Partito socialista democratico italiano

Formazione politica fondata da Giuseppe Saragat nel 1947, con il nome originario di Partito socialista dei lavoratori italiani. I fondatori provenivano dalle file del Partito socialista italiano di unità proletaria (che dopo la scissione riprese il vecchio nome di Partito socialista italiano), dal quale erano usciti per disaccordo sulla scelta di continuare l’unità d’azione con il PCI. Pur richiamandosi all’esperienza e all’ideologia della socialdemocrazia europea, il PSLI non riuscì a diventare un grande partito di massa e nemmeno a radicarsi profondamente nel movimento operaio e sindacale italiano. La vocazione al moderatismo politico ne fece un partito interclassista, sostenuto soprattutto dai ceti medi. Nel 1948 ottenne un buon risultato (il 7,1%) nelle elezioni politiche contrassegnate dallo scontro ideologico tra comunismo e anticomunismo. In tale circostanza il PSLI fu premiato da un elettorato di sinistra, ma sensibile alle critiche al totalitarismo comunista e intenzionato a collocare l’Italia nello schieramento occidentale e filoamericano. Il PSLI fu, infatti, tra i sostenitori più entusiastici dell’adesione dell’Italia al Patto atlantico, vista come una vera e propria “scelta di civiltà”. Nel 1949 nacque il Partito socialista unitario, fondato dalla corrente romitiana uscita dal PSI e da alcuni esponenti del PSLI, delusi dalla scarsa incisività del partito nella politica nazionale. Il PSLI, infatti, era entrato a far parte dei governi centristi di De Gasperi, limitandosi a esercitare pressioni sulla DC affinché in essa prevalessero le correnti riformiste. La subalternità sostanziale alla DC impedì al PSLI di diventare, come si era proposto alla fondazione, la “terza forza” tra il PCI e la DC. Nel 1952 PSU e PSLI si fusero, dando vita al Partito socialista democratico italiano. Nel 1953 il nuovo partito ottenne solamente il 4,5% dei suffragi alle elezioni politiche, pagando, tra l’altro, l’appoggio dato all’approvazione della “legge truffa”. In quell’occasione sette deputati avevano lasciato il partito e costituito, insieme con alcuni personaggi usciti dal PRI (tra cui Ferruccio Parri), la lista Unità popolare, che con i suoi pochi voti (170.000) fu decisiva per far fallire il meccanismo del premio di maggioranza. Alla fine degli anni Cinquanta il PSDI fu coinvolto negli sconvolgimenti provocati nella sinistra italiana da avvenimenti internazionali, come la denuncia kruscëviana dei crimini di Stalin e l’invasione sovietica dell’Ungheria (1956). La rottura del patto d’unità d’azione tra PSI e PCI indusse la sinistra socialdemocratica a proporre la fusione dei due partiti di ispirazione socialista. Il mancato raggiungimento di tale obiettivo provocò la fuoriuscita di tale corrente, che fondò nel 1959 il Movimento per l’unità e autonomia socialista e nello stesso anno confluì nel PSI. Nel PSDI confluì invece il gruppo di Alleanza socialista (Reale, Pellicani, Averardi), uscito dal PCI dopo la crisi ungherese. Negli anni Sessanta il PSDI partecipò ai governi di centrosinistra e, beneficiando del nuovo clima politico di apertura alla sinistra riformista, nel 1963 ottenne il 6% alle politiche. Lo spostamento verso posizioni più centriste del PSI, da cui, dopo l’ingresso nella maggioranza governativa, erano usciti numerosi esponenti della sinistra fondando il Partito socialista italiano di unità proletaria (PSIUP), favorì l’avvicinamento tra i due partiti, che nel 1966 si unificarono nel Partito socialista unitario (PSU). La fusione si tradusse in un fallimento elettorale nel 1968, quando il partito unificato raggiunse soltanto il 14,5% dei voti, cioè la stessa percentuale che il PSI aveva ottenuto da solo nella tornata precedente. Di qui la decisione di tornare a dividersi nei due partiti di origine (1969). Negli anni Settanta il PSDI fu investito dai primi processi per corruzione politica del paese, con il coinvolgimento del suo leader Tanassi nello scandalo Lockheed. La conseguenza fu un insuccesso elettorale alle politiche del 1976, che videro il PSDI scendere dal 5,2% (del 1972) al 3,4%. La segreteria del partito passò nel 1978 da Romita a Pietro Longo, che tentò un rilancio d’immagine fondato su una politica di tutela degli interessi dei ceti medi e dei pensionati. Ciò non bastò per consolidare l’elettorato del partito, che nel 1979 rimase fermo al 3,9%. L’avviamento nel PSI del “nuovo corso socialista” a opera di Bettino Craxi, favorì l’ennesimo avvicinamento tra i due partiti. Nel 1990 PSI e PSDI stabilirono un “patto di reciproca consultazione”, in vista della creazione di un forte “polo laico socialista”. Negli anni Ottanta il PSDI fece parte della coalizione di pentapartito. Il nuovo segretario, Franco Nicolazzi, nel 1985 propose l’obiettivo di costruire in Italia l’“alternativa riformista” alla DC. Neanche questo bastò a rilanciare il partito, che nel 1987 scese al 3%. L’anno successivo Nicolazzi fu costretto alle dimissioni per il suo coinvolgimento nello scandalo delle “carceri d’oro”. La segreteria passò ad Antonio Cariglia, che ripropose l’alternativa di sinistra come progetto a lungo termine del partito. Negli anni Novanta il PSDI fu coinvolto nei processi di Tangentopoli. L’immagine del partito, del quale vennero indagati dalla magistratura ben quattro segretari, ne risultò ulteriormente e definitivamente deteriorata. Alle politiche del 1994, le prime della storia repubblicana celebrate con un sistema elettorale semimaggioritario, il PSDI non si presentò come partito e, da allora, iniziò la diaspora dei suoi aderenti, che confluirono in parte nella Margherita, in parte nei Socialisti Democratici Italiani (SDI) e in parte in Forza Italia. Fu ricostituito formalmente nel 2004 e due anni dopo, sotto la segreteria di Giorgio Carta, sostenne, aderendovi, la coalizione di centrosinistra di Romano Prodi. Dopo la fine del secondo governo Prodi, non aderì alla costituzione del Partito democratico (PD), cessando, di fatto, di esistere.