Spagna

Stato attuale dell’Europa occidentale.

  1. Preistoria e antichità preromana
  2. La colonizzazione romana e la prima cristianizzazione
  3. Invasioni barbariche e regno visigoto
  4. La conquista araba. L’emirato, il califfato e i “regni di Taifas”
  5. La reconquista e l’epica del “Cid Campeador”
  6. L’espansionismo dei regni cristiani
  7. Il completamento della reconquista e l’unificazione politica: i “re cattolici”
  8. L’impero coloniale
  9. Il “secolo d’oro”: da Carlo V a Filippo II
  10. La decadenza
  11. La Spagna borbonica tra Sette e Ottocento
  12. Perdita dell’impero e disgregazione monarchica
  13. Dalla prima alla seconda repubblica
  14. L’epoca della guerra civile. Il regime franchista
  15. Dal franchismo al ritorno della monarchia Borbone
  16. Da Suarez a Zapatero. I problemi attuali
  17. TABELLA: Sovrani di Spagna
1. Preistoria e antichità preromana

La parte spagnola della penisola iberica rappresenta un importante campo d’osservazione per gli studi di preistoria dell’Europa occidentale. L’“uomo di Gibilterra” costituisce in effetti uno dei più antichi reperti preistorici dell’uomo preneandertaliano e testimonia insediamenti paleoantropici risalenti al paleolitico inferiore (oltre centomila anni a.C.). A partire da tale età si susseguirono nelle regioni iberico-spagnole del sud mediterraneo e del nord atlantico presenze costanti neandertaliane lungo il paleolitico medio e superiore – con produzioni inerenti le culture dell’amigdala e di strumenti di tipo magdaleniano – culminanti nell’apparizione più tarda di insediamenti del tipo antropico moderno di Cro-Magnon, della cultura delle grotte (note in particolare le grotte di Altamira, nella provincia di Santander) e delle pitture rupestri diffuse in varie zone, dai Pirenei alle Asturie sul versante atlantico e, procedendo dal nord al sud, nelle province di Lerida, Tarragona, Teruel, Castellon, Albacete, Murcia e Jaen. Tra il mesolitico e il neolitico la Spagna, popolata da tipi razzialmente diversificati tra sud e nord, partecipò alle principali produzioni culturali delle altre regioni europee: dalla civiltà megalitica del IV millennio (dolmen) alle ceramiche, alle piccole sculture e strumenti vari (tra cui asce) delle necropoli della cultura calcolitica di Los Millares risalente al terzo millennio, fino alla cultura del vaso campaniforme. Con l’età del bronzo (II millennio) si ebbe un periodo di stagnazione culturale, dal quale le regioni iberico-spagnole si ripresero solo a cominciare da una più qualificata colonizzazione di gruppi celtici nel nord e iberico-tartessici nel sud (intorno all’anno 1000 il regno di Tartesso nel bacino meridionale del Guadalquivir estraeva argento, rame e piombo e aveva contatti con liguri e celti) e dall’infittirsi degli scambi commerciali con i fenici prima e poi coi greci, che importarono elementi di cultura hallstattiana (e, più tardi, della cultura del ferro di La Tène) e fondarono colonie (importanti le fenicie Gades, Cadice, e Abdera nonché le greche Menaca, presso Malaga, ed Emporion, l’attuale Ampurias) sulla costa sud-atlantica e mediterranea. Nel VI secolo a.C. celti e iberi vennero in contatto nelle regioni della moderna Castiglia, dando origine alla razza meticcia dei celtiberi. L’ascesa di Cartagine a potenza imperialista nel Mediterraneo occidentale arrestò e soppiantò la colonizzazione greca che aveva il suo punto di forza nell’espansionismo di Massalia (Marsiglia), più tardi alleata di Roma. Con l’occupazione delle Baleari e la distruzione di Tartesso si affermò definitivamente intorno al V secolo a.C. l’egemonia di Cartagine nello scacchiere meridionale spagnolo e nel Mediterraneo occidentale.

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2. La colonizzazione romana e la prima cristianizzazione

Il predominio cartaginese in Spagna fu sancito con la conquista del retroterra minerario mediterraneo meridionale (237 a.C.) e con la fondazione della colonia di Cartagena (225 a.C.). Tuttavia, pochi anni dopo, all’antico avversario subentrò un nemico più potente e deciso, Roma, che aveva già battuto i cartaginesi in Sicilia e in Sardegna durante la prima guerra punica (264-41 a.C.) e nel 226 a.C. aveva concluso con loro il trattato dell’Ebro, con il quale riconosceva il potere dei cartaginesi a sud di quel fiume. Nel frattempo aveva però stipulato trattati d’amicizia con la greca Emporion e con la città iberica di Saguntum. L’occupazione di quest’ultima da parte di Annibale (219 a.C.) e le campagne militari della seconda guerra punica (218-201 a.C.) condussero la flotta e l’esercito romano alla conquista della Spagna, al fine di privare Cartagine di una delle sue più grandi basi di forza. La colonizzazione romana della Spagna, iniziata nel quadro della lotta con Cartagine per la supremazia nel Mediterraneo, si concluse circa due secoli più tardi, sotto Augusto, nel 19 a.C. Dopo un avvio vittorioso (battaglia alle foci dell’Ebro nel 217 a.C., sconfitta di Asdrubale nel 216 a.C. e occupazione della regione del Baetis, l’odierno Guadalquivir) condotto da Publio e Gneo Cornelio Scipione, Scipione Africano piegò definitivamente la resistenza di Asdrubale conquistando Cartagena (209 a.C.), Cadice (206 a.C.) e completando poi l’occupazione della Spagna cartaginese e sostituendovisi nel dominio e nello sfruttamento delle risorse minerarie. Il tentativo di ampliare e consolidare verso l’interno e verso il nord l’area della colonizzazione si scontrò in seguito con la resistenza delle popolazioni originarie celto-iberiche, riottose a piegarsi. Gli episodi più importanti furono la ribellione dei celtiberi nel 154 a.C., stroncata nel 133 a.C. con la conquista e la distruzione di Numanzia da parte di Scipione Emiliano e, nell’epoca delle guerre civili, la rivolta di Sertorio (77-71 a.C.) – seguace di Mario – domata da Pompeo. Di fatto a partire dal II secolo a.C. la Spagna fu inserita organicamente tra i possedimenti romani e fu distinta in due province (Citeriore e Ulteriore, rispettivamente a nord-ovest e a sud-est dell’Ebro). Soprattutto Cesare e Augusto vi incrementarono la fondazione di città, introducendo usi e costumi romani. Nel 27 a.C. Augusto ridenominò le province spagnole (nel frattempo allargate a settentrione, con l’eccezione dei territori baschi e delle coste nordatlantiche) come Tarraconensis e Baetica. A riprova dell’inserimento nella civilizzazione romana e della ricca vita economica e culturale ivi esistente, furono molti i personaggi di spicco di provenienza spagnola nell’impero: da Seneca a Marziale a Quintiliano, non esclusi importanti imperatori come Traiano, Adriano e Teodosio. Vespasiano (69-79 d.C.) estese formalmente il diritto latino a varie regioni della Spagna. Circa nel medesimo periodo, si diffuse il cristianesimo. Sembra che fosse lo stesso apostolo Paolo a recarsi in Spagna per predicarvi il Vangelo. Tale episodio è però soffuso di leggenda, al pari dell’altro, secondo cui tra il I e il II secolo sette vescovi sarebbero stati inviati nella penisola iberica. Di certo il vescovo Ireneo alla fine del II secolo testimoniò nei suoi scritti, confermato da Tertulliano, dell’ormai avvenuto radicamento del cristianesimo in Spagna. Il primo evento storicamente accertato relativo alla chiesa spagnola fu però il cosiddetto sinodo di Elvira (circa 300, nell’odierna Alarife, vicino a Granada), i cui atti canonici furono conservati e tramandati e che diede conto anche di una sua strutturazione in circa 19 diocesi. Tra i consiglieri di Costantino vi fu il vescovo Osio di Cordoba. E il grande teologo e storico Paolo Orosio, discepolo di Sant’Agostino, era spagnolo. Nell’epoca dell’impero (durante il quale i cristiani spagnoli subirono le persecuzioni di Valeriano e di Diocleziano) il centro vicariale della chiesa fu Siviglia, sostituita poi da Toledo nei secoli successivi del regno visigoto.

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3. Invasioni barbariche e regno visigoto

All’inizio del V secolo, come altre province dell’impero romano d’Occidente, anche la Spagna divenne terra di incursioni e di conquista da parte di popolazioni barbariche d’origine germanica. Iniziarono tra il 409 e il 411 i vandali, gli alani e i suebi (o svevi), che occuparono per vari anni le regioni nordoccidentali della Galizia, la Lusitania e parte della Baetica. Nel 415 fecero la loro comparsa i visigoti, il cui re Ataulfo occupò temporaneamente Barcellona, perendo in battaglia. Dopo la successiva emigrazione di vandali e alani nel Nordafrica e una breve restaurazione del potere imperiale romano-orientale, nella seconda metà del secolo i visigoti, premuti in Gallia dai franchi, presero a spostarsi più decisamente verso la Spagna. Già il re Eurico (466-84) – sotto cui fu compilato in latino il primo codice di leggi germaniche (Codex Euricianus, 470 circa) – arrivò a insignorirsi di vasti territori nelle zone centrali e meridionali. Con Alarico II (484-507), che promulgò la prima Lex romana Visigothorum (506, detta anche Breviarium Alaricianum) prima di essere sconfitto e ucciso dal franco Clodoveo a Voiullé, il movimento si fece più marcato e Teudi (531-48) lo rese definitivo. I visigoti, di confessione ariana, con Agila (549-54) e Atanagildo (554-67) stabilirono in Spagna il loro regno romano-barbarico – con capitale Toledo dal 554 – che sarebbe durato due secoli e avrebbe compreso progressivamente tutta l’antica parte romana, salvo alcuni comprensori montani (terre basche, celtiberiche) e parti sveve resistenti in Galizia (assorbite poi nel 585). Sotto Leovigildo (573-86) l’unificazione della penisola iberica fu consolidata anche attraverso l’espulsione dei bizantini (585), ivi arrivati all’epoca dei contrasti tra Agila e l’usurpatore Atanagildo. La “Spagna visigota”, così stabilita, continuò a esistere in realtà nel primo secolo come giustapposizione di due popoli, gli invasori e le vecchie popolazioni locali e romane cattoliche, nettamente separati per usi, costumi e religione. Tale situazione fu superata, a partire dal 589, con la conversione di Recaredo (586-601) al cattolicesimo, proclamato religione ufficiale nello stesso anno dal terzo concilio di Toledo. Seguì poi la repressione dell’arianesimo e infine l’estensione da parte di Reccesvindo (649-72) a tutti i sudditi del regno di una legislazione omogenea, la Lex Visigothorum. L’integrazione sociale e culturale delle diverse stirpi fu favorita nel contesto di un sistema caratterizzato dall’influenza della religione e da una sorta di simbiosi tra potere regio e potere episcopale, che si esprimeva soprattutto nei ricorrenti “concili regi di Toledo” (una sorta di assemblee nazionali alla presenza dell’alto clero alle quali il sovrano doveva sottomettersi sotto pena di scomunica). Il personaggio più rappresentativo della cultura letteraria, politica e giuridico-religiosa del tempo fu il vescovo Isidoro di Siviglia (circa 560-636), autore di una Storia dei goti. La “Spagna visigota” vide però anche il progredire della tendenza alla ruralizzazione, al latifondo e il deperire della ricca vita economica delle città dell’epoca romana e delle attività industriali (tranne quelle estrattive, data la propensione delle popolazioni germaniche alla lavorazione dei metalli). Ciò, insieme alle ricorrenti lotte intestine dell’aristocrazia visigota e alla costituzione di poteri prefeudali indipendenti, causò una crisi e uno stato di guerra latente o esplicita cui inutilmente gli ultimi re, da Wamba (672-80) a Ervige (680-87), a Witiza (701-709), cercarono d’opporsi. Dopo alcuni decenni di lotte di fazione, l’ultimo re visigoto Roderico (o Rodrigo) fu attaccato e sconfitto nel 711 dall’esercito musulmano, sottoposto alla dinastia araba degli Omayyadi, guidato dal capo berbero recentemente convertito all’islam Tariq, probabilmente chiamato dagli avversari interni del re. Con l’occupazione delle province meridionali e di Toledo (712) furono poste le premesse per la nascita della Spagna musulmana, destinata a ben maggiore durata di quella visigota.

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4. La conquista araba. L’emirato, il califfato e i “regni di Taifas”

L’assoggettamento pressoché completo della penisola iberica da parte dei berberi sottoposti alla sovranità del califfo omayyade di Damasco fu realizzato in pochi anni. Ai visigoti, ormai chiamati cristiani in opposizione ai musulmani invasori, restarono solo piccoli domini nelle Asturie (da dove iniziò simbolicamente la loro resistenza con la vittoria riportata dal re Pelayo a Covadonga nel 722), nella Navarra, lungo isolate vallate pirenaiche e negli altopiani di Burgos e di Leon. Lo slancio islamico superò i Pirenei meridionali, all’inseguimento dei visigoti riparati in Aquitania e nel tentativo d’invasione massiccia dell’Europa, ma fu arrestato nel 732 a Poitiers dai franchi di Carlo Martello. Nel 756 l’omayyade Abd Ar-Rahman I fondò l’emirato (“principato”) di Córdoba, proclamato indipendente dal califfato, che dal 750 era caduto in potere della dinastia degli Abbasidi, che ne avevano trasferito la capitale a Baghdad. Ai cristiani posti sotto il dominio musulmano non fu fatto obbligo di convertirsi: sotto il nome di “mozarabi”, i non convertiti poterono continuare a osservare la loro fede e proseguire nelle loro occupazioni, anche se nella scala sociale essi godevano di minori diritti dei convertiti (“muladies”) e venivano appena prima degli schiavi. L’emirato omayyade (aderente alla confessione sunnita), benché sottoposto già a partire dalla fine dell’VIII secolo alla reazione dei residui principati cristiani e della potenza ascendente dei franchi – che a loro volta varcarono i Pirenei e stabilirono la loro marca occidentale, da cui si enuclearono in seguito il regno d’Aragona e la contea di Barcellona -, sviluppò nei secoli IX e X una raffinata civiltà, frutto della riuscita armonizzazione delle diverse etnie e della vivace rinascita economica, industriale e agricola, la cui influenza si sarebbe fatta sentire anche nella ripresa dell’occidente cristiano dopo i secoli più bui dell’alto medioevo. Nelle campagne, spesso rimaste in piccola proprietà ai contadini, furono introdotte nuove tecniche di irrigazione e nuove colture (per es. il riso, gli agrumi). Anche le città rifiorirono, sia sul piano dei mestieri artigiani sia sul piano culturale e artistico: furono costruiti monumenti importanti come la moschea di Córdoba. L’apogeo fu raggiunto sotto l’emiro Abd ar-Rahman III (912-61), allorché Córdoba superò i 100.000 abitanti. Abd ar-Rahman assunse nel 929 il titolo di “califfo” (“principe dei credenti”), proprio per segnalare il definitivo consolidamento del potere e il rango concorrenziale con l’“altro” califfo abbasside di Baghdad. Il califfato spagnolo si eresse a difensore della confessione sunnita, intrattenendo rapporti con Bisanzio e dispiegando un nuovo espansionismo sia in direzione nordafricana sia nella penisola iberica, che permise al gran visir Ibn Abi-Amir al-Mansur (977-1002), il più grande tra i generali omayyadi, di respingere i principi cristiani e di ristabilire quasi integralmente la signoria araba sul territorio iberico. Raggiunto così l’apice della sua grandezza, il califfato prese a disgregarsi nell’XI secolo attraverso una sanguinosa guerra civile (1008-1028), cadendo nel 1031 e frazionandosi in emirati di fatto indipendenti, i piccoli “Regni di Taifas”. In tale situazione riprese vigore la reconquista cristiana, al punto che l’emiro di Siviglia fu costretto nel 1085 a invocare il soccorso della dinastia berbera nuova vincitrice in Marocco, gli Almoravidi, che contennero l’avanzata cristiana ma nel contempo posero fine alla fase dei “regni di Taifas” imponendo il loro dominio unitario sulla metà meridionale della penisola.

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5. La reconquista e l’epica del “Cid Campeador”

Il concetto di reconquista implica due (o meglio tre) fasi distinte nella storia iberica. Il disegno di riprendere ai musulmani i territori perduti fu concepito subito dopo la sconfitta cristiana e l’instaurazione dell’emirato omayyade. Gli staterelli del nord-ovest – dal regno delle Asturie (che a partire dal 924 assunse il nome della sua capitale, León) alla Navarra e, più tardi, alle originariamente franche Aragona e Barcellona – talora separatamente, talvolta unendo gli sforzi, condussero una lotta incessante, ma non coordinata né unitaria, contro i dominatori arabi fino all’anno Mille. Tuttavia, il periodo in cui storicamente si situò l’avvio effettivo della reconquista coincise da una parte con la decadenza e la disgregazione interna del califfato, dall’altra con la crescita nel mondo medievale cattolico di una coscienza identitaria più forte, a sua volta espressione dell’opera di rinascita condotta dagli ordini monastici, e con l’ascesa e il riconoscimento del potere supremo della chiesa e del papato nella sfera spirituale e in quella temporale. Questi sviluppi – emblematizzati nell’elevazione della penisola iberica a terra di crociata da parte della chiesa e nell’introduzione degli ordini cavallereschi che combatterono a fianco degli ispanici contro i mori – diedero alla reconquista la spinta decisiva, dai primi decenni dell’XI secolo fino alla battaglia di Las Navas de Tolosa (1212) contro il regno berbero della dinastia degli Almohadi (subentrata con la forza agli Almoravidi alla metà del XII secolo). Pochi anni dopo questa data la reconquista poté considerarsi sostanzialmente conclusa e ai musulmani non restò che arroccarsi nel minuscolo emirato di Granada, che resistette fino al 1492, dando vita a una rinnovata fioritura di civiltà artistica rispecchiata nell’Alhambra. Il processo di riconquista si giovò anche del rafforzamento interno – sociale e politico – dei principali regni cristiani della penisola. Nella seconda metà dell’XI secolo andò gradatamente affermandosi la tendenza all’unificazione dinastica intorno ai due maggiori poli cristiani: a occidente il regno di León si fuse con la Castiglia già sotto Alfonso VI il Valoroso (1042 circa – 1109), mentre a oriente Navarra, Aragona e Catalogna oscillarono più volte tra unità e divisione, riuscendo però nel complesso a mantenere un fronte unito contro il nemico musulmano. Il simbolo della lotta di reconquista fu nella seconda metà dell’XI secolo il Cid Campeador, soprannome onorifico (“il signore guerriero”) dato dagli arabi a Rodrigo Díaz de Bivar (1043-1099), capitano ed eroe castigliano le cui gesta furono cantate nei primi documenti della lingua romanza castigliana come il Cantare del Cid (1140 circa). Attraverso un intricato viluppo di alleanze e tradimenti coi vari principi cristiani e con alcuni degli stessi signorotti musulmani, il Cid giocò un ruolo centrale nella caduta di Toledo (1085) e nella presa di Valencia, della quale divenne il signore (1094). Alla tendenziale alleanza politico-militare in funzione antislamica dei re cristiani si sommò una rinascita della vita economica e civile dei loro regni. Le tradizionali e antiquate attività agricolo-pastorizie dei montanari del León, della Castiglia o della Navarra furono rivivificate per mezzo del ripopolamento delle campagne e della ripresa dei mestieri artigiani e commerciali urbani, particolarmente visibile quest’ultima in Aragona e nella marinara Catalogna. L’occupazione delle fertili e produttive terre arabe, presto trasformate in immensi latifondi a favore delle poche centinaia di grandi famiglie aristocratiche o della piccola e media nobiltà degli hidalgos, rappresentò sul momento una nuova fonte di ricchezza. Sul piano dell’organizzazione civile e politica, nell’XI secolo fecero la loro comparsa i primi statuti municipali (fueros), che concedevano particolari autonomie alle città, specie a quelle di frontiera. Tra il XII e il XIII secolo si costituirono le prime Cortes (nel 1188 in Castiglia), ossia assemblee dei ceti sociali (nobiltà, clero, rappresentanti delle città), che fecero ben presto sentire il loro peso in materia di finanze e sulla politica dei sovrani.

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6. L’espansionismo dei regni cristiani

L’allargamento dei regni cristiani nella penisola iberica a spese del dominio musulmano partì da tre epicentri fondamentali: il regno del Portogallo, l’alleanza (divenuta fusione definitiva nel 1230) tra i regni di León e Castiglia e il regno aragonese-catalano. Il León e la Castiglia, divisi e riuniti a più riprese nel X secolo, conseguirono una maggiore stabilità politica in un quadro unitario a partire da Alfonso VI, il quale, avendo ricevuto dal padre Ferdinando I il Grande (1039-1065) in eredità il León, si impadronì nel 1072 anche della Castiglia lasciata al fratello Sancio e promosse l’iniziativa che portò alla riconquista di Toledo, da lui innalzata al rango di capitale del regno. Toccò successivamente a un altro sovrano castigliano, Alfonso VIII (1158-1214), guidare la crociata di tutta la cristianità contro i musulmani e vincere la battaglia di Las Navas de Tolosa. Fu poi Ferdinando III (1217-52) che, dopo aver sancito l’unione perpetua di Castiglia e León, occupò le città di Córdoba (1236) e di Siviglia (1248), costringendo i musulmani ad arretrare nelle estreme regioni meridionali. L’espansionismo del regno di Castiglia e León non s’indirizzò solo in direzione della reconquista antislamica, ma si esercitò anche nei confronti del Portogallo, dando luogo a una lotta secolare che si concluse nel 1385 con la battaglia di Alijubarrota, con la quale i portoghesi vincitori affermarono la loro definitiva autonomia dai castigliani. La seconda metà del XIII e il XIV secolo furono contrassegnati in Castiglia da continue sommosse nobiliari, sebbene Alfonso X (1254-84) avesse tentato di instaurare un governo di tipo assoluto. Sotto Pietro I il Crudele (1350-66 e 1367-69) si giunse all’aperta insurrezione. La società castigliana, già frazionata dal potere arrogante dei nobili e dalle aspirazioni delle città e dei borghi all’autonomia, fu ulteriormente indebolita nella base economica (rimasta sostanzialmente agricolo-pastorale) dalle persecuzioni contro i mori e gli ebrei, dei quali a partire dal 1391 la chiesa iniziò a imporre la conversione forzata, contribuendo alla nascita del fenomeno dei marranos, gli ebrei convertiti esteriormente al cristianesimo. Nonostante il contraddittorio sviluppo socioeconomico (all’arretratezza strutturale si contrapponeva, per esempio, la fiorente produzione di lana grezza, favorita dal privilegio accordato alla corporazione dei grandi allevatori, denominata “Mesta”, per lo sfruttamento di tutti i pascoli degli altopiani centrali), la Castiglia restava nei primi anni del XV secolo il regno cristiano più esteso e più solido dal punto di vista militare. L’Aragona aveva seguito, almeno in parte, vie diverse di ingrandimento. Dall’antica marca ispanica del regno franco si erano formati, dopo mutevoli incroci unitari e disunioni dinastiche tra Navarra, Aragona e Catalogna (contea di Barcellona), i due regni di Aragona-Catalogna e di Navarra. Nel 1076 Sancio I d’Aragona (1063-1094) aveva incorporato la Navarra, che tuttavia ridivenne indipendente nel 1134. Con Alfonso I (1104-1134) l’Aragona diede un importante contributo alla reconquista occupando Saragozza ed esercitando poi una costante pressione sul regno musulmano in direzione sud-ovest. Nel 1137 il conte di Barcellona Raimondo Berengario IV sposò Petronilla, erede del regno aragonese, riunendo così definitivamente Aragona e Catalogna e facendo progredire la reconquista con la presa di nuove città sulla costa mediterranea meridionale. Si affermò da allora sempre più la vocazione mediterranea, militare e commerciale, della potenza aragonese. Giacomo I (1213-76) s’impossessò delle Baleari tra il 1229 e il 1235, di Valencia nel 1238, arrestandosi ai confini di Granada e suggellando di fatto la conclusione della fase principale della reconquista. Volgendosi a oriente, alla fine del Trecento il regno d’Aragona intervenne con successo nella politica del meridione d’Italia. Pietro III (1276-85), genero di Manfredi, si inserì nella guerra dei Vespri siciliani. Giacomo II (1291-1327) ottenne con la pace di Caltabellotta la Sicilia contro gli Angioini (1302) e contro i genovesi la Sardegna in feudo grazie all’intervento di papa Bonifacio VIII (1297). Nel 1311 assoggettò il ducato di Atene. Per un certo periodo anche il Portogallo meridionale fu soggiogato dagli Aragonesi, così che all’inizio del XV secolo Alfonso V il Magnanimo (1416-58), dopo essersi impadronito nel 1442 dell’intero regno di Napoli, poteva vantare la propria signoria su un vero e proprio impero mediterraneo, economicamente dinamico (nonostante la permanente struttura agricola dell’entroterra aragonese) e di fatto concorrenziale e conflittuale con l’alleato-avversario castigliano.

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7. Il completamento della reconquista e l’unificazione politica: i “re cattolici”

Nel 1492, anno simbolo dell’inizio dell’età moderna dopo la scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo al servizio dei “re cattolici” – titolo concesso nel 1494 da papa Alessandro VI a Isabella I di Castiglia (1474-1504) e a Ferdinando II d’Aragona (1479-1516) – cadde anche, con l’occupazione di Granada, l’ultimo dominio musulmano in terra spagnola e in Europa occidentale. Tali eventi furono il risultato di una decisione di importanza epocale per il futuro della storia spagnola e mondiale: il matrimonio tra gli eredi alle corone castigliana e aragonese, Isabella e Ferdinando, nel 1469. Ciò permise lo stabilirsi di un’“unione personale” fra i due maggiori regni cristiani della penisola iberica a partire dal 1479, dissolvendone la pericolosa e distruttiva concorrenzialità ed esaltando l’integrazione delle loro comuni ma distinte potenzialità socioeconomiche, politiche e militari. Anche se tale “unione” non significò ancora la formazione di uno stato unitario su base nazionale, data la persistente divisione amministrativa e l’estrema differenziazione sociale ed economica tra Catalogna e Castiglia, essa pose le premesse per la loro fusione e soprattutto consentì una politica comune. Sul finire del XV secolo lo stato dei “re cattolici” contava su una popolazione di circa sei milioni d’abitanti, l’80% dei quali vivevano in campagna. Solo il 15% della popolazione era dedita all’artigianato e al commercio. Si trattava di una società assai divisa non solo per la disparità dello sviluppo economico tra regioni interne agricolo-pastorali e regioni costiere più commerciali, bensì per l’esistenza di fortissime differenze di classe tra una nobiltà numericamente piccola ma molto potente e riottosa, un esiguo ceto borghese e artigiano (nel quale gli strati qualificati erano ancora rappresentati, nonostante le persecuzioni, da sudditi musulmani ed ebrei che pur tuttavia erano considerati come dei “corpi estranei”) e un’estesissima base contadina e pastorale. In tali condizioni, sotto la guida energica di Isabella e Ferdinando l’unione castigliano-aragonese pose le basi per la nascita della monarchia nazionale e assoluta spagnola: dapprima con la conquista di Granada e poi, nel 1512, con l’incorporazione della maggior parte della Navarra, che diede alla Spagna una fisionomia politica simile all’attuale. Il rapporto tra i due poli, quello castigliano e quello aragonese, si risolse nel tempo sostanzialmente a favore del primo, nonostante la relativa maggior ricchezza e dinamicità economica del secondo. La supremazia castigliana fu prodotta da due importanti elementi: in primo luogo, il fatto che fu la Castiglia ad avere il sostanziale monopolio dei commerci con le colonie americane (considerate un possesso della corona castigliana); in secondo luogo, gli effetti negativi che ebbe a partire dal 1492, specie in Aragona, la cacciata degli ebrei (ordinata dal grande inquisitore T. de Torquemada) che nella regione detenevano rilevanti posizioni finanziarie e artigianali, nonché dei musulmani, capaci agricoltori. L’unificazione politica spagnola, di pari passo con l’impianto della monarchia assoluta, fu costruita dai “re cattolici” sulla scorta di un’alleanza con gli strati borghesi – organizzati in hermandades (“fraternità”) aventi compiti di polizia e giudiziari – contro la grande nobiltà, che si vide privare di competenze politiche effettive in cambio di un enorme e privilegiato potere sociale ed economico nei latifondi, causa dell’impoverimento dei contadini, dell’assenza di una borghesia agricola e, nel complesso, della mancanza di sviluppo dell’intero paese. Le Cortes furono spogliate delle loro funzioni e convocate solo in caso di necessità per l’imposizione di tributi. L’altro essenziale coefficiente della creazione dell’unità e dell’identità nazionale e statale fu l’istituzione della Santa Inquisizione (1479) sotto la direzione regia. Oltre a “difendere” la coscienza e la fede cattolica all’interno della Spagna contro ebrei, musulmani, eretici (in realtà reprimendo implacabilmente ogni forma di dissenso ideologico), l’Inquisizione operò come un potentissimo strumento regio di controllo sulla chiesa e sullo stato. Complessivamente la Spagna, nonostante le ricchezze provenienti dalle nascenti colonie americane, si presentava all’inizio del XVI secolo come un paese unificato, ma povero di dinamismo economico e sociale, posto sotto i rigori di un vero e proprio terrorismo religioso. Fu tuttavia in grado di mettere in piedi un potente esercito, formato da contadini e pastori e imperniato sul corpo della fanteria, destinata a diventare la prima d’Europa. Questa potenza militare fece da supporto a grandi ambizioni egemoniche, cresciute sull’onda dell’acquisto di un immenso impero coloniale e, poi, del nodo d’interessi venutosi a creare tra la Spagna e il Sacro Romano Impero a seguito del matrimonio (1496) fra Giovanna la Pazza, figlia di Isabella e Ferdinando e Filippo I il Bello, erede della casata d’Asburgo. Da tale unione nacque Carlo d’Asburgo, che divenne re di Spagna come Carlo I nel 1516 – dando inizio alla dinastia spagnola degli Asburgo – e che fu quindi eletto imperatore col nome di Carlo V nel 1519.

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8. L’impero coloniale

Lo sbarco di Colombo nel “Nuovo Mondo” non coincise ancora con la fondazione di un impero coloniale. Quasi subito ci si accorse che le isole non erano così ricche di metalli preziosi come sperato. Dopo che i viaggi di A. de Hojeda e di A. Vespucci ebbero però dimostrato le dimensioni continentali della terraferma vicina, si aprì una fase fatta insieme di esplorazioni e di conquiste (scoperte geografiche), sancita nel 1503 dall’istituzione a Siviglia della Casa de Contratación, strumento assolutistico regio, protezionistico e fiscale, avente la potestà sul commercio dei territori d’oltremare con la madrepatria. La corona di Castiglia prelevava così il 20% (il cosiddetto quinto) sui beni provenienti dalle colonie. Nel 1511 si iniziò la conquista di Cuba, ma il grosso dell’impero coloniale fu il risultato delle imprese successive realizzate da Fernando Cortés e Francisco Pizarro, conquistadores rispettivamente dei domini degli aztechi in Messico e degli incas dell’antico Perú. Questa volta le aspettative spagnole furono soddisfatte: le immense terre dell’America centromeridionale si rivelarono ricche di oro e di altri metalli preziosi. Nel 1536 Pedro de Mendoza fondò Buenos Aires. Tra il 1536 e il 1538 G. Jimenez de Quesada assoggettò la Colombia e nel 1540 Pedro de Valdivia avviò la conquista del Cile. Nel 1565 la Spagna s’impossessò delle Filippine. La conquista dell’America centrale e meridionale fu il frutto di una superiorità militare schiacciante sugli indigeni, che non conoscevano le armi da fuoco e i cavalli. Ad essi i bianchi invasori apparvero come semidivinità, pronte a usare le proprie armi senza pietà e scrupoli. Dallo scontro (che fu anche di valori reciprocamente sconosciuti) sortì un gigantesco sistema economico e sociale di sfruttamento, tutelato ideologicamente dall’imposizione della religione cristiana, militarmente dalla forza di un apparato militare praticamente invincibile, politicamente dalla struttura dell’amministrazione coloniale, economicamente dalla formazione di una classe di sfruttatori bianchi capaci di spremere le risorse delle colonie in modo da estrarne grandi profitti. L’istituto fondamentale dello sfruttamento coloniale fu l’encomienda, ossia l’affidamento ai conquistadores e ai loro discendenti di villaggi e territori indigeni – che dovevano esser “difesi” e cristianizzati – in cambio di un pagamento di tributi alla corona. Gli indios furono sottoposti a condizioni tremende di sopravvivenza (denunciate da Bartolomeo de Las Casas), alle quali le “Leggi delle Indie” del 1512-13 e le “Nuove leggi” del 1542-43 (che proibivano la schiavitù e la violenza) portarono scarsi miglioramenti. Esposti a nuove malattie contro le quali non avevano immunità, gli indigeni furono decimati: si calcola che in poco meno di un secolo (fra il 1519 e il 1605) la popolazione autoctona del Messico sia scesa da circa 25 milioni a poco più d’un milione. Tale fenomeno causò lo spopolamento e l’improduttività delle encomiendas agricole e coincise con il passaggio a uno sfruttamento ancor più sistematico delle risorse minerarie. L’oro e l’argento furono riversati in gran copia per tutto il Cinquecento in Spagna e in Europa, ma non servirono allo sviluppo socioeconomico della madrepatria perché furono messi al servizio delle imprese egemoniche e militari della potenza asburgica. Per tale via finirono col rimpinguare i centri più progrediti della finanza e dell’economia europea.

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9. Il “secolo d’oro”: da Carlo V a Filippo II

L’ascesa di Carlo I d’Asburgo al trono di Spagna portò a termine il processo d’unificazione politica avviato dai “re cattolici”. Nel frattempo si profilavano all’orizzonte i problemi della formazione dello stato nazionale moderno sommati a quelli del difficile inserimento delle colonie nella compagine statale e socioeconomica della madrepatria. L’elezione di Carlo alla carica imperiale come Carlo V, in concomitanza con la Riforma protestante, produsse a sua volta una profonda tensione tra le esigenze nuove del consolidamento monarchico nazionale e quelle dell’antica e ormai anacronistica ottica imperiale, per quanto – nelle intenzioni del sovrano e secondo la tradizione spagnola – il grande progetto di purificazione e rinnovamento del cattolicesimo (al quale prestarono la loro opera mistici come Teresa d’Àvila e il fondatore dei gesuiti, Ignazio de Loyola), e di riunione delle parti separate dell’impero, avrebbe dovuto formare il cemento ideologico aggregante dei suoi sparsi domini. Al servizio della causa imperiale e della Controriforma (con la crescita a dismisura dell’influenza dell’Inquisizione) furono così poste le energie migliori della Spagna, con il sacrificio delle esigenze dello stato nazionale. Il paese fu percorso da dissidi tra il governo di Carlo e le burocrazie castigliane e aragonesi, nonché da contrasti in materia finanziaria e fiscale con le Cortes castigliane, che fomentarono sentimenti di ribellione, messi in luce dalla rivolta dei comuneros, repressa nel 1521 ma protrattasi fino al 1523. La sconfitta del suo disegno e la rinuncia di Carlo alla carica imperiale per il figlio, il futuro Filippo II (1556-98), permisero a quest’ultimo di concentrarsi al servizio del regno spagnolo che, data l’immensità del suo impero coloniale, risultò pervaso da spinte centrifughe che vanificarono gli sforzi accentratori. La cacciata degli ebrei e dei moriscos, che costituivano il nerbo delle classi dedite al commercio e all’artigianato, privò la Spagna di un solido pilastro produttivo e concorse, accanto alla crisi ciclica depressiva economico-finanziaria che seguì all’espansione della prima metà del XVI secolo, acuita dall’esaurirsi del gettito dei metalli preziosi americani tra Cinque e Seicento, alla decadenza del paese, che divenne visibile a partire dal regno di Filippo III (1598-1621). Ciò nonostante, il Cinquecento fu il “secolo d’oro” della storia politica, militare, culturale e letteraria della Spagna, assurta al rango di massima potenza europea (si ricordi l’immortale Don Chischiotte della Mancia di Miguel de Cervantes; la fondazione del diritto internazionale da parte di teorici neotomisti come Francisco de Vitoria e Francisco Suarez; la pittura di El Greco; il teatro di Lope de Vega). Essa si lanciò dapprima in una competizione continentale con la Francia, poi in una guerra pluridecennale, che s’estese anche agli oceani, con le Province Unite olandesi e con l’Inghilterra. Nessun evento importante avvenne senza il suo concorso decisivo. Nel 1525 il re di Francia Francesco I fu sconfitto a Pavia e condotto prigioniero a Madrid (che nel 1561 sarebbe stata elevata a capitale spagnola), dove sottoscrisse nel 1526 l’omonimo trattato di pace, con cui s’impegnava a rinunciare alla Borgogna e ai territori italiani. Liberato, alla fine dello stesso anno suscitò la Lega di Cognac e riprese la lotta per l’egemonia che si concluse nel 1529 con la pace di Cambrai – detta anche “delle due dame” per la mediazione di Luisa di Savoia, madre di Francesco I, e di Margherita d’Austria, zia di Carlo V – a seguito della quale la Francia riconobbe il primato spagnolo rinunciando nuovamente alle terre borgognone e italiane in favore della Spagna. La contesa riprese e si trascinò fino alla definitiva pace di Cateau-Cambrésis (1559), stipulata da Filippo II dopo che le sue truppe avevano sconfitto i francesi a San Quintino nel 1557. Il conflitto con la Francia e il regolamento delle questioni sorte in seguito alla Riforma avevano rappresentato i massimi impegni di Carlo V. Le guerre fallimentari con le province dei Paesi Bassi e con l’Inghilterra di Elisabetta I rappresentarono i problemi principali del regno di Filippo II, alla cui radice si situò l’intreccio tra movimento riformatore e spinte autonomistiche olandesi. Dopo la prima insurrezione del 1566, le date significative del contenzioso ispanico-olandese furono il 1576, anno della fondazione dell’Unione di Gand tra le province protestanti del nord e quelle cattoliche del sud delle Fiandre, e il 1579, anno della scissione dell’Unione di Gand in due parti: l’Unione di Arras (delle province cattoliche meridionali corrispondenti al Belgio francofono e al Lussemburgo) e l’Unione di Utrecht tra le province del nord, protestanti, olandesi e fiamminghe. Nel 1581 gli Stati generali delle province secessioniste proclamarono la decadenza della monarchia spagnola e la nascita di una repubblica indipendente delle Province Unite. Guidata militarmente dalla casa degli Orange essa impegnò vittoriosamente per decenni, sostenuta dai principi protestanti e dall’Inghilterra elisabettiana, gli eserciti spagnoli diretti dai migliori generali di Filippo II, da don Giovanni d’Austria ad Alessandro Farnese, fino alla stipulazione di una tregua nel 1609. Filippo II vantava un diritto dinastico di successione alla corona inglese derivantegli dal matrimonio contratto con Maria la Cattolica nel 1554: alla base del conflitto con l’Inghilterra vi era inoltre una forte ostilità derivante dalla diversa confessione religiosa e dalla guerra corsara inglese condotta contro i galeoni spagnoli. L’esecuzione di Maria Stuart (1587), altra pretendente cattolica, gli diede il pretesto per scagliare contro Elisabetta la sua Invencible Armada (1588), impresa conclusasi nel totale fallimento, come le altre che seguirono negli anni successivi. Maggior successo per la sua politica mondiale, diretta centralmente e assolutisticamente dal palazzo dell’Escorial fatto erigere nelle vicinanze di Madrid, Filippo II (che nel 1580 aveva preteso e ottenuto l’“unione personale” delle corone spagnola e portoghese) l’ebbe nello scacchiere mediterraneo con la lotta contro i turchi. Il 1571 rappresentò l’apice del suo successo con l’adesione alla “Lega santa” di Pio V e la vittoria navale di Lepanto conseguita da don Giovanni d’Austria.

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10. La decadenza

All’inizio del XVII secolo la Spagna di Filippo III (1598-1621) costituiva un immenso impero, composto da un centro alquanto coeso – salvo le persistenti tensioni etniche e amministrative tra le maggiori stirpi iberiche, dall’aragonese alla catalana, dalla castigliana alla basca e senza contare che la corona portoghese continuava a esser unita a quella spagnola solo nella “persona” del sovrano – che si confermava ancora come la maggior potenza militare del continente; da una miriade di domini sparsi sul suolo europeo (dalle Fiandre meridionali alla maggior parte dell’Italia) e da uno sconfinato impero coloniale (includente anche quello portoghese) esteso dalle Americhe all’Africa fino all’Asia, dove una nuova classe di possidenti aristocratici “creoli” e di alti funzionari incominciava a sviluppare un senso di identità e di autonomia diverso dal lealismo verso la madrepatria e a porre in tal modo le basi per le future lotte indipendentiste. I costumi e la cultura spagnola s’imponevano agli europei (insieme agli aspetti della pompa più deteriore e dei privilegi più assurdi): dai drammi di Calderón de la Barca (1600-1681) all’arte pittorica di Velázquez (1599-1660). Al di sotto di questo splendore s’intravvedeva però l’ormai prossima decadenza: in primo luogo, le crescenti difficoltà economiche, dovute in parte a una mentalità e a un tipo di cultura politica ed economica che non favorivano l’innovazione (scenario aggravato dal calante tasso demografico dopo la peste del 1630 e dall’incredibile ristrettezza della base di forze effettivamente produttive, specie dopo la definitiva cacciata dei moriscos del 1609); in secondo luogo, la situazione irrisolta dei Paesi Bassi, la fragilità del legame col Portogallo, le tendenze centrifughe della Catalogna e i fermenti antispagnoli in Italia. Se nel 1604 il trattato di Londra mise fine ai conflitti con l’Inghilterra, ripresero subito dopo, nel contesto della guerra dei Trent’anni affrontata a fianco degli Asburgo austriaci, il confronto perdente con la Francia e le ostilità con le Province Unite olandesi (1621). L’inefficienza e la corruzione all’interno, le guerre, comprese quelle in Italia (1612-17 e 1627-31), le insurrezioni in Portogallo e Catalogna, non fecero che aggravare un bilancio finanziario già deficitario dai tempi di Filippo II, così che Filippo IV (1621-65) non solo dovette prender atto della bancarotta e dell’abbandono di una prospettiva d’espansione, ma dovette far fronte a reali pericoli di sfaldamento. Nonostante l’abilità del suo primo ministro, il conte duca di Olivares, che tenne il potere dal 1621 al 1643 cercando di imporre una riorganizzazione “alla Richelieu”, la Spagna conobbe con la sconfitta di Rocroi (1643) contro i francesi la fine della sua supremazia militare, segnata poi dal riconoscimento della perdita definitiva delle Province Unite olandesi con la pace di Vestfalia (1648), con la privazione della Giamaica strappatale dagli inglesi (1655), con l’abbandono infine di alcune regioni delle Fiandre meridionali, del Rossiglione, dell’Artois e della Cerdagna settentrionale a favore della Francia dopo la nuova sconfitta nella battaglia delle Dune (1658) e la conseguente pace dei Pirenei (1659). Nel 1665, quando la Francia di Luigi XIV – ridivenuta la prima potenza in Europa – riprese la strategia antispagnola che doveva concludersi con l’insediamento della dinastia Borbone in Spagna – salì al trono l’ultimo erede asburgico, un bambino di quattro anni che sarebbe divenuto un sovrano debole, Carlo II. Cominciò così una fase di aperta decadenza che relegò il paese, pur dotato di un enorme impero coloniale, a un rango secondario. Accampando diritti dinastici per la moglie Maria Teresa, figlia di primo letto di Filippo IV, Luigi XIV attaccò i domini spagnoli nella guerra di devoluzione (1667-68) conquistando con la pace di Aquisgrana dodici città delle Fiandre. Pur recuperando alcune regioni nelle successive guerre europee contro il tentativo egemonico francese – la Spagna intervenne nella guerra d’Olanda (1672-78) e aderì alla lega di Augusta (1686) -, alla fine del secolo Carlo II, privo di eredi, dovette designare formalmente un nipote del monarca francese, Filippo d’Angiò, come suo successore a patto che questi rinunciasse a eventuali diritti dinastici sulla corona di Francia. Nel 1700, alla morte di Carlo, Filippo V (1700-1746) diede così inizio alla dinastia borbonica spagnola.

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11. La Spagna borbonica tra Sette e Ottocento

Contravvenendo al testamento di Carlo II e volendo trasformare la monarchia spagnola – che da allora fino all’età rivoluzionaria avrebbe continuato a gravitare nell’orbita franco-borbonica in virtù della diplomazia dei cosiddetti “patti di famiglia” – in una pedina della sua strategia espansionistica, Luigi XIV pretese e ottenne da Filippo V una serie di misure politiche, militari ed economiche che convalidavano la diretta presenza della Francia sui territori spagnoli. La successione al trono di Spagna si confermò così come questione europea e al tentativo del “re Sole” replicarono l’Inghilterra, l’Olanda e il Sacro Romano Impero dando vita a una più vasta alleanza e iniziando la guerra di Successione spagnola (1701-1714), che, dopo alterne vicende, si concluse con la pace di Utrecht (1713) e il trattato di Rastadt (1714): Filippo V fu sì riconosciuto come re di Spagna, ma dovette cedere Gibilterra e Minorca agli inglesi, la Sicilia al duca di Savoia e tutti gli altri possedimenti italiani all’Austria. Maturò così un disegno di rivincita, perseguito nel 1717-18 dal primo ministro di Filippo e favorito della sua consorte Elisabetta Farnese, il cardinale Giulio Alberoni. A questo disegno si oppose la “quadruplice alleanza” di Inghilterra, Francia, Austria e Province Unite che nel 1719 impose a Filippo la sconfessione e il licenziamento dell’Alberoni, promettendogli in prospettiva un trono italiano per i suoi figli, in caso di estinzione delle locali dinastie. Di conseguenza il secondogenito Carlo divenne nel 1734 re di Napoli e di Sicilia fino al 1759, anno in cui succedette al trono spagnolo – come Carlo III – al fratellastro Ferdinando VI (1746-59). Dopo gli iniziali rovesci, nel Settecento il paese conobbe una serie di relativi successi, sempre nel quadro ormai consolidato di una potenza secondaria. Tale parziale inversione di tendenza, riflessa anche nella crescita del tasso demografico che portò la popolazione da 6 a 11 milioni di abitanti, fu favorita dall’adozione di una forma di dispotismo illuminato, in linea con lo spirito del tempo, particolarmente evidente sotto Carlo III. I Borbone di Spagna cercarono di svecchiare la cultura con presenze significative nel campo dell’economia e delle arti plastiche (si pensi ai grandi edifici madrileni, il Palazzo Reale, il museo del Prado, alle opere di Goya) e di rilanciare le attività produttive (miniere nelle Asturie, industrie tessili in Catalogna, diminuzione dei privilegi della Mesta e acquisto di nuovi terreni all’agricoltura), sotto la guida di valenti ministri quali Floridabanca, Campomanes e Aranda. Fu tentata anche una riforma agraria generale, che non poté essere realizzata stante l’immutata struttura sociale e la persistente sterile tradizione di pompa e magniloquenza delle classi nobili, alla lunga distruttive per gli sforzi riformistici e per la salute del paese. Nel 1767 fu decretata l’espulsione dell’ordine gesuitico dalla Spagna (diretta in verità anche contro gli esperimenti comunitaristici realizzati dai padri in America latina). Sul piano della politica estera, la Spagna prese parte alla guerra di Successione polacca (1733-38) sostenendo il candidato francese. Intervenne poi nella guerra dei Sette anni (1756-63) cedendo la Florida all’Inghilterra, ma ricevendo dalla Francia una parte della Louisiana. Nel 1776 fu costituito il viceregno del Río de la Plata (Argentina, Bolivia, Uruguay e Paraguay). Nel 1779 la Spagna colse l’occasione per sostenere la guerra delle colonie americane contro la Gran Bretagna e dalla pace di Versailles (1783) riebbe la Florida, Minorca e la colonia del Sacramento. L’avvento di Carlo IV (1788-1808) coincise con l’epoca della Rivoluzione francese, nel corso della quale la Spagna dapprima appoggiò la causa dei Borbone, attaccando la Francia nel 1793, ma essendo costretta nel 1795 a firmare separatamente la pace di Basilea. Nel 1796, su suggerimento del ministro Godoy, la Spagna si schierò con la Francia rivoluzionaria e napoleonica contro la Gran Bretagna, con la conseguenza della disastrosa sconfitta di Trafalgar (1805), nella quale perse irremediabilmente la flotta da guerra e, con essa, il residuo di autonomia sovrana che le restava.

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12. Perdita dell’impero e disgregazione monarchica

Se il XVIII secolo aveva fatto registrare qualche progresso per la Spagna, o quanto meno una battuta d’arresto nella sua decadenza, il XIX si aprì nel segno dell’irreversibile disfatta e della guerra civile, fenomeni ai quali gli ultimi due secoli di storia spagnola sono ciclicamente legati e a cui s’accompagnarono la perdita dell’impero coloniale e la temporanea disgregazione della monarchia. Dopo l’annientamento della flotta a Trafalgar si creò una situazione di totale dipendenza dalla Francia in Europa, sancita dal trattato di Fontainebleau del 1807 – col quale Napoleone otteneva di usare la Spagna come via per colpire il Portogallo anglofilo e la Gran Bretagna – e di progressivo distacco delle periferie coloniali dal centro. Mentre sommosse scoppiavano con epicentro in Aranjuez contro la politica francofila di Godoy e Carlo IV era costretto ad abdicare in favore del figlio Ferdinando VII (1808 e 1814-33), Napoleone invase la Spagna e ingiunse ai Borbone di cedere i propri diritti regali a suo fratello Giuseppe Bonaparte. Nacquero subito la resistenza e la guerriglia, appoggiate dalla Gran Bretagna presente con un corpo di spedizione sbarcato in Portogallo, con la costituzione di governi popolari a Oviedo, a Cartagena, di una Giunta favorevole a Ferdinando VII a Siviglia e con l’Andalusia e le Asturie in piena rivolta. La Spagna divenne per sei anni terreno di aspre campagne militari: nel 1808-1809, dopo la sconfitta francese di Bailén e la fuga di Giuseppe, Napoleone guidò personalmente le truppe alla riconquista di Madrid e Saragozza. In seguito, il generale inglese Wellington, approfittando dell’assenza dell’imperatore, impegnato nell’Europa centrale e in Russia, ritornò all’offensiva, liberando Madrid (1812) e infine l’intera Spagna (1813-14). Col trattato di Valençay Ferdinando riottenne così il trono, abolendo le costituzioni liberali (Cadice, 1812) che nel frattempo erano state proclamate e restaurando l’assolutismo. Sul versante dell’impero coloniale, le classi dirigenti creole approfittarono dello sbandamento della monarchia borbonica per affermare governi autonomi. Nel 1811 il Venezuela proclamò la sua indipendenza. Seguirono l’Argentina (1816), il Cile (1818) e, dopo un’epica lotta condotta da Simón Bolívar, fu la volta della Grande Colombia (1819). Negli anni Venti crollarono quasi tutti gli altri possessi coloniali: il Messico e le regioni centroamericane nel 1821, l’Ecuador nel 1822, il Perú tra il 1821 e il 1825. Alla Spagna restarono Cuba, Puerto Rico e le Filippine. Nel frattempo nella madrepatria, contro la restaurazione assolutista, si mossero le forze liberali, che, dopo un effimero successo grazie al quale riuscirono a far rimettere in vigore la costituzione del 1812 – dando così l’avvio ai moti del 1820-21 in Europa – furono schiacciate dalla Santa Alleanza nella battaglia del Trocadero (1823). Alla morte di Ferdinando, salì al trono la figlia Isabella II (1833-68, la “regina infanta”) sotto la reggenza della madre Maria Cristina di Borbone. Si aprì allora un lungo periodo di guerre civili tra i monarchici conservatori e tradizionalisti detti “carlisti”, sostenitori della successione di Carlos di Borbone, fratello di Ferdinando, e i “cristini”, che appoggiavano la reggente, orientata in senso più favorevole ai liberali (prima guerra carlista, 1834-39; seconda guerra carlista, 1847-49). Ad esse s’accompagnarono anche sommosse liberali e repubblicane. Nonostante la vittoria della fazione cristina (grazie alla quale fu promulgata nel 1834 una costituzione liberaleggiante e furono introdotte misure riformatrici fondiarie e laicizzanti) e la condanna all’esilio di Don Carlos (1839), il paese restò estremamente instabile per le continue rivolte militari, in qualche modo giustificate dalla divisione del potere nelle mani di camarille di corte e dalla dilagante corruzione. Nel 1854 il generale Espartero costrinse all’esilio la regina madre Maria Cristina. Qualche anno dopo la guerra vittoriosa contro il Marocco (1859-60), un ennesimo pronunciamiento rovesciò il regno di Isabella (1868), aprendo una fase convulsa sotto il governo provvisorio del generale Francisco Serrano.

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13. Dalla prima alla seconda repubblica

Si ripropose così un nuovo conflitto per la successione al trono. I generali Serrano e J. Prim appoggiarono la candidatura di Leopoldo di Hohenzollern-Sigmaringen. Prevalse invece l’effimero regno di Amedeo di Savoia (1870-73), contro il quale si accese la terza guerra carlista (1872-76). In tale contesto, dopo l’abdicazione di Amedeo di Savoia e la concomitante morte del generale Prim, fu proclamata la prima repubblica (1873), travolta quasi subito dal nuovo colpo di stato militare (1874) del generale Martinez de Campos, il quale riconsegnò il trono al figlio di Isabella II, Alfonso XII (1874-85). Sotto il regno di questo sovrano e del suo successore Alfonso XIII (1886-1931), esauritasi la contestazione carlista, la Spagna poté fruire, almeno fino al 1923, di una relativa stabilità politica interna che permise lo sviluppo di alcune tendenze positive presenti in modo intermittente già nei decenni centrali del secolo XIX. Nel quadro di un aumento impetuoso del tasso di crescita demografico (da circa 11 milioni di abitanti nel 1800 a quasi 19 nel 1900), si consolidarono le infrastrutture viarie (in particolare la rete ferroviaria in mano a compagnie francesi) e le industrie minerarie e tessili, nelle quali nacque il primo movimento operaio spagnolo sotto l’influenza di M. Bakunin. Rimanevano le vecchie e rigide divisioni sociali, fondate sulla persistenza di un latifondo ancora d’epoca medievale: l’1% dei proprietari terrieri possedeva più del 42% della terra coltivabile, mentre i contadini soffrivano la fame nonostante l’aumento della produzione di talune colture, come la vite e l’ulivo. Sul finire dell’Ottocento, comunque, la Spagna aveva costituito, pur in ritardo rispetto agli altri Stati europei, una trama consistente di gruppi dell’alta finanza e dell’industria di base, dalla siderurgia alle costruzioni. La nuova costituzione del 1876 riconobbe alcuni diritti civili e politici, ma il quadro politico e sociale rimase di tipo moderato-conservatore se non apertamente reazionario, reggendosi sul sistema del “cacicchismo”, il notabilato locale, fondato su sistematiche frodi elettorali, sulla corruzione della pubblica amministrazione e sulla repressione delle tendenze democratiche e radicalsocialiste. Per ciò che concerne i resti dell’impero d’oltremare, la seconda metà del XIX secolo fu caratterizzata dal tentativo di alcuni territori coloniali (Cuba, Puerto Rico e le Filippine) di procedere verso l’emancipazione, sotto la spinta dell’espansionismo statunitense interessato a una loro “liberazione”. Dopo una prima insurrezione cubana (1878), la guerra ispano-americana (1895-98) fu il preludio del passaggio delle tre colonie sotto la tutela degli USA, sancito dal trattato di Parigi del 1898. In Africa, la conquista del Marocco portò la Spagna al centro delle tensioni tra le grandi potenze britannica, tedesca e francese. Il trattato del 1904 tra Francia e Spagna sembrò in un primo momento riconoscere le pretese spagnole, ma dopo l’incidente di Agadir queste furono ricondotte nell’ambito di un sovrastante protettorato francese. Per quanto Alfonso XIII fosse riuscito a tenere la Spagna fuori dalla prima guerra mondiale, le generali conseguenze negative del primo dopoguerra si ripercossero gravemente sulle sue deboli strutture socioeconomiche, già incrinate da una crescente crisi sociale derivante dalla persistente struttura feudal-conservatrice degli ambienti dominanti intorno alla corte. Negli anni Venti esplosero nuove e cruente lotte politiche (dal 1917 al 1923 si avvicendarono ben 13 governi) e sociali (tensioni autonomistiche catalane, lotte di classe tra ceti dominanti feudali e movimento dei lavoratori di tipo radicale e anarco-socialista). La conseguenza fu un rinnovato intervento politico dei militari. Nel settembre 1923 la situazione precipitò in relazione all’infelice condotta della campagna militare contro la rivolta dei cabili del Riff guidati da Abd-el-Krim in Marocco (da molti anni, peraltro, la guerra marocchina aveva fornito il terreno per aspri scontri tra la sinistra e le destre militariste). Col probabile consenso del sovrano, Miguel Primo de Rivera, capitano generale della Catalogna, accusando il regime parlamentare di inefficienza, portò a termine un colpo di stato che lo insediò al governo del paese fino al 1930. La dittatura militare, pur soffocando la vita sociale e culturale, sortì in un primo momento risultati positivi in Marocco e nell’economia, che però furono rimessi in questione dalla grande crisi del 1929, a seguito della quale Alfonso XIII licenziò Primo de Rivera affidando al generale D. Berenguer il mandato di formare un governo provvisorio. La collusione della monarchia col regime di Primo de Rivera e la grande vittoria elettorale dei repubblicani e dei socialisti (1931) fecero però sì che il re fosse costretto ad abbandonare la Spagna mentre veniva proclamata la seconda repubblica.

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14. L’epoca della guerra civile. Il regime franchista

Approvata una nuova costituzione repubblicana liberalprogressista nel 1931, nel biennio successivo i governi repubblicano-socialisti di Manuel Azaña – con l’opposizione delle destre monarchico-clericali e militariste ma anche, dopo una breve alleanza, dell’estrema sinistra di Francisco Largo Caballero – apprestarono una serie di provvedimenti tesi a edificare un sistema rappresentativo democratico, introducendo la separazione tra chiesa e stato, concedendo l’autonomia alla Catalogna e ai Paesi Baschi, abbozzando una riforma agraria che però non riuscì a decollare a causa della vittoria delle destre (rappresentate da due nuove formazioni politiche: la CEDA di J. M. Gil Robles e la fascistoide Falange di J.A. Primo de Rivera) nelle elezioni del 1933. Il tentativo di smantellare nel bienio negro (1933-35) le misure progressiste appena introdotte fu all’origine di una serie di lotte durissime, in particolare nelle Asturie (1934), dove la rivolta dei minatori socialisti, comunisti e anarchici fu stroncata nel sangue. L’opposizione alla reazione conservatrice trovò nel febbraio 1936 una saldatura organizzativa ed elettorale in un Fronte popolare composto da repubblicani borghesi e socialisti, comunisti e anarchici (i quali decisero di partecipare alle elezioni), che superò il Fronte nazionale delle destre (267 seggi contro 132) e riconquistò il potere. Il 10 maggio 1936 Azaña fu eletto presidente e S. Casares capo del governo. Tuttavia, il rifiuto delle destre di riconoscere la vittoria degli avversari, i ripetuti scontri tra i militanti delle parti in lotta, i tumulti e l’assassinio del capo dell’estrema destra José Calvo Sotelo, determinarono il pronunciamiento (17 luglio) dei generali nazionalisti (tra cui spiccava Francisco Franco, nominato “generalissimo” e capo dello stato nell’ottobre 1936) che, sostenuti dalla Falange e, sul piano internazionale, dalle potenze nazifasciste di Germania (che nel 1937 sperimentò sulla cittadina basca di Guernica la capacità distruttiva della Luftwaffe), Italia e Portogallo, dominavano in Marocco, Vecchia Castiglia, Galizia, parte dell’Andalusia, e dell’Aragona. Iniziava così la guerra civile (1936-39). I governi repubblicani di J. Giral, Largo Caballero (dal settembre 1936) e J. Negrin (dal maggio 1937) organizzarono le milizie popolari, ottenendo l’aiuto dell’Unione Sovietica e di un corpo internazionalista di volontari (le Brigate Internazionali, tra cui furono particolarmente attivi gli italiani antifascisti dell’emigrazione). La vita del governo di Caballero fu caratterizzata dall’esplodere dei contrasti tra i comunisti, favorevoli a una linea moderata di riforme sociali per non alienarsi il favore delle classi medie urbane, e gli anarchici, assertori decisi di profondi rivoluzionamenti nelle campagne e nelle fabbriche. Ciò condusse nel maggio 1937 alla repressione del movimento anarchico del POUM da parte delle forze comuniste dirette da agenti sovietici. Caballero, giudicato troppo debole, fu sostituito da Negrin. Durante tre anni di battaglie, di avanzamenti e arretramenti di fronti, nonostante le vittorie repubblicane di Guadalajara e Brunete (1937), di Teruel (dicembre 1937 – febbraio 1938), l’offensiva nazionalista ebbe infine la meglio, portando all’occupazione di Madrid e alla caduta della roccaforte catalana nel 1939. Nella primavera dello stesso anno il governo del caudillo (duce) Franco fu riconosciuto anche da Francia, Inghilterra e Stati Uniti. Il 1° aprile proclamò la cessazione delle operazioni belliche instaurando un regime militare autoritario di stampo fascista. Diversamente dal fascismo e dal nazionalsocialismo, il franchismo non si orientò verso un aggressivo espansionismo in politica estera (tanto che non partecipò ufficialmente alla seconda guerra mondiale, anche se inviò nel 1941 un corpo di volontari in Russia al seguito dei tedeschi). Il paese, spossato, richiedeva un periodo di ricostruzione e il franchismo si caratterizzò pertanto come un tipo di reazione terroristica confluente verso un bonapartismo estremo, fondato sul connubio esercito-grande proprietà agraria-chiesa e politicamente imperniato sull’attivismo della Falange. Dal punto di vista politico-sociale interno fu il fascismo a esercitare, con le sue forme corporative e politico-istituzionali (evidenti nell’evocazione del carisma del “duce-caudillo”) l’influenza decisiva. Sul piano internazionale, dopo il 1943, quando era ormai evidente la disfatta tedesca e la vittoria degli alleati, la Spagna di Franco iniziò un graduale processo di avvicinamento diplomatico alle democrazie vittoriose. Pur non coinvolgendo profonde trasformazioni all’interno del paese, ciò determinò alcuni cambiamenti istituzionali. Nel 1945 fu promulgato il Fuero de los Españoles, una prudente carta dei diritti, e di fronte alla non ammissione della Spagna all’ONU (1946) nel 1947 Franco si vide costretto – per superare l’isolamento politico – a restaurare la monarchia dei Borbone (scelta con referendum popolare nello stesso anno), della quale il dittatore si fece proclamare protettore-reggente a vita.

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15. Dal franchismo al ritorno della monarchia Borbone

Il “regno cattolico e sociale” spagnolo, retto dal generalissimo Franco e privo per il momento della concreta figura del monarca, riuscì a spezzare nel clima della guerra fredda l’ostilità delle democrazie occidentali: fu ammesso a fruire degli aiuti del piano Marshall e stipulò nel 1953 con gli USA un trattato per l’installazione di basi militari americane in cambio di aiuti. Nel 1955 la Spagna entrò a far parte dell’ONU. L’anno successivo si riavviò il processo di decolonizzazione del Marocco (salvo le città di Ceuta e Melilla, nonché una parte del cosiddetto Sahara spagnolo che fu ceduto definitivamente nel gennaio 1976). Dopo una fase di relativo mantenimento dell’ordine interno, grazie soprattutto a una congiuntura economica positiva a livello europeo, negli anni Sessanta iniziarono ad affermarsi movimenti di contestazione sociale e politica del regime (anche approfittando della disgregazione e della perdita di peso del pilastro tradizionale del potere – la Falange – e partendo dalla critica di altre sue componenti interne, per esempio dei ceti tecnocratici legati all’Opus Dei, o del mondo cattolico sensibile alle aperture del papato giovanneo). Dopo una breve ma dura recessione economica (1958-60), nel 1962 furono costituite comisiones obreras clandestine nelle zone sottoposte a rinnovati processi di industrializzazione (Madrid, Catalogna, Paesi Baschi) e si ebbero agitazioni e scioperi, a partire dalle tradizionali roccaforti operaie delle miniere asturiane. Nel 1965 le commissioni diressero a Bilbao uno sciopero di 163 giorni. La crisi del sistema si fece evidente con l’approvazione della “legge organica” del 1966, che mitigò gli aspetti più retrivi e repressivi introducendo l’elezione diretta di una parte delle Cortes, abolendo il controllo falangista sui sindacati, riconoscendo in qualche modo la liceità dello sciopero, sostituendo infine la censura con una legge sulla stampa. Dalla seconda metà degli anni Sessanta maturò via via un distacco degli strati intellettuali e accademici dal franchismo, riflesso tra l’altro nella partecipazione delle università spagnole al generale movimento di contestazione del 1968. Nel 1969 gli scontri tra dimostranti e polizia a Madrid e nelle altre maggiori città indussero le autorità a proclamare lo stato d’emergenza. Sull’onda di quegli eventi Franco tentò di giocare da un lato la carta della progressiva regolarizzazione e legittimazione monarchica del paese, accompagnata dalla concessione di alcune libertà istituzionali; dall’altro si sforzò di procrastinare al massimo la durata del regime e delle misure politiche autoritarie. Se perciò, da una parte, Juan Carlos di Borbone (nipote di Alfonso XIII) fu nel 1969 ufficialmente designato come futuro sovrano e nel 1970 la Falange fu soppressa come tale e si diede vita a una sua riedizione purgata col nome di “Movimiento Nacional”, da un’altra parte – anche per contrastare le prese di posizione critiche della chiesa e il clima di accese lotte sociali nonché il rinfocolarsi del terrorismo basco dell’ETA – nel 1973 fu costituito un “governo forte” sotto la direzione di uno dei più stretti collaboratori di Franco, L. Carrero Blanco e con la presenza di uno dei capi dell’estrema destra, C. Arias Navarro. Dopo poche settimane, l’8 giugno 1973 Carrero Blanco rimase vittima di un attentato organizzato dai terroristi dell’ETA. Nel 1974 Arias Navarro subentrò come primo ministro, continuando nell’attività repressiva – particolarmente contro i baschi, gli anarchici e la chiesa – che segnò, senza poter frenare il moto generale dell’opposizione politica diretta dalla Junta Democratica e dalla Plataforma Democratica fusesi nella “Convergenza democratica” (1975), l’ultimo anno del regime: nel novembre 1975, dopo mesi di malattie tenute nascoste o curate oltre ogni limite dai più fedeli seguaci, il dittatore Francisco Franco cessò di vivere.

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16. Da Suarez a Zapatero. I problemi attuali

Con l’ascesa al trono di Juan Carlos I (27 novembre 1975), che pure era stato obbligato al giuramento di fedeltà al regime, il sistema politico della Spagna franchista fu smantellato. Nel luglio 1976 il re esonerò Arias Navarro e incaricò del governo una personalità del Movimiento Nacional, A. Suarez. In accordo con Juan Carlos, questi promosse un processo di legalizzazione delle forze politiche e sindacali e preparò gradualmente, cercando di non arrivare a una prova di forza con gli ancor forti sostenitori del franchismo, il passaggio alla piena democrazia. Nell’aprile 1977 fu legalizzato anche il Partito comunista (col ritorno in patria dei maggiori leader, tra cui la pasionaria Dolores Ibarruri) e le Cortes sciolsero il Movimiento Nacional. Le elezioni del giugno 1977 diedero la maggioranza all’Unione di centro (UCDE) di Suarez, mettendo però in evidenza il peso delle sinistre, in particolare del Partito socialista (PSOE) di Felipe González e di quello comunista di Santiago Carrillo. Di seguito vennero approvati particolari statuti autonomistici per la Catalogna, le Province Basche e la Galizia (mentre un analogo provvedimento per l’Andalusia fu respinto con referendum nel 1980). Tale equilibrio politico, confermato nella sostanza dalle elezioni del 1979, fu poi messo in questione da un lato dal marcato incremento delle sinistre nelle elezioni amministrative dello stesso anno (con la conseguente agitazione delle destre che portò nel 1981 al tentativo, peraltro fallito, di un colpo di stato militare), dall’altro dall’aprirsi di una crisi economica e sociale, accompagnata da nuove minacce terroristiche. Nel 1981 il governo fu affidato a Leopoldo Calvo Sotelo (sotto il quale la Spagna aderì alla NATO nel 1982), che tuttavia non poté impedire la vittoria delle sinistre (ottobre 1982), che consegnò per la prima volta nel secondo dopoguerra il governo nelle mani del socialista González. Sotto la sua direzione politica, riconfermata nelle successive consultazioni elettorali del 1986, 1989 e 1993, la Spagna portò a compimento le riforme democratiche e conobbe un’impetuosa crescita economico-finanziaria (non esente da manifestazioni di palese corruzione amministrativa). Si inserì stabilmente, dopo l’adesione alla CEE (1985), nel sistema democratico europeo occidentale, mantenendo i tradizionali rapporti con gli USA. Alcuni importanti problemi restarono aperti: da quello indotto dal terrorismo basco, che avanzava propositi di separatismo nazionale mettendo in atto sanguinosi attentati, alle sempre maggiori richieste autonomiste di altre regioni (la stessa Catalogna si esprimeva a favore di un riconoscimento “nazionale” e quindi dell’instaurazione di un sistema federale). Un problema irrisolto era anche quello del rapporto con l’ex possedimento inglese di Gibilterra, incline a restare indipendente dal governo spagnolo il quale viceversa ne reclamava l’integrazione nel paese. Sul piano sociale, una certa impronta “thatcheriana” dei programmi dei governi socialisti, se da una parte favorì l’espansione di determinati settori economici e il risanamento finanziario, dall’altra coincise con l’abbassamento (o col non miglioramento) dello status e del tenore di vita di altri ceti sociali (contadini, studenti, fasce operaie tradizionali) e perciò venne sottoposto a contestazioni da parte dei sindacati e dei partiti d’estrema sinistra (con agitazioni crescenti nel 1986-87). Sul piano elettorale si ebbe perciò un andamento altalenante del Partito socialista, con una flessione nel 1986, la riconquista della maggioranza assoluta nel 1989 e un nuovo trend decrescente nelle elezioni del 1993 fino alla sconfitta nelle elezioni europee del 1994. Un duro colpo per il governo socialista fu l’accusa, seguita da varie condanne, rivolta a numerosi funzionari governativi di essere coinvolti in azioni illegali e persino assassini nella lotta contro i separatisti baschi. Questo grave scandalo indusse il partito nazionalista catalano ad abbandonare la coalizione di governo, con l’effetto di provocare le elezioni. Le elezioni del 1996 segnarono la vittoria del Partito popolare portando alla formazione di un governo guidato da José María Aznar e sostenuto dai nazionalisti catalani e baschi. Sotto il nuovo governo, che iniziò introducendo misure di austerità, l’economia riprese slancio, per cui la Spagna entrò senza difficoltà nel 1999 nell’Unione monetaria europea. Aznar, dopo che un referendum del 1986 aveva votato per una partecipazione della Spagna alla NATO con un ruolo limitato, fece votare dal Parlamento la piena partecipazione ad essa. Un evento importante fu la decisione dell’ETA di dichiarare nel settembre 1998, dopo un’ondata di violenze terroristiche nel 1997-98, il cessate il fuoco, imprimendo così una svolta ai rapporti tra Madrid e il movimento separatista basco. Ma questi rapporti si fecero nuovamente assai difficili nel 1999 dopo che il Partito nazionalista basco si pronunciò a favore di uno stato basco indipendente costituito dalle province basche spagnole e francesi. La ripresa dell’attività terroristica da parte dell’ETA riaprì la spirale di attentati e repressione rafforzando il Partito popolare che nel 2000 riportò una netta affermazione conquistando la maggioranza assoluta alle elezioni politiche. La situazione nei Paesi baschi si acutizzò nel 2002 con la messa fuori legge di Batasuna, un movimento nazionalista basco vicino all’ETA. La popolarità di Aznar cominciò a declinare all’indomani dell’invasione americana dell’Iraq, allorché il governo popolare diede il proprio pieno sostegno all’operazione. Nelle elezioni generali del 2004, svoltesi all’indomani degli attacchi terroristici di matrice islamica che colpirono il sistema di trasporto pubblico di Madrid, l’elettorato spagnolo ritirò la propria fiducia al governo centrista a favore del partito socialista di José Luis Zapatero, il quale ritirò immediatamente le forze spagnole impegnate in Iraq. Il suo governo, formato in larga parte da esponenti femminili, avviò un audace pacchetto di riforme sociali, tra cui la legalizzazione delle unioni di fatto. Nel 2006 fu concessa maggiore autonomia alla Catalogna, cui fu anche riconosciuto la status di “nazione”. Nello stesso tempo furono avviate trattative per giungere a una soluzione negoziata della questione basca. Nel marzo del 2008 il PSOE di Zapatero si riconfermò alla guida del paese pur non riuscendo a conquistare la maggioranza assoluta. A partire dalla fine del 2008 il paese fu duramente colpito dalla crisi finanziaria globale, che costrinse il governo a intraprendere una linea di drastica riduzione della spesa pubblica. Tali misure condizionarono il risultato delle elezioni amministrative del maggio 2011, che registrarono un netto calo di consensi da parte del PSOE. Nel frattempo si diffuse nel paese un’ondata di vivaci proteste, animate dai cosiddetti indignados, perlopiù giovani disoccupati e precari critici nei confronti delle misure di austerità introdotte dal governo. In seguito al progressivo aggravamento della crisi finanziaria, il premier Zapatero indisse elezioni anticipate.
Quest’ultime, svoltesi nel novembre dello stesso anno, videro la sconfitta del PSOE e la conquista di una larga maggioranza da parte del PP di Mariano Rajoy. Divenuto capo del governo, quest’ultimo si impegnò a ridurre il deficit statale, con un programma di tagli drastici della spesa pubblica, che fu causa di ricorrenti manifestazioni di protesta in tutto il paese.
Sul piano internazionale, nel settembre 2010, in risposta alla proposta di una nuova tregua da parte dell’ETA, il governo spagnolo rispose con scetticismo, richiedendo la rinuncia definitiva all’uso della violenza terroristica.

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100. TABELLA: Sovrani di Spagna

Isabella di Castiglia († 1504) e
Ferdinando d’Aragona († 1516) 1479-1516
Casa d’Asburgo
Carlo I* 1516-1556
Filippo II 1556-1598
Filippo III 1598-1621
Filippo IV 1621-1665
Carlo II 1665-1700
Casa di Borbone
Filippo V 1700-1724
Luigi Filippo V gen.-ago. 1724
Ferdinando VI 1724-1746
Carlo III 1746-1759
Carlo IV 1759-1788
Ferdinando VII 1788-1808
Giuseppe Bonaparte 1808-1812
Casa di Borbone
Ferdinando VII 1814-1833
Isabella II 1833-1870
Alfonso XII 1875-1885
Alfonso XIII 1886-1931**
Juan Carlos 1975-
*Carlo V come imperatore del Sacro Romano Impero
** Dittatura di Francisco Franco (1936-1975)

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