Argentina

Stato attuale dell’America meridionale.

  1. Il periodo coloniale
  2. La formazione dello stato argentino
  3. La svolta radicale e la restaurazione conservatrice
  4. Da Perón al regime militare
  5. La guerra delle Falkland e il ritorno alla democrazia
1. Il periodo coloniale

L’Argentina fu scoperta dal navigatore spagnolo Juan Díaz de Solís, che nel 1516 raggiunse il Río de la Plata (“fiume dell’argento”, da cui Argentina). Dieci anni dopo, Sebastiano Caboto esplorò le regioni fluviali del Paraguay e del Paraná (1526-30). Sempre dalla Spagna partì nel 1535 un’imponente spedizione guidata da Pedro de Mendoza con l’obiettivo di conquistare la regione e di creare insediamenti stabili. La spedizione non ebbe fortuna: la città di Santa María de Buenos Aires, fondata nel 1536, fu attaccata e distrutta dagli indios e i membri della spedizione dovettero far ritorno in patria nel 1537. Il successo arrise invece a un luogotenente di Mendoza, Domingo Martínez de Irala, il quale risalì di circa un migliaio di miglia il fiume Paraguay e fondò la città di Asunción, che costituì la roccaforte del potere spagnolo e la base per la conquista e la colonizzazione dell’area. Per tutto il secolo XVII e gran parte del XVIII, la popolazione si concentrò prevalentemente nelle regioni nord-occidentali. Il flusso migratorio venne alimentato dalle colonie spagnole confinanti del Cile, del Perú e del Paraguay, da cui partirono le spedizioni che tra la metà e la fine del XVI secolo fondarono quelli che restarono per tutto il periodo coloniale i principali centri del paese, tra cui Tucumán, Córdoba e la stessa Buenos Aires. Nel 1617 venne istituita la provincia del Río de la Plata, alle dipendenze del viceregno della Nuova Castiglia (Perú). Praticamente tagliata fuori da rapporti diretti con l’Europa, essa forniva alle regioni minerarie andine derrate alimentari e bestiame in cambio dei manufatti che arrivavano dalla Spagna attraverso Panamá e il Perú. Nel corso del XVIII secolo, il peso crescente dell’allevamento del bestiame e del traffico commerciale transatlantico nell’economia argentina determinarono uno spostamento dell’area di gravità da occidente verso oriente che sfociò nel distacco dei possedimenti spagnoli del bacino del Plata (Argentina, Uruguay, Paraguay e Bolivia meridionale) dal Perú e nella creazione del viceregno del Río de la Plata, con capitale Buenos Aires (1776). Avvantaggiata dal nuovo status, la città conobbe un rapido sviluppo demografico e si avviò a diventare un centro cosmopolita, culturalmente assai vivace, capace di attrarre intellettuali e artisti dall’Europa.

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2. La formazione dello stato argentino

Il vuoto di potere creatosi in Spagna in seguito all’invasione napoleonica (1808) favorì in Argentina, come nelle altre colonie spagnole, la lotta per l’indipendenza nazionale. Al sorgere di una coscienza autonomistica contribuirono in varia misura la crescente insofferenza delle élites creole nei confronti degli spagnoli “peninsulari”, che continuavano a detenere il monopolio delle alte cariche civili e militari; la diffusione di nuove ideologie e culture politiche, in particolare del pensiero illuministico; gli esempi delle rivoluzioni americana e francese. Già nel 1807-1808, la vittoria conseguita dalla milizia locale guidata da Jacques de Liniers, poi nominato viceré, contro gli inglesi che avevano occupato Buenos Aires con l’obiettivo di impadronirsi della colonia spagnola, aveva dato slancio al nascente sentimento di identità nazionale. Gli eventi precipitarono con la destituzione di Ferdinando VII di Borbone ad opera delle truppe napoleoniche e con l’insediamento sul trono di Spagna di Giuseppe Bonaparte. Il 25 maggio del 1810 il consiglio municipale di Buenos Aires diede vita a una giunta di governo autonoma, con l’obiettivo di amministrare il paese fino alla restaurazione sul trono di Spagna del sovrano legittimo. Questo atto incontrò la resistenza degli elementi lealisti e conservatori e segnò l’inizio di un periodo di guerra civile – nel corso della quale decisivo fu il ruolo di José de San Martín che sconfisse ripetutamente gli eserciti spagnoli – sfociato nella dichiarazione d’indipendenza proclamata dal Congresso delle Province Unite del Rìo de la Plata, riunitosi a Tucumán nel 1816. Spostatosi a Buenos Aires, il Congresso, sebbene composto a maggioranza di simpatizzanti per la monarchia, optò alla fine per la soluzione repubblicana e promulgò nel 1819 una costituzione centralistica, che si scontrò fin dagli inizi con le tendenze autonomistiche delle province interne, tutt’altro che inclini ad accettare il predominio della capitale. L’indipendenza fu quindi seguita da una fase di anarchia segnata da lotte sanguinose tra i Federalisti e gli Unitari, nel corso della quale si susseguirono colpi di stato promossi ora dall’una ora dall’altra fazione. Di fatto, l’unità politica delle Province Unite costituì per molto tempo una facciata dietro la quale stava il potere dei caudillos, i veri padroni delle province rurali. Andò, infatti, incontro al fallimento il tentativo del liberale Bernardino Rivadavia, eletto presidente nel 1826, di creare uno stato centralizzato e di attuare un programma di riforme economiche e sociali. Il crescente disordine interno e gli effetti della guerra a fianco dell’Uruguay contro il Brasile (1825-28) favorirono l’ascesa al potere di Juan Manuel de Rosas (1829-52), dapprima come governatore di Buenos Aires e quindi, dopo la sconfitta e l’eliminazione dei suoi principali oppositori, come capo indiscusso e acclamato della Confederazione argentina. Facendo appello a una propaganda ferocemente antiunitaria, Rosas riuscì nondimeno a sottomettere i caudillos delle province interne e a ristabilire l’ordine grazie alla sua indiscutibile popolarità e all’azione della mazorca, una sorta di milizia la cui azione andava dall’organizzazione del consenso alla repressione e all’assassinio politico. Il regime di Rosas crollò in seguito alla sconfitta militare che pose fine alla disastrosa “guerra grande” contro l’Uruguay (1839-52). Justo José de Urquíza, il generale che aveva organizzato la ribellione nell’esercito e cospirato con il Brasile e l’Uruguay per deporre il dittatore, convocò un’assemblea costituente a Santa Fé. Questa elaborò una costituzione di tipo federale, ispirata a quella degli Stati Uniti (1853), che non fu però sottoscritta dal governo di Buenos Aires. Soltanto nel 1861 prevalse la soluzione unitaria e fu proclamata la repubblica argentina con capitale Buenos Aires. Tra il 1862 e il 1880 tre presidenti – Bartolomé Mitre (1862-68), Domingo Faustino Sarmiento (1868-74) e Nicolás Avellaneda (1874-80) – si succedettero alla guida del nuovo stato: la loro azione fu volta essenzialmente a consolidare il processo di unificazione nazionale e a favorire lo sviluppo economico e sociale del paese. Durante la loro amministrazione vennero costruite le ferrovie; introdotti miglioramenti nelle tecniche di allevamento del bestiame e di conservazione delle carni; istituito un sistema scolastico nazionale senza eguali in tutta l’America Latina. Riprese inoltre la colonizzazione interna: il generale Julio A. Roca nel 1878-79 pose fine alle guerre contro gli indios, conquistando la Patagonia e aprendo all’insediamento e allo sfruttamento dei bianchi le sterminate pianure della pampa. Roca divenne presidente nel 1880. La sua amministrazione inaugurò un periodo di forte espansione, accompagnato da un rapido incremento demografico e da imponenti processi di immigrazione e di urbanizzazione, che non modificarono tuttavia l’assetto del potere, il quale rimase nelle mani di una ristretta cerchia di grandi proprietari terrieri. Un movimento di protesta, l’Unión Cívica, formato dalla confluenza di raggruppamenti politici eterogenei accomunati dal malcontento contro il regime oligarchico riuscì, con l’insurrezione del luglio 1890, a far dimettere l’allora presidente Miguel Juárez Celman (1886-90), senza tuttavia introdurre mutamenti sostanziali nella natura del regime stesso. Fu soltanto con la riforma elettorale del 1912, che allargava il suffragio e introduceva il voto segreto, che si aprì un nuovo capitolo nella storia dell’Argentina.

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3. La svolta radicale e la restaurazione conservatrice

Le elezioni presidenziali del 1916 posero fine al monopolio politico della vecchia oligarchia, dando la vittoria a Hipólito Irigoyen (1916-22), leader dell’Unión Cívica Radicál, sorta nel 1892 come espressione dei ceti medi di recente formazione. Irigoyen avviò un programma di riforme sociali a favore della classe operaia e fece largo uso del potere di intervento federale nelle province, alienandosi le simpatie della parte più moderata del suo stesso partito. Rieletto nel 1928 con una larga maggioranza, Irigoyen finì col suscitare le diffidenze tanto dei suoi sostenitori, delusi dalla mancata attuazione di riforme più incisive, quanto dei suoi oppositori, allarmati dal suo successo personale. La crisi economica del 1929 e l’incapacità del governo di affrontarne le conseguenze fecero precipitare la situazione. Il 6 settembre del 1930 una parte dell’esercito guidata dal generale filofascista José F. Uriburu, con un colpo di stato, destituì Irigoyen ponendo così fine all’esperimento radicale. Seguirono il generale Augustín P. Justo (1932-38), il quale attuò una serie di misure atte a favorire la ripresa economica, inaugurando una politica di intervento dello stato nell’economia; Roberto M. Ortiz (1938-40), che si impegnò a combattere la corruzione politica e a ristabilire un clima di legalità democratica, suscitando la reazione delle stesse forze che lo avevano eletto; e, dopo le dimissioni di quest’ultimo, Ramón S. Castillo (1940-43), un esponente ultraconservatore. Nel giugno del 1943 Castillo fu destituito da un nuovo colpo di stato, detto “dei colonnelli”, organizzato dal Grupos de Oficiales Unídos (GOU). Dopo una serie di governi provvisori, in un clima di lotta per il potere dovuta al carattere composito del GOU e a rivalità personali, si impose sugli altri la figura di Juan Domingo Perón, che fu eletto presidente nel 1946.

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4. Da Perón al regime militare

Il colonnello Perón, già ammiratore di Mussolini (l’Argentina mantenne durante il secondo conflitto mondiale un atteggiamento di “neutralità” benevola nei confronti dell’Asse e solo nel 1945 entrò in guerra a fianco degli Alleati), aveva acquistato un ruolo di rilievo dopo il colpo di stato in qualità di ministro del Benessere sociale. Le attività connesse a tale carica gli avevano consentito di stabilire rapporti con i sindacati e di acquistare un’influenza sul mondo del lavoro, aiutato in questo dall’enorme popolarità della moglie Eva (Evita) Duarte, che si rivelò determinante per il consolidamento del suo potere personale. Perón, varata una nuova costituzione, diede vita a una forma sui generis di dittatura militare a sfondo sociale, sorretta da un movimento, il giustizialismo, che auspicava la collaborazione tra le classi in nome di una superiore solidarietà nazionale e affidava all’esercito il ruolo di mediazione tra le diverse forze sociali e di direzione politica del paese. Egli avviò un processo di rapida industrializzazione che aveva i suoi punti di forza nell’intervento dello stato a favore degli interessi industriali e nel consenso del movimento operaio, ottenuto attraverso una legislazione sociale piuttosto avanzata e l’incremento dell’occupazione e dei salari; cercò, inoltre, di limitare il peso economico e politico delle oligarchie rurali ponendo sotto il controllo governativo la vendita e l’esportazione delle carni e del grano. I successi, reali ma non sufficienti a porre le basi di un solido apparato produttivo moderno, andarono in larga misura a scapito dell’agricoltura. E quando la produzione agricola, la principale voce di esportazione, diminuì drasticamente lo stato si trovò privo delle risorse necessarie a finanziare lo sviluppo. A partire dal 1950 la situazione economica peggiorò e le tensioni sociali si accrebbero. Le elezioni del novembre 1951 furono ancora favorevoli a Perón, ma la politica economica avviata agli inizi degli anni Cinquanta era tale da minare le basi stesse del suo regime, che fu abbattuto da un colpo di stato nel 1955. Tra il 1955 e il 1958 l’Argentina fu governata da una giunta militare guidata dal generale Pedro E. Aramburu, che ristabilì, tra molte difficoltà, la costituzione del 1853. Nel 1958, con l’appoggio dei peronisti, fu eletto presidente il radicale Arturo Frondizi, il quale avviò un programma di austerità per fronteggiare la crisi economica e fiscale. Criticato dalle sinistre per il carattere impopolare delle misure adottate e sospetto alle destre per la tiepidezza verso i peronisti e per le sue aperture verso la Cuba di Fidel Castro, Frondizi venne infine destituito e messo agli arresti da un colpo di stato militare nel 1962. Al suo posto fu nominato il presidente del Senato José María Justo. Le elezioni del 1963 portarono alla presidenza un altro radicale moderato, Arturo Illía, che proseguì nella politica di austerità. Il rafforzamento dell’opposizione peronista e il tentativo fallito di Perón di rientrare in Argentina dall’esilio spagnolo allarmarono i militari i quali nel 1966, con un nuovo colpo di stato, si impadronirono del potere. Tre generali si succedettero alla guida del paese – Juan Carlos Onganía, Roberto M. Levingston, Alejandro Lanusse – con l’obiettivo di ristabilire l’ordine e di rimettere in sesto l’economia. A tal fine furono posti al bando i partiti politici, limitate le libertà sindacali, controllate la stampa e le università, avviata la lotta all’inflazione mediante un drastico contenimento dei salari e dei consumi. Il risultato fu l’acuirsi delle lotte politiche e sociali e il rafforzamento delle opposizioni peronista e di sinistra. Nel maggio 1969 l’esercito intervenne a Córdoba per reprimere le agitazioni scoppiate in occasione di uno sciopero generale e a partire dal 1970 fecero la loro comparsa le prime organizzazioni di guerriglia. Fallito il tentativo di pacificare il paese mediante la dittatura, i militari tentarono il ritorno alla legalità democratica. Lanusse prese accordi con il movimento peronista e indisse le elezioni presidenziali per il 1973. Queste furono vinte da Héctor Cámpora, che si dimise pochi mesi dopo per consentire il ritorno di Perón e la sua elezione a presidente nel settembre dello stesso anno. Perón morì nel luglio del 1974 e gli succedette la terza moglie Isabel Martínez, che restò al potere fino al 1976 senza riuscire a riportare il paese, in preda a sempre più gravi difficoltà economiche e travolto dalla violenza terroristica, fuori dall’emergenza. Un ennesimo colpo di stato militare nel marzo del 1976 diede la presidenza al generale Jorge Rafael Videla. I militari instaurarono una dittatura tra le più brutali della storia dell’Argentina: vennero sciolti il Congresso e le assemblee provinciali e comunali; sospese le libertà politiche e sindacali; istituite la censura e la pena di morte. Iniziarono allora gli arresti in massa delle persone non gradite al regime, molte delle quali scomparvero (desaparecidos) senza lasciar traccia. La svolta repressiva non riuscì peraltro a risollevare le sorti dell’economia. Le misure adottate portarono a una diminuzione dell’inflazione, ma il costo sociale fu assai pesante. Nel marzo del 1981 a Videla succedette Roberto Viola, che venne a sua volta sostituito nel dicembre dal generale Leopoldo Galtieri, esponente dell’ala oltranzista, dopo un braccio di ferro all’interno della giunta militare con i fautori di una politica più moderata.

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5. La guerra delle Falkland e il ritorno alla democrazia

La crescente opposizione interna e la sensibilizzazione dell’opinione pubblica internazionale contro la dittatura indussero i generali a cercare nuovi consensi, usando l’arma della guerra patriottica. Nell’aprile del 1982 truppe argentine invasero le isole Falkland (o Malvinas), possedimento inglese dal 1830, reclamandone la restituzione. Scoppiò allora la cosiddetta guerra delle Falkland con la Gran Bretagna che si concluse, dopo 74 giorni, con la vittoria di quest’ultima e un’ulteriore perdita di prestigio della giunta militare. Galtieri fu allora sostituito da un altro generale, Reynaldo Bignone, che indisse le elezioni generali per consentire il ritorno al potere dei civili. Nel 1983 fu eletto presidente Raúl Alfonsín, leader del Partito radicale, il quale epurò i vertici militari e nominò una commissione di inchiesta sui crimini commessi durante il regime e, in particolare, sui desaparecidos. Il ritorno alla legalità democratica si rivelò irto di difficoltà. La gravità della situazione economica, con un debito estero al limite della bancarotta e un’inflazione ormai fuori controllo, impose un piano di austerità che conseguì alcuni successi ma alimentò lo scontento popolare e diede origine a forti tensioni sociali culminate in scioperi generali contro il governo (settembre 1984 e maggio 1985). Infine, l’amnistia concessa ai militari in seguito a veri e propri atti di insubordinazione da parte di questi ultimi finì con alienare i consensi ad Alfonsín. Le elezioni del maggio 1989 portarono alla presidenza il candidato peronista Carlos Saúl Menem. Fra i suoi primi atti vi furono la ripresa delle relazioni diplomatiche con la Gran Bretagna e un’amnistia a favore dei militari accusati di violazione dei diritti umani. Seguendo una politica di impronta neoliberista, Menem affrontò con energia la grave crisi economica del paese responsabile dell’inflazione galoppante e dell’enorme debito estero. Furono favoriti gli investimenti stranieri, gli scambi commerciali e fu attuato un deciso processo di privatizzazioni che ridusse drasticamente l’ampio settore pubblico. I risultati furono notevolissimi, tanto che nel 1995 l’inflazione era scesa al 4%. Ciò favorì la rielezione di Menem in quello stesso anno. L’effetto più negativo della politica di risanamento economico coincise però con il dilagare della disoccupazione, salita nel 1997 al 20%. Nel 1997-98 emerse come nuova forza politica, con l’obiettivo di catalizzare il disagio sociale contro i peronisti, l’Alleanza, una coalizione di sinistra che ottenne significativi anche se parziali successi. L’acuirsi delle gravi disparità sociali determinato dalla politica di Menem favorì la vittoria alle presidenziali del 1999 del candidato radicale F. De la Rúa, che non riuscì però a mutare la politica economica del paese, anche a causa della stretta imposta dal FMI per la concessione dei prestiti. Alla fine del 2001 la crisi sfociò in una massiccia protesta popolare, che costrinse il presidente De la Rúa alle dimissioni. Ne seguì una fase di caos politico-istituzionale mentre le proteste popolari sfociavano nei saccheggi; il nuovo presidente ad interim Eduardo Duhalde, peronista, tentò di avviare un piano di rilancio dell’economia basato sull’abbandono della parità col dollaro e la rinegoziazione del debito estero. In un clima di permanente instabilità politica ed economica, le elezioni presidenziali del 2003 furono vinte da Néstor Kirchner, il quale, durante il proprio mandato, si impegnò a fondo nel risanamento economico del paese. Nelle successive elezioni del 2007 egli sostenne la candidatura della moglie, la senatrice Cristina Fernandez de Kirchner, la quale, vincendo con un ampio margine di consensi, divenne la prima donna argentina a rivestire la carica di presidente. Ottenne la riconferma nelle elezioni presidenziali del 2011 e nello stesso anno il suo partito, il Fronte per la vittoria (FPV), conquistò la maggioranza assoluta dei seggi in entrambe le camere del parlamento.

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