aborto

Derivante dal latino abortum (da aboriri: morire, nascere prima del tempo), il termine indica l’interruzione della gravidanza – volontaria o spontanea – nei primi mesi della gestazione. Con l’avvento del cristianesimo l’aborto volontario, considerato come atto gravemente lesivo dei diritti della vita e quindi inestricabilmente connesso con le nuove concezioni religiose, morali e sociali, fu proibito in quanto crimine equiparabile all’omicidio o sottoposto – nel corso dei secoli – a una disciplina prima inesistente. Solo con l’Illuminismo furono accolte parzialmente giustificazioni dell’aborto fondate sullo stato di povertà o sull’onore familiare. Un’impostazione severamente restrittiva continuò a valere nell’Italia postunitaria e, in particolare, sotto il fascismo, allorché l’aborto fu punito alla stregua di un delitto contro la nazione, poiché minava le possibilità di incremento della popolazione e quindi della potenza nazionale. Nell’Italia repubblicana motivi fondati sulla difesa della donna e su una più equilibrata valutazione della qualità della vita umana e sociale del nascituro hanno condotto all’approvazione della legge n. 194 del 1978 che, abrogando le norme penali precedenti, regolamenta una pratica strettamente controllata dell’aborto nei primi tre mesi di gravidanza. Sottoposta a referendum abrogativo nel 1981, la legge 194 è stata riconfermata dall’elettorato italiano, ma ha continuato a costituire materia di aspro dibattito negli anni successivi.