sionismo

Aspirazione ebraica al ritorno a Sion, cioè al colle del tempio di Gerusalemme. Profondamente radicato, in quanto aspirazione morale, in tutta la parabola dell’ebraismo della diaspora, alla fine del XIX secolo il sionismo divenne un vero e proprio movimento politico, teso alla costituzione in Palestina – la terra dei padri – di uno stato ebraico. Anticipato da personaggi come Moses Hess – autore di Roma e Gerusalemme (1862) – e stimolato dalla realizzazione dei primi tentativi di colonizzazione della Palestina (“Amici di Sion”, guidati da Leo Pinsker e finanziati da banchieri ebrei come i Rothschild), il sionismo ebbe il suo principale teorico e attivista in Theodor Herzl, autore di Lo Stato ebraico (1896). Si diede la struttura di un movimento politico organizzato nel congresso di Basilea (1897). In esso si decise di favorire l’immigrazione (Alià) ebraica in Palestina (che Herzl intendeva comprare dal sultano Abdulhamit) per creare lo stato indipendente di Israele. La Società degli Ebrei entrò in contatto con numerosi governi europei, per ottenere appoggi e il riconoscimento del futuro stato. Negli stessi anni furono fondati il Jewish Colonial Trust (banca con sede a Londra) e il Fondo Nazionale Ebraico, per favorire le immigrazioni che portarono nel 1914 a un centinaio di migliaia le presenze ebraiche in Palestina, organizzate in più di 50 colonie agricole. Durante la prima guerra mondiale, la Gran Bretagna si impegnò ad appoggiare la colonizzazione ebraica della Palestina, purché non si ledessero i diritti civili dei residenti non ebrei (dichiarazione di Balfour, 1917). L’impegno fu mantenuto dopo la guerra, quando la Gran Bretagna ottenne il mandato in Palestina (sottratta al dissolto impero turco) e collaborò con la Jewish Agency per incrementare le aziende agricole ebraiche nella regione. Nel frattempo il movimento sionista si articolò in numerose correnti tra le quali si affermarono il sionismo generale o “sintetico” di Chaim Weizmann, liberaldemocratico e intenzionato a costituire una comunità palestinese binazionale, araba e giudaica, e il sionismo revisionista di Vladimir Jabotinskij, ultranazionalista e propenso a costruire uno stato esclusivamente ebraico. La colonizzazione ebraica, alimentata negli anni Trenta dalle persecuzioni naziste (antisemitismo), incontrò l’ostilità del nazionalismo arabo, che provocò scontri spesso assai violenti. I muftì arabi osteggiavano i sionisti anche per le loro idee di democrazia politica e di giustizia sociale, che mettevano in discussione la servitù dei fellahin, ancora diffusa nella struttura sociale locale. La comunità ebraica, difesa dall’organizzazione armata Haganah, riuscì comunque a radicarsi socialmente, economicamente e culturalmente (con la nascita di scuole, istituti scientifici e di un’università ebraica), fornendo con le comunità agricole (kibbutz) un nuovo modello di organizzazione socioeconomica di ispirazione socialista. Fallirono peraltro la proposta dell’inglese Peel di creare nella zona due stati distinti, arabo ed ebraico, e il progetto, sempre inglese, del 1939, di fondare uno stato palestinese binazionale, con alcune forme di garanzia per gli arabi, socialmente ed economicamente più deboli. Al termine della seconda guerra mondiale il sionismo, appoggiato dagli USA (gli inglesi preferivano mediare col mondo arabo, al quale erano legati da rapporti di interesse), raggiunse il proprio obiettivo storico. Nel 1947, dopo aver dichiarato decaduto il mandato inglese, l’ONU decise la creazione di due stati, uno arabo e uno ebraico. All’atto di fondazione dello stato di Israele (1948), che ebbe tra i suoi artefici Ben Gurion, grande organizzatore del sionismo in Palestina, gli arabi palestinesi, sostenuti da Egitto, Giordania, Siria, Libano, Iraq e Arabia Saudita, non accettarono la spartizione e provocarono una breve guerra, vinta dagli israeliani. Nel nuovo stato fu possibile soddisfare la secolare aspirazione ebraica alla “riunione degli esuli” (kibbùz galuiòt). La “legge del Ritorno” (1950) stabilì il diritto di ogni ebreo di stabilirsi in Israele, moltiplicando la presenza giudaica nella regione e alimentando la vocazione espansionistica dello stato. Nel nuovo stato e nella comunità ebraica internazionale continuò la divisione tra sionismi di destra (revisionisti, ultranazionalisti) e di sinistra (sionismo socialista). Non mancarono tendenze ebraiche antisioniste, sia politiche (per esempio nel partito comunista e nella nuova sinistra israeliani) sia religiose (in alcune correnti ortodosse che videro nella diaspora una condizione essenziale dell’esperienza ebraica). Al di fuori della comunità giudaica, la politica sionista dello stato di Israele, e in particolare dei governi del Likud (1977-83) di Begin, fu vista da molti come una forma di colonialismo e di discriminazione nei confronti dei palestinesi arabi. Una discussa sentenza dell’ONU del 1975 giunse a condannare il sionismo come una forma di “razzismo e discriminazione razziale”. [Sergio Parmentola]