partito politico e sistema dei partiti

Il partito è considerato un’organizzazione associativa volontaria – anche se nei sistemi a partito unico farne parte è quasi obbligatorio o comunque indispensabile se si vuole accedere, ad esempio, ai pubblici impieghi. Si propone come obiettivo l’attuazione, parziale o totale, immediata o a tappe, di un programma politico che ha a che fare con un insieme di valori o anche con gli interessi di un determinato gruppo sociale, religioso, nazionale, professionale. Si propone anche come veicolo di carriera politica, e di più specifici benefici, per i suoi capi, gregari, iscritti e, eventualmente, elettori. Perché un partito in senso proprio, come fatto cioè associativo, possa esistere, è necessaria l’esistenza di un regime rappresentativo e di un almeno potenziale spazio intermedio tra lo stato e la società civile. Solo nell’Inghilterra posteriore alla Glorious Revolution del 1688, dotata di un regime rappresentativo in grado di affiancarsi di fatto al sovrano nella formazione dell’esecutivo, è possibile parlare di partiti in senso proprio. Segnata dalla presenza della guerra civile, la fama che circondò l’idea di partito fu comunque all’inizio pessima. E precedette l’esistenza stessa del partito. Per Hobbes, ad esempio, il partito era come il verme nell’intestino dello stato: era la pars contrapposta all’unità dello stato, un agente particolaristico e disgregatore di una sovranità che è assoluta o non è. Per Spinoza era il sintomo pericoloso della passione (di per sé passiva) in contrasto con il carattere razionale dello stato. Ancora per Voltaire era nient’altro che una “fazione”, nel senso deteriore del termine. Mentre per Rousseau era l’organizzarsi delle pulsioni particolaristiche che andavano a costituire un diaframma tra lo stato e il cittadino, dissolvendo la volontà generale e quindi il bene pubblico. Una corrente di pensiero, tuttavia, cominciò a ritenere ineludibile il problema della separazione del pubblico dal privato, così come dello stato dalla società civile. Tale separazione andava organizzata. In questa direzione si mossero Montesquieu, e poi Hume, che colse nei partiti un elemento di regolazione dei conflitti legittimi, e poi Burke, che li trovò utili contro l’onnipotenza del parlamento e un presidio, ciò che pensò anche Sieyès, dell’indipendenza dei deputati dal corpo elettorale (un’impostazione, questa, esattamente opposta alla critica antipartitocratica del tardo Novecento). Hegel parlò poi dei partiti come della “trama privata dello stato” e lo stesso Tocqueville vi vide un argine e una garanzia contro il dispotismo. Varie sono comunque state le tappe storiche che il partito ha dovuto attraversare in sintonia con l’evoluzione delle forme di rappresentanza, dell’entità del suffragio e dei sistemi elettorali. I partiti, nel XVIII secolo, furono in Inghilterra (tories e whigs) quasi esclusivamente aggregazioni parlamentari e non ebbero che uno scarsissimo peso fuori del parlamento stesso. Con l’allargamento del suffragio, e soprattutto con le riforme elettorali inglesi del 1832, si formò il partito dei notabili, costituito da circoli elettorali locali, a organizzazione assai intermittente, e frequentati da un numero ristretto di persone. Fu poi la volta, con l’ulteriore allargarsi del suffragio, del partito organizzativo di massa. E in questo caso cominciarono a farsi strada i partiti operai e in particolare, forte del suffragio universale, la socialdemocrazia tedesca. In questi partiti, al di là del gruppo parlamentare, vi erano sezioni locali permanenti e si pagavano quote e contributi non solo in vista della scadenza elettorale, ma anche del mantenimento quotidiano del partito stesso: vi erano poi impiegati e funzionari retribuiti e a tempo pieno. Il partito organizzativo di massa fu un efficace modello organizzativo per tutti i partiti contemporanei, destinati a diventare partiti elettorali di massa, vale a dire organizzazioni di consenso, oltre che di governo, e inevitabilmente catch-all-partie s, vale a dire macchine in grado di attrarre militanti, simpatizzanti ed elettori da tutti i settori sociali. Vi fu sin dal XIX secolo, e a maggior ragione dall’inizio del XX, chi pensò che tutti i grandi partiti moderni, ivi compresi quelli democratici e socialisti, fossero strumento di formazione e conservazione oligarchica. E vi fu chi ritenne, come Lenin, che il partito dei rivoluzionari di professione – un’élite militante – fosse in grado di sopperire al deficit di coscienza della classe che pure della rivoluzione avrebbe dovuto essere il soggetto. Il partito, in forma descrittiva o prescrittiva, cominciò insomma a essere presentato anche come sostituto dell’azione politica e sociale. Importante fu inoltre il rapporto che storicamente si instaurò tra lo stato e i partiti. In un primo tempo fu conflittuale, in quanto lo stato temette che i partiti potessero usurparne le prerogative e corroderne dall’interno la sovranità. In un secondo tempo stato e partiti s’ignorarono, in quanto si convinsero di avere a che fare l’uno con la sfera pubblica e gli altri con la sfera privata. E che il parlamento potesse essere il luogo della mediazione e dell’inevitabile incontro tra le due sfere. Si arrivò poi alla legalizzazione di fatto e i partiti divennero a loro volta, in un modo o nell’altro, istituzioni almeno in parte legittimamente pubbliche. Infine si arrivò alla compenetrazione. Tanto che si è parlato, soprattutto per i regimi autoritari o totalitari, di stato-partito e di partito-stato. Talvolta anche per i regimi democratici si sono usate, con intento polemico, espressioni di tal fatta. Nei regimi autoritari o totalitari, comunque, il partito-unico è diventato collettore di consenso, strumento di repressione (attraverso l’esclusione) e di premio (attraverso l’inclusione), macchina mobilitante in permanenza, luogo di indottrinamento e di manipolazione, raccordo continuo tra i capi (e soprattutto tra il capo) e le masse. I regimi democratici sono invece regolati da sistemi di partito, ovvero da modelli di interazione pluralistica tra organizzazioni elettorali, politiche e sociali in competizione tra loro al fine di arrivare, da sole, o in forma coalitiva, alla formazione del governo. Non si conoscono del resto esempi di democrazie moderne, e quindi di democrazie di massa, in grado di funzionare e di essere tali senza la presenza, e sia pure con forme diverse di invadenza, dei partiti. Ogni realtà nazionale, dotata di una propria tradizione storico-culturale, di un proprio costume politico, di una propria specifica costituzione, e di un proprio meccanismo elettorale, è provvista di un autonomo sistema dei partiti. Che può mutare con il mutare delle circostanze. La repubblica italiana, ad esempio, con la crisi “morale” del 1992-94, ha vissuto una parziale e non preordinata trasformazione del proprio sistema dei partiti. [Bruno Bongiovanni]