Partito liberale italiano

Formazione politica italiana di centrodestra. Per una lunga fase della storia dell’Italia unita il movimento liberale – protagonista del Risorgimento e poi del governo dello stato con personalità di grande rilievo quali ad esempio Giovanni Giolitti-, rimase una galassia frantumata di gruppi di opinione, di comitati elettorali e di figure eminenti, priva di un programma definito, di una struttura organizzativa in qualche modo salda e di un seguito di massa. In quanto tale, il movimento liberale fu messo in profonda crisi dai processi di modernizzazione dell’agire politico suscitati dall’introduzione del suffragio universale maschile (1912-18) e più in generale dalla massificazione della politica. Più volte invocato da vari esponenti del liberalismo italiano, il Partito liberale nacque soltanto nel 1922, quando stava per consumarsi definitivamente la fase “liberale” della storia dello stato unitario. Fu fondato da Alberto Giovannini, Nino Valeri, Luigi Albertini (direttore del “Corriere della sera”) ed Emilio Borzino. Al congresso costitutivo parteciparono anche Giolitti e Salandra. Inizialmente il partito liberale cercò un rapporto positivo col fascismo, che in quella fase non aveva ancora smantellato le istituzioni e i diritti costituzionali, presentandosi soprattutto come partito d’ordine contro il pericolo socialista. Cercò un’intesa anche col Partito popolare italiano, dal quale si differenziava per alcuni importanti aspetti programmatici: il PLI era favorevole al centralismo amministrativo e alla grande proprietà, mentre il PPI si batteva per il decentramento e per la diffusione della piccola proprietà, soprattutto contadina. Dopo un’iniziale adesione ai governi di Mussolini, il Partito liberale prese le distanze dal fascismo quando il delitto Matteotti (1924) dimostrò che l’anima violenta e illegale del fascismo non era stata solo un fenomeno contingente, ma rispondeva alla sua natura profonda. Sciolto, come tutti i partiti non fascisti, dalle leggi del 1926, il PLI fu ricostituito nel 1942 per sconfiggere il fascismo e ripristinare le libertà civili e politiche. Partecipò alla Resistenza e al CLN e, dopo la caduta del regime fascista, entrò nel governo Bonomi. Presidente del partito fu nominato Benedetto Croce. Il PLI divenne il punto di riferimento per la borghesia laica, moderata e conservatrice. In occasione del referendum istituzionale, diviso tra una sinistra repubblicana (Brosio, Carandini) e una destra monarchica (Edgardo Sogno), lasciò libertà di voto al proprio elettorato, prevalentemente monarchico. La forte presenza monarchica ai vertici del partito fu dimostrata dall’elezione a segretario, nel 1947, di Roberto Lucifero, proveniente dalle file del disciolto Partito democratico italiano (partiti monarchici in Italia). Per l’elezione dell’Assemblea costituente il PLI si era presentato con i vecchi protagonisti dell’età prefascista Orlando, Nitti e Bonomi, nell’Unione democratica nazionale, che ottenne il 6,8% dei voti. Quindi entrò nella coalizione quadripartitica centrista, che governò il paese dal 1947 fino agli anni del centrosinistra, esercitando al suo interno una funzione di freno contro ogni riformismo. Dimostrò il proprio conservatorismo in modo particolare nel 1950, quando abbandonò temporaneamente la coalizione, in opposizione alla riforma agraria promossa da De Gasperi. Tale immobilismo non era condiviso dall’ala sinistra, che nel 1955 abbandonò il partito per fondare, insieme con il gruppo di giornalisti gravitanti intorno a Marco Pannunzio e alla rivista “Il Mondo”, il Partito radicale, favorevole a un liberalismo riformista. Negli anni Sessanta il PLI, sotto la segreteria di Malagodi, si oppose all’apertura della maggioranza di governo ai socialisti e, quando prese l’avvio la fase del centrosinistra, si collocò all’opposizione, proponendo l’“alternativa liberale”. Questa scelta provocò nuove scissioni a sinistra (Democrazia liberale, 1960, Democrazia ’67, 1967) ma consentì al PLI di raccogliere parte dei voti conservatori in fuga dalla DC, raggiungendo il 7% dei suffragi alle elezioni del 1963. Solo con la crisi del centrosinistra il PLI rientrò, pur in modo discontinuo, nella maggioranza, come in occasione del governo di centrodestra Andreotti-Malagodi del 1971. Negli anni Settanta subì un costante calo elettorale, al quale reagì impegnandosi nel 1974 nella battaglia referendaria per difendere il divorzio e affidando, nel 1976, la segreteria a un esponente della sinistra del partito, Valerio Zanone. Ciononostante, il PLI non riuscì più a raccogliere grandi consensi elettorali, rimanendo sempre sotto la soglia del 3%. Ciò indusse Renato Altissimo, segretario dal 1986, a cercare di inserire il PLI in un più ampio “polo laico” con il PRI, in grado di competere con i più forti alleati di governo, la DC e il PSI. Negli anni Ottanta, infatti, superato l’antisocialismo delle gestioni precedenti, il PLI aveva accettato di partecipare alle coalizioni di pentapartito, con DC, PRI, PSDI e PSI. Neanche la politica del polo laico riuscì a risollevare le sorti elettorali del Partito liberale. Lo scandalo di Tangentopoli, che travolse il sistema dei partiti italiani a partire dal 1992, vide il coinvolgimento anche di numerosi esponenti del PLI. Alle prime elezioni politiche celebrate con il nuovo sistema elettorale semimaggioritario (27-28 marzo 1994) i liberali non si presentarono in un’unica lista, ma si divisero, candidandosi alcuni come “Unione di centro” nei Poli delle libertà (al nord) e del buongoverno (nel centro-sud) con Forza Italia, Lega Nord, Alleanza nazionale e Centro cristiano democratico; altri con il Patto per l’Italia di Mario Segni (insieme con il Partito popolare italiano e alcuni repubblicani e socialdemocratici). Da allora ha cessato di esistere come forza politica organizzata.