, sistemi di organizzazione sociale, epoche – è il risultato del processo di oggettivazione della vita, è cioè “spirito oggettivo”; ma la vita, in quanto attributo proprio dell’uomo, è essa stessa un processo che si svolge nel tempo. L’uomo è quindi un essere storico, e le sue manifestazioni di vita sono perciò storicamente condizionate, relative a una determinata epoca. Da ciò Dilthey derivava la negazione dell’assolutezza dei valori, in aperto contrasto con Windelband e Rickert, i quali avevano sviluppato il neocriticismo nel senso di una teoria dei valori. E in ciò si trovava piuttosto in consonanza con Simmel, che da un’interpretazione psicologica dell’a priori kantiano perveniva ad affermare la relatività del conoscere come delle altre forme della vita, per poi approdare, dopo il 1910, a una filosofia della vita di stampo immanentistico fondata sulla dialettica tra vita, “più-vita” e “più-che-vita”.

Top

3. Lo storicismo contemporaneo e le sue direzioni

Nel periodo tra le due guerre lo storicismo tedesco contemporaneo mutava strada, puntando al recupero delle prospettive metafisiche dello storicismo romantico. Il tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler (1880-1936), pubblicato all’indomani del primo conflitto mondiale, aveva posto in luce le implicazioni radicalmente relativistiche dello storicismo, concependo la storia come il terreno di sviluppo di culture tra loro eterogenee, ognuna portatrice di un proprio sistema di valori, partecipabile soltanto dagli individui che vivono nel suo ambito. Spengler si era richiamato a Goethe e a Nietzsche: dal primo egli aveva tratto da un lato la contrapposizione tra il “mondo come natura” e il “mondo come storia”, riconducendo a questa l’antitesi diltheyana tra spiegazione e comprensione, dall’altro l’analogia tra cultura e organismo; dal secondo aveva derivato i presupposti della distinzione tra cultura e civiltà (Zivilisation), quest’ultima intesa come il momento dell’inevitabile declino di ogni cultura. Contro tale esito relativistico dello storicismo Troeltsch (1865-1923) e Meinecke (1862-1954) si proponevano di riaffermare l’assolutezza dei valori all’interno stesso del processo storico, il primo proponendo una filosofia “materiale” della storia in grado di attuare una “sintesi culturale” tra le diverse componenti nazionali della civiltà europea, il secondo richiamandosi a Ranke e indicando la struttura del processo storico nel rapporto con la divinità. Nell’uno come nell’altro la presenza dei valori nella storia non esclude la loro trascendenza, e quindi la loro possibilità di sottrarsi al corso del divenire. Diversa era la direzione suggerita nei primi due decenni del secolo da Max Weber (1864-1920), una direzione destinata a condurre – secondo l’espressione di Wolfgang Mommsen – “al di là dello storicismo”. Egli rompeva decisamente i ponti con lo storicismo romantico, riprendendo la critica di Karl Menger (1840-1921) alla scuola storica di economia e respingendone i presupposti organicistici. E nel far ciò si richiamava non già a Dilthey, ancora legato all’eredità della scuola storica, ma alla distinzione rickertiana tra conoscenza storica e scienza naturale. La conoscenza storica si configurava però, nella sua analisi, come un insieme di discipline a cui è essenziale non soltanto l’intento di spiegare i fenomeni storici, ma anche l’impiego di quello che egli chiamava il sapere nomologico. L’orientamento verso l’individualità non esclude affatto l’impiego di concetti e di leggi generali, che sono anzi indispensabili per la spiegazione degli avvenimenti e dei loro rapporti. E proprio questi concetti e queste leggi – che, a differenza di quelli della scienza naturale, rivestono un carattere tipico-ideale – danno luogo, organizzandosi sistematicamente, alla teoria economica “pura” e alla sociologia, cioè a discipline generalizzanti che tendono a divaricarsi rispetto alla ricerca storica vera e propria. Ma il distacco di Weber dalla teoria dei valori di Rickert avveniva anche, e soprattutto, su un altro terreno: quello dell’interpretazione dei valori. Rickert aveva cercato la garanzia di validità della conoscenza storica nel postulato dell’esistenza di valori incondizionati, trascendenti rispetto al corso storico; Weber scorgeva invece nella relazione ai valori un criterio di scelta all’interno dell’infinità del dato empirico e quindi un criterio di costituzione dell’oggetto storico. Lungi dall’essere assoluti, i valori possiedono una validità che coincide con la possibilità di realizzarsi nell’agire umano. Né essi possono, come voleva Rickert, organizzarsi in forma sistematica: i valori sono molteplici, così come molteplici sono le sfere dei valori. Tra le diverse sfere, e all’interno di ognuna di esse, c’è un rapporto di “collisione” tra valori: anche all’interno della sfera etica, dominata dalla tensione tra etica dell’intenzione o della convinzione (Gesinnungsethik) ed etica della responsabilità (Verantwortungsethik). Posto di fronte alla pluralità dei valori e al loro conflitto, l’uomo deve prendere posizione; e la scelta di determinati valori comporta inevitabilmente il rifiuto di altri. La storia diventa così l’orizzonte nel quale l’uomo si pone in relazione con i valori, assumendoli come criterio del proprio agire e quindi realizzandoli. Al pari di Troeltsch e di Meinecke, anche Weber si muoveva nel solco dello storicismo contemporaneo. E non a caso si era incontrato con Troeltsch nel comune impegno a uno studio storico-sociologico delle religioni: egli muovendo dal tentativo di rintracciare nel protestantesimo ascetico l’origine dello spirito capitalistico e approdando a un’analisi comparativa delle religioni universali sotto il profilo della loro etica economica, questi offrendo un quadro complessivo delle dottrine sociali delle chiese e dei gruppi cristiani. Differente era invece l’origine dello storicismo di Croce (1866-1952), che si richiamava alla filosofia della storia di Hegel pur proponendo, al tempo stesso, una “riforma” della dialettica hegeliana che negava l’esistenza di una natura esterna allo spirito e veniva perciò a risolvere anche l’idea nello spirito. In tal modo la realtà veniva identificata con lo spirito, e questo con la storia; corrispondentemente – sul piano gnoseologico – la conoscenza era concepita come conoscenza storica, mentre alla scienza, sia essa astratta (come la matematica e l’economia politica) oppure empirica (come l’insieme delle scienze della natura), era negato qualsiasi valore conoscitivo e attribuito invece un carattere “economico”. In questo senso Croce definiva il proprio come “storicismo assoluto”, cioè come l’affermazione del carattere integralmente storico della realtà e del conoscere. Ma esso era assoluto anche in un altro senso, forse più profondo: nel senso che la storia era concepita come “svolgimento” di un principio incondizionato, lo spirito, il quale si realizza passando dall’una all’altra delle sue forme eterne, dall’attività artistica a quella logica, dall’attività economica a quella etica. Rispetto a questo processo gli individui sono semplici strumenti, quand’anche vengono riconosciuti come tali: il rapporto costitutivo della storia è, infatti, quello dello spirito non con gli individui, bensì con le sue “opere”. Croce ha elaborato i principi dello “storicismo assoluto” a partire dalla fine degli anni Venti, quando ormai la vicenda dello storicismo tedesco contemporaneo volgeva al termine. E la distanza tra i due tipi di storicismo emerse chiaramente all’indomani della pubblicazione dell’Origine dello storicismo di Meinecke, dando luogo a un dibattito che poneva in luce non solo il diverso modo di concepire lo storicismo, ma anche la diversa interpretazione della sua storia. Croce ha infatti contrapposto il proprio storicismo non soltanto al “razionalismo astratto” della cultura illuministica, ma anche all’irrazionalismo che egli scorgeva nell’eredità della scuola storica e nella stessa posizione di Meinecke. Mentre questi aveva cercato l’origine dello storicismo nel trapasso dal diritto naturale alla cultura romantica, e ne aveva additato il culmine in Goethe e in Ranke, Croce considerava quella di Ranke una storiografia non problematica e tracciava una linea di continuità tra Hegel e lo “storicismo assoluto”, complicata dal richiamo a Vico come suo progenitore nazionale. In quello stesso periodo lo storicismo – soprattutto quello tedesco – cominciava a diffondersi sia nei paesi latini sia in quelli anglosassoni, dando luogo a esposizioni e a rielaborazioni anche importanti, come quelle di José Ortega y Gasset (1883-1955) in Spagna o di Raymond Aron (1905-1983) in Francia; lo stesso storicismo di Croce, seppur non ben distinto da quello diltheyano, trovava eco in Inghilterra grazie all’opera di Robin G. Collingwood (1889-1943). Ma la sua parabola si avviava ormai al termine. Già nel 1944 Karl Popper (1902-1994), riprendendo le critiche del neopositivismo alla dicotomia tra conoscenza storica e scienza naturale, scriveva un saggio dal titolo significativo, Miseria dello storicismo, e nell’immediato dopoguerra lo storicismo sarà oggetto di altri attacchi frontali di varia provenienza, da parte di autori come Leo Strauss (1899-1973) e Karl Löwith (1897-1973). In seguito, la seconda metà del secolo conoscerà soltanto di rado posizioni filosofiche che facciano professione esplicita di “storicismo”, anche quando ne riprendono i motivi e le analisi. [Pietro Rossi]

Top