poteri, divisione dei

Il principio della divisione (o “separazione”) dei poteri si pone storicamente come risultato sostanziale della lotta liberale e democratica all’assolutismo ed è alla radice del costituzionalismo moderno. In effetti, tanto l’assolutismo aspira alla concentrazione dei poteri, altrettanto il costituzionalismo tende alla loro separazione e al loro bilanciamento. La divisione dei poteri, teorizzata come garanzia di libertà per i singoli e il popolo soprattutto da Montesquieu sulla scorta dell’esperienza inglese (peraltro con profonde innovazioni rispetto alla soluzione elaborata da Locke), prevede che i tre poteri fondamentali dello stato – il legislativo, l’esecutivo e il giudiziario – siano assegnati a organi separati, distinti e tra loro autonomi, sia come titolarità sia come competenze. Nello Spirito delle leggi (1748) è scritto: “Non vi è libertà se il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo e da quello esecutivo [...] Tutto sarebbe perduto se la stessa persona o lo stesso corpo di grandi, o di nobili, o di popolo, esercitasse questi tre poteri: quello di fare le leggi, quello di eseguire le pubbliche risoluzioni e quello di giudicare i delitti e le liti dei privati”. Al principio della divisione dei poteri (successivamente rielaborato e arricchito da pensatori come Kant e Constant contro i pericoli dello stato dispotico) è correlato strettamente quello del loro equilibrio reciproco, necessario al fine della loro funzionalità ed efficacia. Il principio della divisione dei poteri – secondo cui il legislativo appartiene al parlamento, l’esecutivo al governo e il giudiziario alla magistratura – è stato recepito in tutte le costituzioni liberali e democratiche contemporanee, ricevendo una peculiare fisionomia ed estensione all’interno degli stati federali, i quali introducono un’ulteriore forma di divisione dei poteri sul piano territoriale (federalismo).