partitocrazia

Il termine sta a indicare nel suo significato più generale una deviazione patologica nel funzionamento dei partiti nel quadro dei sistemi politici liberali e democratici, in base alla quale i vertici e i quadri di partito assumono nelle proprie mani poteri non legittimati dal popolo e dalle istituzioni. Si ha quindi un indebito “potere dei partiti”, tale da dare origine a un vero e proprio “regime dei partiti”. Nella partitocrazia coloro che esercitano la professione della politica perseguono interessi che si presentano come particolaristici rispetto a quelli dello stato, della comunità politica, degli elettori che rappresentano. Le origini della critica alla partitocrazia, termine entrato nell’uso corrente negli ultimi decenni del Novecento, devono essere rintracciate nella prima metà dell’Ottocento negli Stati Uniti e nella seconda metà di quel secolo in Europa a opera di uomini politici e teorici della politica di orientamento liberale, tra i quali J.C. Calhoun, J. Bryce, M. Ostrogorski, G. Mosca, V. Pareto, R. Michels, i quali criticarono le degenerazioni oligarchiche dei partiti. La critica alla partitocrazia, spesso assimilata al parlamentarismo stesso, divenne anche un tratto tipico sia dell’anarchismo, sia del socialismo e del comunismo antiparlamentari, sia delle correnti autoritarie di destra, dei fascismi e dei movimenti qualunquistici. Tra gli scrittori politici italiani più recenti che hanno rivolto la loro attenzione al fenomeno partitocratico va ricordato G. Maranini. La denuncia della partitocrazia ha avuto un ruolo essenziale nell’Italia repubblicana in riferimento alle pratiche della “lottizzazione”, della corruzione, della distribuzione delle cariche pubbliche e delle decisioni politiche assunte dai vertici dei partiti secondo i propri interessi di potere.