Sinistra storica

Erede delle correnti democratiche risorgimentali, che dopo il biennio 1848-49 si erano riorganizzate nel Partito d’azione (1853), fu uno schieramento ideologicamente composito, diviso tra mazziniani, garibaldini, democratici ed esponenti della sinistra moderata subalpina (Brofferio). Dopo l’Unità, partecipò alla vita parlamentare del regno d’Italia rinunciando alla pregiudiziale repubblicana (sebbene la repubblica rimanesse per molti un ideale politico) e rappresentando inizialmente la piccola e media borghesia intellettuale e delle professioni. Non fu un moderno partito organizzato ma – come la Destra storica e, più in generale, tutti i cosiddetti “partiti di notabilato” – uno schieramento di opinione, un comitato elettorale e un gruppo parlamentare, senza un’ideologia e un programma rigorosamente definiti. Negli anni Sessanta operò prevalentemente per promuovere il completamento dell’unità nazionale mediante l’iniziativa popolare, contro la prudente strategia diplomatica della Destra. Alla Sinistra si avvicinarono gradualmente le fasce sociali penalizzate dalla politica della Destra: la borghesia meridionale, ostile al piemontesismo e soffocata dal pesante fiscalismo, e la borghesia industriale del nord, ostacolata dal liberoscambismo e dalla rigida politica finanziaria dell’“economia fino all’osso”. Si formò così una nuova generazione politica, la “Sinistra giovane” (A. Depretis, B. Cairoli, G. Zanardelli, F. Crispi, G. Nicotera), che si candidò alla guida del paese con un nuovo programma protezionistico che piacque anche ai latifondisti colpiti dalla crescente concorrenza della cerealicoltura straniera. La Sinistra ebbe in tal modo l’appoggio di quello che fu successivamente definito il blocco agrario-industriale delle classi dominanti. Si presentò alla nazione con un programma illustrato nel 1875 da Agostino Depretis (discorso di Stradella), basato sulla laicizzazione dello stato e la lotta contro il clericalismo, la battaglia contro l’analfabetismo e per l’istruzione elementare obbligatoria, l’ampliamento della base elettorale, il decentramento amministrativo, la riforma fiscale con l’abolizione delle imposte più antipopolari (come l’imposta sul macinato). Nel 1876 conquistò il potere con la cosiddetta “rivoluzione parlamentare” e lo conservò fino al 1896. I suoi principali leader furono il già citato Agostino Depretis e Francesco Crispi, al governo rispettivamente dal 1876 al 1887 e dal 1887 al 1896. Depretis, che cercò di fondare i propri governi su una solida base parlamentare mediante il trasformismo, realizzò in parte il programma di Stradella, con la legge Coppino sull’istruzione elementare obbligatoria (1877), l’abolizione dell’imposta sul macinato (1879-84) e la riforma elettorale del 1882 (che portò l’elettorato dal 2,2% al 6,9%). In politica estera Depretis siglò con l’Austria-Ungheria e con la Germania il trattato della Triplice Alleanza (1882), per far uscire l’Italia dall’isolamento, ma scontentando le correnti irredentistiche. Avviò inoltre la politica coloniale nel Corno d’Africa, con l’acquisto della Baia d’Assab (1882) e la conquista di Massaua, subendo però la disfatta di Dogali (1887). La politica protezionistica consentì un certo sviluppo dell’industria, ma penalizzò l’agricoltura del sud rivolta all’esportazione, aggravando ulteriormente la questione meridionale. I governi di Crispi accentuarono il carattere autoritario e centralistico della gestione del potere, imitando il modello tedesco di Bismarck, e, se continuarono la politica riformistica di Depretis (nel 1888 fu stabilita l’elettività dei sindaci, nel 1889 il Codice Penale Zanardelli abolì la pena di morte e consentì il diritto di sciopero), colpirono con durezza ogni opposizione sociale. Crispi risolse con lo stato d’assedio la ribellione dei Fasci siciliani (1894) e i moti della Lunigiana (1894) e sciolse il neonato Partito socialista italiano (1894). Continuò la politica coloniale con il trattato di Uccialli (1889) e l’istituzione della colonia di Eritrea (1890), ma andò incontro alle disfatte dell’Amba Alagi (1895) e di Adua (1896). Il fallimento dell’avventura coloniale, voluta per motivi politici e di prestigio, ma non sostenuta da adeguate basi economiche e militari, costrinse Crispi alle dimissioni e aprì la fase della “crisi di fine secolo”, a cui seguì poi l’età giolittiana.