questione meridionale

Con l’espressione “questione meridionale” si indica tradizionalmente il problema dell’arretratezza socioeconomica del sud dell’Italia rispetto al nord, nel contesto dello stato unitario fondato nel 1861. Prima dell’unificazione, il meridione era organizzato nel regno delle Due Sicilie, sotto la dinastia dei Borbone, caratterizzato dal malgoverno, dall’arretratezza economica e sociale e da un analfabetismo endemico. L’economia, quasi esclusivamente agricola, era fondata sul latifondo cerealicolo-pastorale, in mano a una ristretta fascia sociale di proprietari assenteisti, poco propensi agli investimenti e alla modernizzazione produttiva. I baroni meridionali risiedevano quasi sempre nelle città, lontano dalle proprie terre, che affidavano a grandi affittuari. Le condizioni di vita e di lavoro delle masse contadine erano durissime. Le industrie, protette dalle commesse e dal protezionismo doganale dei governi borbonici, erano poche e tecnicamente arretrate. I commerci, sia interni sia con l’estero, erano scarsi e ostacolati dalla carenza di vie di comunicazione. Di conseguenza, mancava un robusto ceto medio, presupposto per un equilibrato sviluppo sociale ed economico. Quando l’unificazione politica, approvata dall’elettorato meridionale nei plebisciti del 1860, creò il mercato nazionale, la debole industria meridionale fu travolta dalla concorrenza di quella, più moderna, del settentrione, con conseguente aumento del già notevole divario economico tra sud e nord. La vendita delle terre del clero e del demanio, negli anni dei governi della Destra storica (1861-76), non migliorò le condizioni dei contadini poveri, che non erano in grado di comprarle, ma favorì ulteriormente la grande proprietà terriera. Con la privatizzazione delle terre demaniali, anzi, i contadini persero gli ultimi diritti, di origine feudale, di pascolo e di legnatico. Il nuovo stato nazionale rese peggiori le condizioni di vita del sud del paese anche con il sistema fiscale, ben più gravoso di quello borbonico, e con la leva obbligatoria, che sottraeva al lavoro dei campi le braccia migliori. Il malcontento delle popolazioni meridionali, data l’assenza in Italia di un partito capace di esprimere e di organizzare la questione sociale (come avrebbero voluto Giuseppe Ferrari e Carlo Pisacane), si manifestò subito dopo l’unificazione nelle due forme del brigantaggio e delle rivolte contadine. Il primo, scoppiato nel 1861 con la complicità e il sostegno finanziario dei Borbone e del papa (intenzionati a destabilizzare il nuovo stato ritenuto illegittimo), ebbe carattere di massa e coinvolse numerosi strati sociali, dai militari dell’ex regno borbonico ai contadini, ai delinquenti comuni. La sua repressione, terminata solo nel 1865, richiese l’energico intervento di più di 120.000 soldati dell’esercito regio e leggi eccezionali come la legge Pica del 1863, che consegnò i briganti ai tribunali militari e stabilì la fucilazione immediata dei rei colti in flagrante. Le rivolte contadine cercarono vanamente di ottenere quella distribuzione di terre che il popolo del sud si era aspettato fin dalla spedizione dei Mille (1860) di Garibaldi. Queste spie del malessere meridionale furono oggetto di ampia riflessione in alcune inchieste parlamentari e da parte di numerosi intellettuali, che diedero origine al “meridionalismo”. Al di là delle pur rilevanti differenze ideologiche e politiche, tutti i meridionalisti concordarono sulla necessità di affrontare la questione alla radice, risolvendo i problemi di disorganizzazione socioeconomica delle regioni del sud e migliorando le insostenibili condizioni di vita delle masse contadine e popolari. Leopoldo Franchetti (1847-1917) sottolineò come la mafia e il banditismo fossero le conseguenze naturali di un ambiente sociale in cui la forza privata prevaleva sull’autorità pubblica. Pasquale Villari (1826-1917) osservò che, di fronte alle esplosioni di malcontento delle masse meridionali, non era sufficiente la repressione, ma era necessaria un politica di riforme, tali da risolvere i problemi alla radice. Sidney Sonnino (1847-1922) era convinto che la soluzione consistesse nell’incentivare la modernizzazione agricola, adottando il sistema mezzadrile, che stava dando buoni frutti in regioni come la Toscana; ma l’oligarchia latifondista, protetta dai governi, cui essa garantiva il proprio sostegno elettorale, impedì qualsiasi riforma in tal senso. La Sinistra storica, al governo dal 1876, adottò una politica protezionistica, che favorì ulteriormente l’economia industriale del nord e la proprietà assenteista del sud, la cui arretrata produzione, essenzialmente cerealicola, fu messa al riparo dalla concorrenza russa e americana. Furono invece penalizzate le poche colture specializzate (come la viticultura pugliese), che si videro chiudere ogni prospettiva di esportazione dalle ritorsioni straniere, soprattutto francesi. Il generale aumento dei prezzi prodotto dal protezionismo provocò inoltre un ulteriore impoverimento delle masse meridionali. Nel 1892 si sviluppò il movimento dei fasci siciliani, che si opposero al fiscalismo regio e alla tirannia dei latifondisti locali, e che furono duramente repressi dal governo Crispi. Giustino Fortunato (1848-1932) affermò che l’inferiorità economica del meridione trovava le sue ragioni in cause naturali, come la siccità e l’aridità dei terreni, ma anche nella scarsa intraprendenza dei proprietari terrieri, che fondavano la propria ricchezza unicamente sullo sfruttamento rapace dei contadini. Fortunato sperava che lo stato liberale non si limitasse a qualche legge speciale per il sud, ma si prendesse carico della situazione in modo organico, agevolando lo sviluppo economico con un’opportuna politica fiscale e creditizia. Napoleone Colajanni (1847-1921) auspicava che l’industrializzazione, favorita dal protezionismo, coinvolgesse anche il sud, sollevandone le sorti economiche e sociali. Era convinto inoltre che il meridione avesse bisogno di un ampio decentramento di poteri, in una struttura statale di tipo federale. Il liberista Antonio De Viti De Marco (1858-1943) criticò, invece, il protezionismo, responsabile del mancato sviluppo dell’agricoltura da esportazione. Francesco Saverio Nitti (1868-1953) accusò l’iniquo sistema fiscale, il quale drenava risorse dal sud, che in proporzione al proprio reddito pagava più del settentrione, al nord, beneficiario di quasi tutti i finanziamenti statali. Anche le banche trasferivano al nord i risparmi del meridione, lasciando il sud privo di capitali da investimento. Nitti sperava in una futura industrializzazione del sud, da realizzare con una politica di interventi speciali e di sviluppo dei lavori pubblici. Gaetano Salvemini (1873-1957) era convinto che solo l’alleanza tra i contadini meridionali e gli operai settentrionali potesse contrapporsi al blocco di potere costituito dagli industriali e dai latifondisti e criticava, perciò, la politica del Partito socialista, chiuso in una corporativa difesa degli interessi del proletariato settentrionale. Salvemini riteneva che il suffragio universale avrebbe dato un nuovo peso alle masse nella politica nazionale ed era favorevole a un decentramento di tipo federale. Proponeva inoltre una riforma agraria fondata sulla spartizione del latifondo e sulla diffusione della piccola proprietà contadina. Non mancò chi, come A. Niceforo, lesse la questione meridionale in termini razzistici, attribuendo alla pigrizia e all’inferiorità dei popoli del sud la causa della loro arretratezza. L’età giolittiana non portò grandi cambiamenti nelle condizioni del meridione: pochissime aree, per lo più concentrate in Campania, parteciparono parzialmente al decollo industriale, grazie alla politica di interventi speciali per il Mezzogiorno, mentre l’agricoltura continuò a essere fondata sul latifondismo. Lo stesso Giolitti peraltro – il “ministro della malavita”, come lo definì Salvemini – sfruttò sistematicamente gli equilibri sociali del meridione e il predominio della grande proprietà assenteista per ricavarne vantaggi in termini politici, elettorali e parlamentari. Il governo del meridionalista Sidney Sonnino (1906), che proponeva lo sgravio fiscale per i contadini e la loro agevolazione nei patti agrari con i proprietari, ebbe breve durata. La manodopera eccedente trovò in questo periodo una valvola di sfogo nell’emigrazione di massa, che nel nuovo secolo raggiunse proporzioni enormi: oltre quattro milioni di meridionali lasciarono la propria terra nel primo quindicennio. Regioni arretrate come la Basilicata si avviarono verso un vero e proprio spopolamento. A emigrare erano le forze sociali più produttive, cioè le persone di sesso maschile e in età da lavoro. Gli unici risvolti positivi del fenomeno furono il lieve miglioramento dei contratti agricoli, prodotto dal calo della domanda di lavoro, e l’arrivo delle rimesse degli emigrati, che consentirono ad alcuni contadini di comprarsi la terra. La prima guerra mondiale fu pagata a caro prezzo dal sud, i cui giovani vennero mandati in massa a farsi decimare nelle trincee. Al danno della guerra si aggiunse quello del mancato mantenimento della promessa (fatta nel 1917 dopo la disfatta di Caporetto) di distribuire le terre ai contadini alla fine del conflitto, come premio per il sacrificio e lo sforzo sostenuti. Nel dopoguerra, prima dell’avvento del fascismo, il dibattito sulla questione meridionale riprese e si intensificò. Luigi Sturzo (1871-1959), fondatore del Partito popolare, intendeva lottare contro il latifondismo, a favore della diffusione della piccola proprietà contadina, che avrebbe creato nel meridione un ceto medio. Sostenne inoltre il sistema elettorale proporzionale e il decentramento regionale, per stroncare il predominio dei notabili. Guido Dorso (1892-1947) sperava in una gobettiana “rivoluzione liberale”, che sostituisse l’immobilistico blocco di potere con l’alleanza, al sud, di contadini, piccoli proprietari e intellettuali. Uno dei fondatori del Partito comunista, Antonio Gramsci (1891-1937), che vedeva nella questione meridionale il problema centrale dello stato nazionale, riteneva che al blocco di potere agrario-industriale dovesse opporsi l’alleanza di operai e contadini. Gli intellettuali meridionali, liberandosi della vecchia subalternità ai latifondisti, avrebbero dovuto dare il proprio indispensabile contributo alla nascita di una nuova cultura, organica al progetto di rinnovamento della società. Durante il fascismo la situazione del Mezzogiorno si aggravò, sia per le leggi statunitensi restrittive dell’immigrazione, che tolsero ai disoccupati meridionali uno sbocco tradizionale, sia per l’ulteriore aumento della subordinazione dell’agricoltura agli interessi del capitalismo settentrionale. I centri tradizionali di potere garantirono il proprio sostegno al regime, in cambio di favori, concessioni di qualche opera pubblica e di licenze edilizie che consentirono l’inizio di una speculazione selvaggia. La politica del fascismo per il meridione, basata sulla battaglia del grano e sulla bonifica integrale, si rivelò sostanzialmente un fallimento. Le condizioni di vita delle masse rurali peggiorarono, mentre la battaglia del grano consolidò ancora una volta l’arretrata produzione cerealicola a scapito delle colture più moderne. Negli anni Trenta il fascismo abbandonò il progetto di bonifica integrale, per destinare maggiori risorse alla politica di riarmo e all’espansionismo imperialistico. L’arruolamento nell’esercito e la partecipazione alle imprese coloniali diventarono per il sud una valvola di sfogo sostitutiva dell’emigrazione. Durante la seconda guerra mondiale, parte della popolazione del sud si illuse che la caduta dal fascismo e la liberazione avrebbero portato a una rinascita sociale ed economica delle proprie regioni. Le intelligenze più acute, come Guido Dorso, percepirono il pericolo che sotto le nuove istituzioni potesse ricostituirsi il tradizionale blocco di potere, refrattario a qualsiasi politica autenticamente riformatrice. Dorso pensava che per risolvere la questione meridionale ci fosse bisogno di una nuova élite dirigente, di “cento uomini d’acciaio” fermamente determinati ad affrontare radicalmente i problemi. Anche nel nuovo stato repubblicano e democratico, quindi, la questione meridionale fu al centro di un acceso dibattito. Manlio Rossi Doria sostenne un’ipotesi di riforma agraria, che sviluppasse le cooperative e gli enti regionali, promuovesse la piccola proprietà e favorisse l’evoluzione tecnica. Il Partito comunista propose per il meridione un progetto di riforma agraria di stampo democratico-borghese, che non si spingeva oltre lo smantellamento degli ultimi residui feudali e la diffusione della piccola proprietà. Profondamente pessimista era Salvemini, convinto che il riscatto dei contadini meridionali avesse bisogno dell’apporto degli intellettuali, i quali erano invece moralmente inetti e incapaci di assolvere il proprio compito storico. Lo storico gramsciano Emilio Sereni attribuì al capitalismo del nord la responsabilità del mancato sviluppo industriale del sud, relegato al ruolo di sbocco di mercato per i prodotti settentrionali. La delusione dei contadini, per la mancata riforma agraria alla caduta del fascismo, si manifestò in una serie di occupazioni di terre nei primi anni del dopoguerra. Esse furono duramente represse dalle forze dello stato (stragi di Melissa, Montescaglioso, Torremaggiore) e dai banditi al soldo dei latifondisti (come la strage di Portella della Ginestra il 1° maggio 1947, a opera del bandito Salvatore Giuliano), ma ebbero l’effetto di convincere i governi centristi di Alcide De Gasperi ad avviare una politica di cauto “riformismo dall’alto” nel meridione. Nel 1950 furono distribuite ai contadini porzioni di latifondo (in genere le terre meno fertili) confiscate con indennizzo ai proprietari e fu istituita la Cassa per il Mezzogiorno, per agevolare l’industrializzazione del sud con una politica creditizia e mediante la creazione di infrastrutture funzionali allo sviluppo. Si ebbe un parziale processo di modernizzazione, insufficiente però a riequilibrare il divario tra le diverse aree del paese. Il reddito medio continuò a essere molto più basso che nelle regioni centrosettentrionali. La piccola proprietà terriera, creata dalla riforma agraria, si rivelò troppo frantumata per consentire una reale modernizzazione e i contadini spesso non erano neanche in grado di mantenere solo con essa la propria famiglia. Molti furono costretti a cercare secondi lavori o a rivolgersi alla classe politica locale per ottenere favori assistenziali in cambio del proprio sostegno elettorale. Gran parte della classe politica, infatti, cercava più di consolidare il proprio potere mediante la tecnica del clientelismo, che di realizzare il necessario rinnovamento socioeconomico del territorio. Parallelamente (e conseguentemente), nella società si sviluppava la tendenza al parassitismo e alla ricerca dell’impiego pubblico, invece di una sana mentalità produttiva. Negli anni Cinquanta riprese in modo massiccio il fenomeno migratorio, indirizzato verso il nord che viveva la stagione del proprio “miracolo economico”.
[Sergio Parmentola]
Tra il 1950 e il 1970 il 25% della popolazione meridionale emigrò. Nonostante le risorse investite dallo stato, spesso sprecate o usate in modo distorto e clientelare, nel dopoguerra il divario tra sud e nord aumentò significativamente. Il dibattito meridionalista proseguì anche nei decenni successivi, articolandosi soprattutto nelle tre diverse posizioni dei conservatori, dei marxisti e dei “terzaforzisti” (tra i quali lo storico Rosario Romeo), sostenitori questi ultimi di una linea liberale intermedia tra le prime due. La questione meridionale oggi non comprende più tanto il problema della riforma agraria, quanto soprattutto quelli dello sviluppo caotico di megalopoli come Napoli e Palermo, dell’insufficiente e disordinato sviluppo industriale (le cosiddette “cattedrali nel deserto”), della speculazione edilizia selvaggia (le “mani sulla città”), della disoccupazione crescente, del clientelismo, dell’inefficienza del sistema amministrativo, della carenza strutturale di infrastrutture, della microcriminalità diffusa, dell’inquinamento e dello smaltimento dei rifiuti. Perfino conquiste positive come la scolarizzazione di massa, nel quadro complessivamente negativo della situazione del Mezzogiorno, si sono spesso tradotte in nuovi problemi, come la disoccupazione intellettuale e l’emigrazione dei giovani talenti. Il problema più grave di questi ultimi anni continua a consistere nel crescente controllo mafioso e criminale sull’economia e sulla vita sociale e politica locali. Lo stato, dopo anni di inerzia o di eroico sacrificio di pochi e isolati suoi rappresentanti, ha ultimamente intensificato la lotta contro la criminalità organizzata, senza riuscire però a incidere profondamente sulle radici sociali più profonde della questione meridionale. A partire dalla metà degli anni Novanta, in concomitanza con il sorgere del fenomeno leghista e il profilarsi di un’opposta “questione settentrionale”, il tema dell’ormai secolare ritardo del Mezzogiorno è prepotentemente tornato al centro della polemica politica, divenendo uno degli argomenti principali a sostegno dell’ipotesi di una riforma strutturale dello stato italiano in senso federale.
[Federico Trocini]